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 Parecchi anni fa, prima che io nascessi, quando la televisione era monopolio statale e gli apparecchi erano solo in bianco e nero ed avevano il comando della sintonia e basta, perché esisteva unicamente il segnale di quella che molto tempo dopo sarebbe diventata RAI 1, c’era un gioco a premi che - come tante cose dei primi anni della TV, “Lascia o raddoppia” per primo - divenne una specie di tormentone. Ti facevano vedere un’ombra proiettata contro un lenzuolo bianco e tu dovevi indovinare cos’era che la gettava. Il gioco di chiamava “L’Oggetto Misterioso”, e ancora oggi l’espressione viene usata saltuariamente per definire qualcosa di cui non si riesce con esattezza a individuare la natura. I Tesla, per me, sono sempre stati una specie di Oggetto Misterioso. Non ho mai capito: 1) cosa si proponevano esattamente di fare; 2) cosa veramente gli piaceva fare; 3) perché abbiano avuto un tale successo. La domanda numero 3 è in relazione ad altri act più o meno contemporanei della band che, nonostante avessero un sound ben definito e talvolta canzoni migliori, non riuscirono ad attirare l’attenzione della gente quanto i Tesla, che nei loro anni di gloria inanellarono dischi d’oro uno dietro l’altro, e ancora oggi figurano regolarmente nel catalogo della Geffen (anche se la major li ha scaricati già da anni e il loro ultimo album è uscito per la Sanctuary). Non stò cercando di insinuare che questa band non valga un fico, solo mi pare che il successo, la rinomanza ed il credito ottenuti siano stati leggermente sproporzionati al valore reale dell’offerta (e vi prego di memorizzare bene quell’avverbio: leggermente). Non è da sottovalutare il fatto che i Tesla godettero dell’incondizionato ed entusiastico appoggio della propria label e poterono contare sui servigi del Q Prime Management, l’agenzia di rappresentanza di Metallica e Def Leppard, ma una promozione massiccia non porta necessariamente nei quartieri alti di Billboard. La mia teoria è che i Tesla si trovarono nel posto giusto al momento giusto: il (piccolo) ciclone dell’hard blues stava per scatenarsi e loro ne divennero i portabandiera anche se la proposta della band era tutt’altro che monocromatica, spaziando lungo un arco che comprendeva ampiamente il metal californiano, una componente mai venuta a mancare nella musica di questa band e che per qualche ragione incomprensibile nessun critico/recensore ha mai sottolineato, come se associare i nomi dei Motley Crue e sopratutto dei Ratt, ai Tesla ne sminuisse in qualche modo il valore... Ed è proprio la coesistenza di questi elementi così (apparentemente?) contrastanti sotto lo stesso tetto che ha generato le domande numero 1 e 2; in sostanza: i Tesla ci servivano un minestrone di generi perché erano tipi eclettici o soltanto per accontentare quanta più gente possibile? Era spontaneità o cerchiobottismo? C’erano o ci facevano? ‘Mechanical Resonance’ uscì nel 1986, ma la band (Jeff Keith al canto, Tommy Skeoch e Frank Hannon alle chitarre, Brian Wheat al basso e Troy Luccketta dietro i tamburi) aveva già conquistato una certa notorietà grazie alla sua attività di supporter per Dokken, Y&T e Eddie Money (quando era ancora senza contratto!); e che attorno a loro ci fosse un movimento notevole è testimoniato anche dal fatto che il primo demo lo produsse nientemeno che Ronnie Montrose. Alla registrazione di ‘Mechanical Resonance’ lavorarono però con il team Steve Thompson / Michael Barbiero, mettendo assieme dodici canzoni che riassumevano bene tutto quanto era scaturito dalla Los Angeles metallica dei mid 80s, aggiungendo però al piatto robuste dosi di blues. Apre “Ez come ez go”, un bell’incrocio Ratt / Great White rovinato a tratti da un cantato lamentoso e con un assolo heavy metal che non c’entra un beneamato cazzo in questo contesto. “Cumin’ atcha live” parte con un intro di assoli incrociati di chitarra e si sviluppa come un classico heavy rock americano alla Montrose, molto settantiano, con una bella fase solista. “Getting better” inizia con altri lamenti da parte di Jeff Keith, una chitarra acustica, poi entra un riff quadrato, aerosmithiano, su cui posa un coro quasi anthemico. “2 late 4 love” è la prima vera perla del disco, il coro è pura matrice Ratt/Crüe, le strofe hanno un fervore che rimanda ai Led Zeppelin, mentre “Rock me to the top” segue gli stilemi dell’ L. A. Metal in un contesto più ispido, con qualche ombra