|
|
|
A volte, i dischi sono proprio strani. La “stranezza” di un album non si può definire in generale, e non è relativa tanto alla qualità della musica di cui è fatto. Il contenuto dell’unico album dei T-Ride è senza dubbio strano, ma l’album in sé non ha nulla di “strano” (notate le virgolette, please): nella stranezza dei suoi contenuti musicali, è perfettamente coerente. Un esempio di album “strano” è ‘Secret Weapon’ di Howard Leese (seguite il link per i dettagli). E questo primo e unico prodotto a nome TV In Flames, band americana di cui non so dirvi molto, salvo che pubblicò questo ‘Drool’ per la Reprise nel 1993 e nasceva dalle ceneri dei Radio Active Cats, autori di un buon disco nel 1991, uscito addirittura per la Warner. E andiamo a spiegare perché ‘Drool’ si merita se non l’Oscar della stranezza, perlomeno una menzione d’onore nelle liste dei dischi “strani”. La prima track in scaletta si intitola “All Through The Night”, un bluesy rock ‘n’ roll alla Cinderella / Black Crowes / Georgia Satellite che (benevolmente) potremmo descrivere come “ordinario”. “Whiskey And Women” pare rifarsi ai Van Halen, ma in una chiave più blues, e non è più significativa della canzone che la precede e neppure di quella che la segue, la pigra “Pocket Full Of Change”, impostata sulle stesse coordinate di “All Through The Night”, dopo cui troviamo una “No Lookin’ Back” che ha lo stesso vigore dei Delta Rebels, ma risulta più ispida e, soprattutto, è inutilmente lunga. Arriva una ballad con “Love In Motion”: calda, morbida, elettroacustica, ma anche questa è afflitta da una lunghezza esagerata in rapporto alla linearità dell’arrangiamento che finisce per renderla monotona. Siamo quasi a metà del disco, e di tutto quanto ci è stato proposto si salva ben poco. Che aspettative possiamo mai avere per quello che resta? È una regola dettata dal più elementare buon senso piazzare tutto il meglio che si è registrato al principio: i filler, le schifezze che magari sei stato costretto a incidere per mettere assieme un album si sbattono in fondo…. Invece è la track numero sei la prima scheggia di musica valida che ascoltiamo, “Big Red Train”, sempre debitrice nello spirito ai Delta Rebels, aggressiva e incalzante. Anche “French Kiss” riesce bene, un mid tempo hard blues davvero valido. La title track stupisce con un voodoo blues strumentale di grande finezza, mentre “Give It Up” richiama non solo nel titolo gli ZZ Top, una divertente cavalcata dal ritmo sinuoso con un refrain quasi dance. Con “Jiggle Bones” entriamo nei territori del funky blues, agile e un po’ Tora Tora epoca primo album, “Sin City” fa tanto Kix, anthemica e martellante ma con un’ atmosfera meno festaiola di quella che associamo alla band di ‘Blow my Fuse’. Chiude “Who’s Sleepin’ Outside My Door”, malizioso e scanzonato hard blues che si muove tra armonica e slide guitar, anche questa abbastanza Tora Tora. Tirando le somme: cinque ciofeche ai primi cinque posti della scaletta mentre tutto il buono (ma buono davvero) è concentrato nella seconda parte del disco. È quasi come se con “Big Red Train” cominciasse un altro album. E se questo non è strano (con le virgolette o senza), allora non so proprio in quali casi o circostanze possiamo sentirci autorizzati a usare quell’aggettivo…
Se c’è uno che non mi ha MAI deluso, è Joe Bonamassa… almeno quando lavora per se stesso, dato che, come ho già segnalato, le sue numerose comparsate come ospite nei brani di amici e colleghi raramente hanno strabiliato. ‘Breakthrough’ arriva quattro anni dopo un album di materiale originale, ‘Time Clocks’, che non deludeva ma soddisfava il sottoscritto un po’ meno del solito, almeno in un paio di frangenti. È stato preceduto da una caterva di singoli, ma comprende appena dieci canzoni, come ‘Time Clocks’, però è più breve. È stato accolto dalle solite recensioni entusiastiche e salutato come l’ennesimo capolavoro. Io concordo con i giudizi positivi, ma non posso metterlo sullo stesso piano di ‘The Ballad of John Henry’, ‘Different Shades of Blue’ o ‘Dust Bowl’. Comincia bene con la title track, hard blues dal retrogusto Led Zeppelin e Bad Company, smaltato di organo Hammond. “Trigger Finger”, urgente, serrata, si realizza nel contrasto fra la chitarra ritmica dal suono distorto e la bella cifra melodica soul, accentuata dai cori femminili, con un assolo fatto di note lunghe e morbide, mentre “I’ll Take The Blame” è un robusto blues texano dal classico shuffle, con il pianoforte in evidenza. Con “Drive By The Exit Sign” fa la sua comparsa il funky, ancheggiante e divertito, ma anche qui la melodia, fresca e solare, è di matrice soul. I chiaroscuri caratterizzano sia la power ballad “Broken Record” (che bello quel riffing) che il country elettroacustico arioso “Shake This Ground”, poi con “Still Walking With Me”, saltellante ed elettrica, si torna al blues, spruzzato di soul e funky, a seguire un’altra power ballad, “Life After Dark”, più drammatica e policroma rispetto a “Broken Record”. “You Don’t Own Me” mi dice poco, una cavalcata dal riffing monolitico che fa tanto british rock (il primo nome che mi è venuto in mente durante l’ascolto è stato quello degli Huriah Heep, ma il paragone prendetelo con le molle), mentre “Pain’s On Me” chiude benissimo l’album con uno slow blues nello stesso tempo vivace e notturno. E questo è quanto. Soul (in prevalenza) e funk sono più presenti del solito rispetto al passato (prossimo e remoto), Joe suona sempre da maestro, però… Non c’è un’altra “Happier Times”, una nuova “Oh Beautiful” o “Dust Bowl”. ‘Breakthrough’ è un album senza picchi. Non voglio spingermi fino a parlare di “routine competente”, ma, come il suo predecessore, ‘Breakthrough’ ci dice che il songwriting di Joe si è fatto meno brillante e avventuroso: non delude, ma certo non strabilia più.