Malice. “We’re no good together”: dov’è finito il metal? Questo è blues (con un occhio puntato ai Great White), che parte lento e accelera nel finale, chitarra slide, pianoforte... super! “Modern day cowboy”: eccolo di nuovo, il metal! Questa è la cosa più Ratt del disco, anche se il canto abrasivo di Jeff Keith fa piazza pulita di qualsiasi tentazione pop. Su “Changes” al pianoforte si unisce l’hammond per un superbo hard melodico bluesato, i ragazzi hanno lasciato Los Angeles e si sono incamminati verso il Sud, le praterie, irrompe “Little Suzi” (cover dei Phd), hard folk blues ruspante con tanto di acustiche e banjo. Sono scatenati, ormai: “Love me” è di nuovo hard blues, tosto, un bridge funkeggiante con tanto di chitarra wah wah, e assolo veemente degno del miglior Joe Perry che si staglia contro le armonie dell’hammond. “Cover queen”: per me, l’apoteosi: un infuocato funk zeppeliniano con Jeff che planteggia sfacciatamente ed un finale accelerato e febbrile. “Before my eyes” conclude ancora in clima blues, ma stavolta metallico, intenso, cupo, quasi sabbathiano, dominato da lunghi assoli ricchi di venature psych. L’impressione poteva essere che la band si muovesse un po’ indecisa, in un clima di “vorrei ma non oso” analogo a quello in cui i Cinderella registreranno due anni dopo ‘Long cold winter’: la facile tentazione del metal per scalare la classifica di Billboard opposta ad una sconfinato bisogno di blues. Ma nel 1989, il secondo album ‘The great radio controversy’ (senpre diretto dalla coppia Thompson/Barbiero) riproponeva pari pari il mosaico di ‘Mechanical...’, senza variazioni di sorta. L’apertura stavolta era affidata ad un episodio di notevole hard rock settantiano metallizzato, “Hang Tough” (ma il coro non fa un po’ troppo Scorpions?), con a seguire il solito metal californiano sulla scia Ratt/Crue di “Lady luck”. “Heaven’s trail” è una festa di slide guitar, un grande hard blues impostato sulla direttrice Montrose-Aerosmith, replicato da “Be a man” in una dimensione più melodica e ottantiana. “Lazy days, crazy nights” è ancora un magnifico tributo ai Led Zeppelin, mentre “Did it for the money” un solido hard rock non tanto distante dalle produzioni contemporanee dei Guns N’ Roses. “Yesterdaze gone” torna a guardare al metal melodico californiano, un pezzo bello sodo, a tratti addirittura convulso, e la stessa fonte alimenta la spettacolare “Makin’ magic”, squisita connection Ratt / Malice con un tocco dei Great White più zeppeliniani. “The way it is” è un superbo hard blues (a cui Slash sgraffignerà il coro per la sua “Beggars and hangers on”, su ‘It’s five o’clock somewhere’) con sfumature southern, veramente bello l’assolo di Frank Hannon. Con “Flight to nowhere” torniamo nella Los Angeles metallica di fine anni 80, “Love song” è una power ballad intensa e bluesata, tramata di hammond e chitarre acustiche. “Paradise” forse è la vetta del disco, parte come una power ballad con il piano a sottolineare una melodia struggente, poi accelera nella seconda metà con un ardore quasi southern sostenuto da un assolo lungo, infuocato, velocissimo. Ma il finale è di nuovo all’insegna dei Ratt, “Party’s over” è quasi un omaggio alla band di Stephen Percy, anche nel cantato di Jeff Keith. La musica non cambierà (in senso letterale ed in senso lato) né su ‘Psichotyc supper’ né su ‘Bust a nut’: sempre un’alternanza di elementi contrastanti che raramente si congiungono, un po’ metal ed un po’ blues, un po’ anni 70 ed un po’ anni 80... in mezzo venne ‘Five man acoustical jam’, testimonianza del loro tour acustico che fu il principale responsabile dello scatenarsi di quella follia collettiva che venne battezzata unplunged e ci afflisse con centinaia (ma forse sono migliaia...) di album più o meno live in cui le chitarre acustiche prendevano il posto delle elettriche per un risultato finale che spesso e volentieri scivolava verso il grottesco. Dopo ‘Bust a nut’, gli ormai cinque milionari si divisero amichevolmente e con la benedizione della Geffen (e questo nonostante il contratto firmato con la major prevedesse altri due album) per dedicarsi a band parallele ed esperienze soliste, salvo tornare assieme nel 2001, prima per un nuovo disco dal vivo, ‘Replugged live’, poi per il recente (2004) ‘Into the now’, che non cambia di una virgola il loro sound, aggiungendoci solo le indispensabili sfumature “moderne” e lasciandoci ancora con quell’amletico dubbio: ci sono o ci fanno...? 
 
 
 
        Era il titolo di una canzone dei
        Foreigner... sporco ragazzo bianco.
        Un monicker che era tutto un programma, scartato quello iniziale di
        China Bull, il quale - a meno di doppi sensi di cui sono all’oscuro -
        non so come potesse rappresentare adeguatamente il carattere di una
        delle più esplosive e straordinarie band dell’hard rock blues
        americano. Una band che c’ha lasciato un solo disco, un lampo
        solitario, un fulmine a ciel sereno; una band che venne silurata dalla
        sua stessa label per quei calcoli da ragioniere che hanno ammazzato più
        gruppi del grunge e della recessione messi assieme. Il suo perno, il suo
        fondatore, era il veterano Earl Slick, un chitarrista che poteva vantare
        nel proprio carnet collaborazioni con gente del calibro di David Bowie
        (il David Bowie vero, non il
        manichino sbiadito a cui da lungo tempo siamo abituati). Reclutato come
        drummer l’ex-Autograph Keni Richards e per il ruolo di bassista lo
        sconosciuto F. Kirk Alley, Slick trattò in un primo tempo con il
        cantante dei grandi Heavy Pettin’, Steve Hayman, ma nella line up
        definitiva il posto di vocalist fu occupato da David Glen Eisley, fresco
        di licenziamento dagli House of Lords. Per Eisley era un cambiamento di
        rotta abbastanza brusco, perché il materiale blues oriented scritto da
        Slick nulla aveva a che fare con il pomp muscolare dei Giuffria e
        l’hard melodico cromato degli House of Lords, ma la scelta si rivelò
        azzeccata, non solo per le indubbie doti del cantante, ma sopratutto
        perché quel suo vocione pastoso e ruvido nello stesso tempo riusciva
        molto più appropriato ai territori scabri dell’hard rock che a quelli
        più levigati e rarefatti in cui s’era mosso in precedenza (questa - of
        course - è opinione del tutto personale dello scrivente). Prodotto
        dal grande Beau Hill, mixato dalla premiata ditta Thompson/Barbiero, ‘Bad
        Reputation’ era un magnifico e personalissimo concentrato di
        hard blues dalle tonalità cangianti, dieci superbe interpretazioni
        della materia hard rock filtrata attraverso le maglie ora fini ora
        ruvide del setaccio del blues. La title track apre le danze imbastendo
        suggestioni root su un telaio AC/DC, ma concedendo largo spazio alla
        melodia, “Lazy crazy” ha un intro da
        cowboy song poi spara un mid tempo infarcito di slide, flavour southern
        con tanto di armonica ed un assolo che è un delirio di svisate degno
        del Mick Moody più scatenato. Ancora umori southern per “Let’s
        spend momma’s money”, caratterizzata anche dal martellare di
        un piano boogie, poi la power ballad “You give
        me love”, tra gli Aerosmith ed i Tesla, smalti di hammond e
        grande melodia. “Dead cat alley” è un
        blues che alterna breaks suadenti e notturni ad un coro stradaiolo e
        cadenzato, dura, inquietante, fascinosa, con un lungo finale
        strumentale: capolavoro! Su “Hammer on the heart”
        i DWB sembrano dei Cinderella più massicci e violenti o dei Riverdogs
        al testosterone, quella melodia maschia, l’intensità nel cantato di
        David mette i brividi... “Hard times”
        è ancora melodia di grande effetto distesa su un tappeto chiodato di
        chitarre luccicanti, spezzata da un breve bridge di keys grandiose. “Soul
        of a loaded gun” è tesa su una chitarra che si muove tra
        riverberi psych, tentazioni root e suggestioni zeppeliniane, i flashes