E dalli coi tributi… Ma questo è dedicato ai divini Bad Company (il primo in assoluto, pare), sponsorizzato e pubblicato dalla band stessa. E allora, come si fa a resistere alla tentazione di mettersi all’ascolto, anche se la certezza che non ce ne saranno più di un paio è praticamente matematica? Senza indugi, procediamo con un rigoroso track by track. “Ready For Love”: Hardy la reinventa senza snaturarla, dandole un flavour moderno, sia nei suoni (di tastiere e chitarre) che nel clima generale freddino, ma senza andare a toccare la melodia. Nel complesso, un’interpretazione rimarchevole. “Shooting Star”: dagli Halestorm non potevamo aspettarci carezze, e difatti la canzone è irruvidita e indurita in senso heavy metal, diventando quasi un anthem. Lzzy fortunatamente si astiene dal lanciare quelle urla belluine e spacca tonsille che le stanno rovinando la voce, ma non rinuncia a prodursi in un cantato a volte fin troppo vigoroso. “Feel Like Makin’ Love”: Slash ce la propone quasi filologica, però l’interpretazione di Myles Kennedy risulta curiosamente dimessa, forse perché è costretto a cantare su una tonalità più bassa di quella che gli è naturale. “Run With The Pack”: i Blackberry Smoke la fanno un po’ meno spavalda di quanto dovrebbe essere, ma su un bel tessuto sonoro ricco di sovrincisioni di chitarre e tastiere. “Rock ‘n’ Roll Fantasy”: il bel suono grasso di chitarra che gli Struts si inventano la rende spettacolare e coinvolgente. “Bad Company”: non avevo mai sentito nulla di questo Charley Crockett che pare sia una stella del country, ma è bravissimo a cucire una cover filologica senza complessi, nello stesso tempo fascinosa e drammatica, con un bell’arrangiamento che si snoda tra chitarre dal suono caldo e vintage, pianoforte e Hammond. “Rock Steady”: i Dirt Honey la irruvidiscono, rendendola più selvatica e turbinosa, cavandosela benissimo. “Burnin’ Sky”: i Black Stone Cherry qui sbagliano quasi tutto: troppo rumorosa, troppe chitarre rudi e metalliche, si perde il contrasto che deve esserci fra le strofe lente e ipnotiche e quel coro tempestoso. La versione che ne dettero anni fa i Lynch Mob (su ‘Sun Red Sun’) era molto superiore a questa. “Seagull”: quasi non riconoscevo Joe Elliot, che canta pure lui su un registro più basso del consueto. I Def Leppard (ma sono accreditati anche Paul Rodgers e Simon Kirke) le inventano un finale elettrico che non so quanto sia valido in una ballad dal tono così sognante. “All Right Now”: è una canzone dei Free, ma Paul Rodgers e Simon Kirke erano giusto metà dei Free e questo è il loro brano più famoso, e allora… I Pretty Reckless ne fanno un’ ottima versione hard rock, e Taylor Momsen ha quella voce così sexy: funziona. Dunque, una raccolta di cover tutt’altro che malvagia. Hardy risulta il più creativo, i Black Stone Cherry (proprio quelli da cui mi aspettavo di più) i meno efficaci nel rifare. Ascolterò ancora ‘Can’t Get Enough’? Forse. Magari solo per curiosità. Quando gli originali li hai sentiti tante e tante volte e per così tanto tempo, qualsiasi variazione ti suona se non sacrilega, perlomeno fuori luogo. E se ti viene voglia di ascoltare i Bad Company, perché dovresti accontentarti dei surrogati quando puoi goderti gli originali?
|