        di hammond, la melodia sudista, il drumming militaresco impostato sul
        rullante, un bridge anthemico,  l’assolo
        come un patchwork elettrico... super! La grande melodia elettroacustica
        di “One good reason” (diciamo Tesla,
        Riverdogs e qualcosa dei Beggars & Thieves, con un assolo di nuovo
        sublime) prelude alla conclusiva “Badlands”,
        dove la band riesce nella missione quasi impossibile di sposare il pomp
        alla cowboy song ottenendo un risultato che per suggestione, fascino e
        fisicità resta praticamente senza pari (solo i Tangier di ‘Four
        winds’ erano riusciti ad avvicinare queste atmosfere, ma non
        con tanta forza). La produzione di Beau Hill sa coniugare potenza ed eleganza,
        le timbriche della chitarra di Earl Slick sono sempre magnifiche, ricche
        di colore e sfumature, non si cede mai alla tentazione del suono scarno
        fine a se stesso (tentazione a cui finirono per soccombere a volte i
        Badlands: e mi chiedo cosa sarebbe stato il loro primo album se a
        sovrintenderlo fosse stato chiamato proprio Beau Hill anziché il
        “metallico” Paul O’Neill: probabilmente il risultato finale
        sarebbe stato ancora più eclatante di quello che conosciamo). Detto che
        delle non irrilevanti parti di tastiere si occupa David Glen Eisley (e
        non c’è da meravigliarsi che siano tanto autorevoli e fascinose,
        considerato che David ha avuto come maestro un certo Greg Giuffria...),
        resta solo da rammaricarsi della brevissima vita di questa band
        eccezionale, che dopo un solo tour andò in pezzi, con Earl Slick che
        finì per unirsi ai Little Caesar (anche loro grandissimi, comunque), e
        D.G. Eisley che andrà vagando tra un progetto e l’altro e nel 2000,
        con l’album ‘Lost tapes’, ci renderà
        conto di quello che poteva essere e non è stato, pubblicando i demo di
        tre canzoni che erano destinate ad un secondo disco mai inciso:
        malinconica coda di un progetto che avrebbe meritato vita molto più
        lunga di quella che un pubblico poco attento gli concesse. 
 
 
 N.B. 
 Tutto quanto viene dopo gli asterischi è stato ovviamente scritto prima che questo disco venisse (finalmente) ristampato nel 2012. 
 * * * 
 
 
		Prima di cominciare a leggere, per
        favore meditate bene su un dato fondamentale
        connesso a questo disco che ho ricavato da un noto ed attendibile sito
        web dedicato all’hard melodico: la sua quotazione media nelle aste su
        eBay si attesta intorno ai sessanta dollari. Riflettete, ponderate,
        tirate bene le somme. Se, come il sottoscritto, siete assatanati cultori
        dell’hard rock blues ma, esattamente
        come il sottoscritto, spendere sessanta dollari per un CD è qualcosa di
        superiore alle vostre forze, fermatevi qui e non procedete oltre.
        Cacciate Joanna Dean in un angoletto della memoria collegato ad un
        allarme destinato a squillare solo quando (e se) ‘Misbehavin’’
        verrà ristampato. Fine della storia. Non voglio essere considerato
        vostro complice in un consistente ammanco nei conti di casa (magari
        gestiti da un’inflessibile e vendicativa consorte) né tormentarmi
        pensando allo sguardo smarrito dei vostri figli quando fissano il piatto
        pieno di cicoria bollita che gli avete servito per cena mentre dalle
        casse del vostro stereo esce la voce di Joanna che canta “Dirty
        fingers”... Ovviamente, la prima domanda da
        porsi è: li vale, questi sessanta biglietti verdi, ‘Misbehavin’’?
        Dato che, come ci insegna (maccheronicamente) Einstein, tutto è
        relativo, la risposta potrebbe essere: dipende dall’ascoltatore. Se
        costui gradisce l’hard rock bluesato più bollente ed impetuoso, root
        e amplificato, senza fronzoli ma pure senza rozzezze ed ha un debole per
        le voci femminili toste, la spesa - come si suol dire - vale l’impresa (almeno in
        teoria: approfondire il discorso in tutte le sue implicazioni,
        sopratutto morali, ci porterebbe lontano). Ma chi è questa signora per cui ci
        si accapiglia a furia di rilanci bestiali nelle aste on line? Prima
        della pubblicazione di questo suo primo ed unico disco, Joanna Dean
        aveva girato gli USA lavorando non solo come cantante e corista ma anche
        come batterista (e questo dato già potrebbe dare indicazioni sul
        carattere della ragazza). Rientrata nella natia Memphis, riuscì ad
        agguantare un contratto per la Polygram e ad incidere l’album in esame
        con una support band che si faceva chiamare Big Noise, composta
        dall’’ex-Creed Steve Ingle (chitarre), Roy Vogt (basso) e Roger Cox
        (batteria). Prodotto da R. Eli Ball, ‘Misbehavin’’
        non era sicuramente un prodotto concepito per sbancare le classifiche.
        Il materiale era tutto scritto dalla band, salvo per una cover del
        classico dei Rolling Stones “Gimme shelter”,
        un brano composto da Taylor Rodes e Tom DeLuca, la già citata “Dirty
        Fingers”, e l’apripista “Saturday
        Night”: rock blues ad elevato voltaggio, dominato dalla voce
        superba di Joanna, quasi una Bonnie Rait più potente e meno raschiante,
        come velluto ruvido incrostato di diamanti. Naturalmente, nulla avrebbe
        vietato a questo disco di vendere qualche milione di copie (l’avevano
        fatto anche Tesla e Guns N’Roses in quello stesso periodo, proponendo
        del materiale che non era certo più commerciale di quello contenuto in
        ‘Misbehavin’’), ma il problema stava
        piuttosto nel far sapere alla gente che il disco esisteva. La solita,
        irrisolta questione della promozione: registriamo pure un disco, ma poi
        lasciamolo a prendere polvere negli scaffali dei negozi... Capisco che
        una label non possa spendere milioni di dollari per pubblicizzare ogni
        album che pubblica, ma un minimo di supporto in più agli esordienti
        (quelli che ne hanno davvero bisogno) sarebbe sempre opportuno.
        Sopratutto se l’esordiente aveva tirato fuori un disco di tale e tanto
        valore come ‘Misbehavin’’. “Saturday
        night” apre le danze, in senso letterale e in senso lato, un
        boogie alla Georgia Satellites perfetto nella sua essenzialità, assolo
        di slide guitar, e quella voce che graffia e carezza... “Kiss
        this” parla la lingua degli AC/DC, ha un coro anthemico ed un
        testo irriverente e la title track 
        segue sulla stessa scia ma con un feeling più blues, suadente e
        notturno. “I miss the money” e “She’s
        been hearing about me” arano lo stesso terreno battuto da
        Bangles e 4 Non Blondes, ma con un’energia ed una classe che gli ensemble
        citati potevano solo sognarsi, “Burning rubber”
        sembra rubata al repertorio dei Tesla (sapesse cantare Jeff Keith come
        Joanna...), “Dirty fingers” è la
        scheggia più metallica, anthemica, un refrain degno dei Ratt più
        ruvidi, se questa canzone fosse capitata fra le mani di Alannah Myles
        sarebbe diventata un hit mondiale (la incise in quello stesso anno - con 
		il testo opportunamente variato dal femminile al maschile - anche Paul 
		Dean nel suo album 'Hardcore'). “Once is
        enough” è una power ballad stratosferica, ruvida e drammatica,
        un crescendo intenso e privo di manierismi scandito dal piano e da una
        chitarra scabra e implacabile (c’è qualcosa dei Cinderella?).
        Conclude la già citata “Gimme Shelter”,
        riproposta in una chiave decisamente hard rock, sei minuti dove c’è
        gloria anche per la chitarra di Steve Ingle. ‘Misbehavin’’ non fu un
        successone, ma bastò a Joanna per conquistarsi un certo credito e
        mettere su un’altra band, i Bad Romance (con l’aiuto di Eric
        Brittingham, che assicurò un deal con lo stesso management dei
        Cinderella). ‘Code of Honour’ (1991),
        il primo ed unico album dei Bad Romance, seguiva sulla falsariga di ‘Misbehavin’’
        in un contesto meno blues e più hard rocking,
        ma neppure stavolta successe granché, forse a Joanna mancava il fisico
        (carina, ma non precisamente una venere come Alannah Myles) e pare che
        quando una donna si mette dietro un microfono a cantare il rock la voce
        non basti, anche l’occhio deve avere la sua (maledetta) parte, è solo
        una speculazione, forse fu solo sfortuna, e Joanna Dean svanì 
        anche lei nella nebbia che ha inghiottito tanti interpreti sopraffini. Mi chiedo se sia al corrente  delle zuffe telematiche che si
        scatenano attorno ai suoi album, cosa pensi delle quotazioni stellari
        che hanno raggiunto, forse commenterebbe tutto con quella gran risata
        noncurante e sarcastica che chiude “I miss the
        money”... Mi mancano
        tanto i soldi... A noi manchi tu, Joanna. Tanto. 
 
 
 Quella dei Badlands, tutto
        considerato, è una storia curiosa. Godettero di un successo di vendita
        solo moderato, ma oggi non è azzardato ritenerli oggetto di un culto
        quasi fanatico (e i loro album sono sicuramente quelli più richiesti da
        coloro che mi scrivono: “quand’è che recensisci i Badlands?” è
        diventata quasi una domanda di routine). I loro primi due dischi sono
        fra i principi delle aste su e-bay, al centro di rilanci frenetici che
        fanno lievitare i prezzi quasi sempre alle stelle. Meritano tante
        attenzioni? Sembra quasi troppo facile rispondere di sì. Che fossero i migliori,
        in assoluto, non lo credo. Una grande band, non si discute, ma, per fare
        qualche nome, i Lynch Mob di ‘Wicked sensation’, i Salty Dog, i
        Katmandu, i Dirty White Boy potevano guardarli senza arrossire, i
        Kingdom Come ed i Cult invitarli senza imbarazzo a fargli compagnia
        nella folta schiera dei Led Clones. Come abbiano potuto diventare una cult band, francamente
        non so spiegarmelo: non sto provando a sminuirli, cerco solo di capire
        per quale motivo l’attenzione di tanti sia stata catalizzata proprio
        da questa band e non da una di quelle citate prima. E mi sorge il dubbio
        (sgradevole) che tanta devozione al loro nome scaturisca più che altro
        dalla fine prematura del singer, Ray Gillen. E’ la solita vecchia
        storia: gli unici eroi veri, sono gli eroi morti. E nel rock (pare)
        tutti continuano ad avere un maledetto bisogno di eroi. Eroi di cosa e,
        sopratutto, per cosa, non lo so: tutta questa parte dell’immaginario rock è
        degenerata, è stata mercificata ed ha perso qualsiasi senso già alla
        fine degli anni ’60, sempre che si possa dire ne abbia mai avuto uno.
        Il rock and roll fu un’invenzione a mente fredda di Chuck Berry per
        far ballare i ragazzi bianchi: questa è una cosa che nessuno dovrebbe
        dimenticare, mai. Ed i Sex Pistols non intitolarono il loro film “La grande
        truffa del rock’n’roll”? Ma stiamo divagando. Tutto comincia quando Jake E. Lee
        lascia la band di Ozzy (si vuole che avesse mal digerito il ‘Randy
        Rhoads Tribute’, ma fu il madman
        in persona a licenziarlo), e decide di mettere su un gruppo che abbia un
        suono risolutamente blues oriented, entrando subito in contatto con Ray
        Gillen. Come bassista venne arruolato Greg Chaisson (ex Steeler), mentre
        il drummer fu Eric Singer, zingaro e turnista di super lusso per una
        miriade di bands, segnalato a Jake da Ray Gillen, che lo aveva
        conosciuto all’epoca della sua breve militanza nei Black Sabbath
        durante il tour di ‘Seventh Star’ e le
        registrazioni di ‘The eternal idol’,
        (anche se poi le vocals di Gillen vennero eliminate dopo la sua
        dipartita dai Sabbath, e il ruolo di vocalist fu assunto dal bravo Tony
        Martin, che incise quelle della versione ufficiale e conosciuta del
        disco: ma da anni girano nella più grande clandestinità bootlegs di ‘The
        eternal idol’ con Ray alla voce). Il cantante
        veniva dalla infelice esperienza con i Blue Murder (se volete saperne di
        più, seguite il link
        ) e con i Badlands trovava (finalmente!) un
        terreno stabile su cui costruire qualcosa con continuità dopo una lunga
        teoria di progetti falliti e bands in cui finiva sempre per recitare più
        o meno la parte dell’ospite. Pubblicato dalla Titanium,
        etichetta indipendente distribuita dall’Atlantic, di proprietà del
        direttore della rivista Hit
        Parader Andy Secher, l’omonimo esordio era diretto da Paul O’Neill
        - lo storico producer dei Savatage - e mixato da David Thoener. La scelta di O’Neill era
        quantomeno curiosa, con il suo nome legato ad un gruppo prettamente
        metal, e nonostante abbia letto quintali di interviste rilasciate dai
        vari membri della band non ho mai trovato dichiarazioni che la
        giustificassero: non è chiaro se lavorare con lui fu una volontà
        precisa di Jake e Ray, o una mezza imposizione, dato che Paul O’Neill
        era anche il loro manager. Comunque sia andata, è sempre la coppia
        produttore-mixer ad incidere maggiormente sul suono di un album, e
        dunque dobbiamo sopratutto ad O’Neil 
        il clima elettrico, il suono scarno, settantiano, con la sezione
        ritmica in evidenza, la scarsità di overdubs, il mixaggio senza
        fronzoli. Personalmente, questa è una scelta che non condivido, si può
        suonare blues ispido ed avere un bellissimo sound, e chissà cosa
        sarebbe stato questo disco se dietro il banco del mixer ci fossero stati
        Bob Rock (che aveva meravigliosamente prodotto Cult e Kingdom Come, per
        non parlare del primo Little Caesar...), Beau Hill (il suo lavoro con i
        Dirty White Boy era superbo), John Jansen (pensate solo ai Cinderella di
        ‘Heartbreak station’) o il principe Bruce Fairnbairn (l’uomo che
        ha reinventato il suono degli Aerosmith). Ma è molto probabile che Paul
        O’Neill si sia limitato a seguire le indicazioni di Jake, ricostruendo
        quelle atmosfere anni ’70 che il chitarrista aveva in animo di
        evocare. Perché se c’è un disco derivativo, che si appropria
        sfacciatamente ma con classe immensa di quel certo clima musicale è
        proprio ‘Badlands’. Jake e Ray avevano
        due punti fissi di riferimento: Led Zeppelin e Whitesnake. Ed a quei
        capisaldi rimangono abbarbicati, saldamente, a volte spudoratamente. “High
        wire” dice già tutto: il riff rotolante, il gran tuonare della
        batteria, Zep, Zep, Zep a più non posso, il planteggiare sfacciato di
        Ray, l’assolo dal suono sporco e valvoloso, e poi “Dreams
        in the dark”, una scheggia che pare presa da ‘Ready
        and willing’, e Ray che passa con bravura mostruosa ai toni
        sexy/rauchi del David Coverdale dei bei tempi. “Jade
        song” è un minuto e mezzo di arpeggi acustici che fanno da
        intro a “Winter’s call”, di nuovo Zep
        a manetta, fra ‘III’ e ‘Physical
        graffiti’, il folk arcano, le loro marce esotiche, il blues più
        fascinoso, un pizzico di sitar, un fantasma di keys in lontananza,
        assolutamente fantastica. “Dancing on the edge”
        è un riffone massiccio come un blocco di granito, la rotta è ancora
        quella del dirigibile di Jimmy Page, con qualche evoluzione presa a
        prestito da Cinderella e Great White ma con inflessioni più metalliche
        e dirette. “Street cry freedom”: di
        nuovo Whitesnake, quelli più metallici di ‘1987’,
        e magari i Blue Murder del primo album, la seconda parte della canzone
        è più veloce e diretta della prima e fa da rampa di lancio per un
        assolo lungo e allucinato di Jake. Più canonica “Hard
        driver”, ancora su base Whitesnake, poi i quasi sei minuti di
        “Rumblin’ train” ci portano lontano,
        giù, giù al Sud, Lousiana, Texas, quello che preferite, un mid tempo
        che più classico non si può, ma condotto da una chitarra imponente,
        lacerante, qui Ray sembra quasi un Glenn Hughes meno acuto, l’assolo
        è sporchissimo, straripante, Jake chiamava questa roba voodoo
        blues e aveva ragione sacrosanta... “Devil’s
        stomp” inizia quasi country, acustiche e atmosfera folk, poi
        entra un riffone ondeggiante e tutto si tinge di torrido blues, per la
        prima volta escono fuori con decisione le tastiere, un organo Hammond
        incandescente. Chiudeva l’LP “Seasons”:
        i Led Zeppelin la chiamavano “Ten years gone”, ma più che di plagio
        qui possiamo parlare di riscrittura, quasi sei minuti e mezzo di magia,
        una vera piece de resistance,
        quel riff pulsante, l’alternanza elettrico/acustico, la drammaticità
        nel cantato... anche i Tesla c’avevano pensato a saccheggiarla, ma qui
        c’è un’altra classe, e Jeff Keith, quando Ray cantava, poteva solo
        tapparsi la bocca e ascoltare, in silenzio... Sul CD era stata aggiunta
        una canzone, “Ball & chain”, sulla
        stessa falsariga di “High wire” ma con
        un pizzico di blues in più. Il secondo album è del 1991, Eric
        Singer va via e lascia il suo posto a Jeff Martin, l’ex-cantante dei
        Racer X (che si rivela ottimo batterista) ‘Voodoo
        Highway’ (la cover varrebbe da sola l’acquisto...) affonda
        ancora di più in territori root, risultando sicuramente ostico per chi
        aveva apprezzato le tonalità più metalliche dell’esordio, con una
        resa fonica volutamente fumosa negli episodi più hard blues, a
        inseguire quegli anni ’70 su cui la band faceva ormai rotta senza più
        incertezze (ma che nei seventies tutti i dischi suonassero in maniera
        così schifosa è puro mito ed è sufficiente ascoltare un qualunque
        album dei Rainbow o dei Led Zeppelin per rendersene conto... Tanto per
        fare un esempio, ’Raising’, che è del
        1976, ha un suono molto più brillante e definito di ‘Voodoo
        Highway’). Ma a questo punto qualcosa si rompe nei rapporti tra Ray Gillen e Jake E. Lee, contrasti mai chiariti che portano il cantante fuori dai Badlands, i quali prima cercano di tamponare inserendo quale nuovo singer una ragazza, Debbie Holyday, poi supplicano Ray di ritornare per completare un mini tour in Gran Bretagna, tentano ancora di proseguire con John West dietro il microfono (dopo il gran rifiuto di Rob Lamothe, il cantante dei Riverdogs), infine si sciolgono fra (è doveroso sottolinearlo) l’indifferenza generale (dopo aver firmato per la Columbia, i Badlands registrarono però diversi demo che poi - dopo lo scioglimento della band - gireranno come bootlegs col titolo ‘Tribal moon’ finché Gregg Chaisson e Jake E. Lee non metteranno di nuovo mano ai nastri, pubblicandoli per la giapponese Pony Canyon nel 1998 intitolando questo terzo album postumo ‘Dusk’). Jake E. Lee si perderà in un grigio anonimato dal quale è venuto fuori solo molto di recente, Greg Chaisson e Jeff Martin proveranno con i Red Sea a ritrovare la magia dei Badlands in un contesto meno blues e root, Ray Gillen registrerà con i Sun Red Sun, contribuirà a ‘Sacred Groove’ di George Lynch e saluterà questo mondo, ammazzato dall’AIDS, e perfino il finale tragico del film avrà un preludio grottesco, come se il destino proprio non volesse lasciarlo in pace, neanche concedergli un’uscita di scena dignitosa e pulita all’ultimo atto di una vita fatta di delusioni e fregature, c’è MTV che annuncia la sua morte in diretta e Ray che deve telefonargli di persona per informarli di essere ancora vivo... Ma dopo qualche mese, nel dicembre del 1993, l’annuncio non troverà (purtroppo) smentite, Ray Gillen se n’è andato, il circo può mettersi in moto, lo show più macabro, quello che trasforma i perdenti in vita in morti di successo, i Badlands diventano una cult band, i loro dischi - finiti regolarmente nei forati e venduti a metà prezzo perché non li voleva nessuno - vengono ricercati da un pubblico composto (temo) per la gran parte da quelli che non se n’erano mai curati in vita e come necrofori s’attaccano oggi in maniera morbosa ad una band che proprio la loro indifferenza ha ammazzato senza pietà. 
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