RECENSIONI IN BREVE

 

AORARCHIVIA

BARAKADE "Volume I"

Il moniker non ha un suono invitante nella nostra lingua, ma questa band di cui ci resta una sola testimonianza era tutt’altro che malvagia. Lo spettro sonoro andava dall’hard melodico (“Never Wanted to Say Goodbye”, con qualche ascendenza Bon Jovi; le atmosfere fresche e luminose, un po’ Zebra, di “Rain Keeps Falling”; “Oh Jamie”, che potrebbe essere stata ripresa live, e suona molto Journey) al class metal (“Someone Will Pay” richiama gli Y&T con il plus di una interessante chitarra funky; il feeling anthemico e vagamente Scorpions di “Never Cry”; le architetture primi ’80 alla maniera dei Surgin’ di “Keep Running Away”; le acque tranquille delle strofe prima della tempesta in “Out on Edge”) con qualche ballad a guarnire la pietanza (le decisamente power “I Still Dream of You”, “Calling Out” e “Everything to Me”; il crescendo pomp di “So In Love”) e una stranezza (o forse solo una boutade) per concludere, “Lazy or Last Call”, in cui il singer Drew Barrett ci fa sentire quanto è bravo a fare l’imitazione di Elvis Presley. Produzione ottima e resa fonica adeguata promuovevano ampiamente ‘Volume I’: a quando una ristampa?

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Magellan Records - 1996

 

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KNOCK OUT KAINE "Living Breathing Monster"

Questa band inglese è arrivata al terzo album praticando con discreta efficacia il verbo del metal californiano, particolarmente sul versante street, citando alla spicciolata Love/Hate, Babylon A.D., Kix, Faster Pussycat, Crüe e compagnia. Fanno eccezione le tinte glam e un po’ Cinderella di “She's Kinda Like” e quelle southern alla maniera di Tattoo Rodeo e Soul Kitchen di “Mine All Mine”. Strano e inconcludente lo strumentale “Stoopid Iz Az Stoopid Duz” e del tutto fuori luogo la power ballad “Into the Fire” e “Personal Hell”, dove si ricordano all’improvviso di essere inglesi (il cantante smette anche di correggersi l’accento) mettendosi a scimmiottare Who e Queen: se per loro ha un senso… Comunque, per gli amanti del metal made in L.A., le altre sette canzoni valgono un ascolto.

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Autoproduzione - 2019

 

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STORM FORCE "Age of Fear"

La nuova creatura di Greg Fraser (Brighton Rock) esordisce con un album senza infamia e senza lode. La proposta spazia dal metal californiano (“Ride Like Hell”, “Dirty Vegas”, “Marshall Law”, tutte in bilico tra Ratt, Crüe e XYZ) all’hard melodico (“Because of You”, che si divide tra Bryan Adams e i Bon Jovi), dal power metal (la title track e “Ringside”, dense di suggestioni Malice) al class metal (“Weight of the World”, un po’ scura e abbastanza Dokken) con ben cinque power ballad: “Breathe - Words”, cupa e solenne; i toni AOR di “Ember Rain”, che ha qualcosa di moderno; i bei crescendo di “More Than You Know” e “Different Roads”. Ottima la qualità audio, di livello la produzione di Darius Szczepaniak (The Black Crowes, Sum 41, Big Sugar), bravo il cantante Patrick Gagliardi, ma il songwriting non stupisce né infiamma più di tanto.

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Escape - 2020

 

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BILLY MORRIS AND THE SUNSET STRIP "Holdin' All the Aces"

Leggi il moniker e il titolo dell'album, guardi la copertina, ti ricordi che Billy Morris ha suonato per Warrant, Paul Gilbert, St. James e pensi che ‘Holdin’ All the Aces' sia fatto di metal californiano bollente e festaiolo… Errore! Morris prova a gabbare gli ascoltatori piazzando un classico party glam anthem come “Party Like The Weekend Never Ends” al secondo posto in scaletta ma nulla di simile a questa canzone ritroviamo nel resto dell’album che, alla faccia del moniker e della copertina, è fatto di metal e hard rock moderno, e neanche tanto interessante.

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HighVolMusic - 2018

 

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BLACK SWAN "Shake The World"

Un altro supergruppo sponsorizzato dalla Frontiers, questi Black Swan, ma non della stessa risma di L.R.S. e Revolution Saints. Il livello delle composizioni scritte da Robin McAuley, Reb Beach e Jeff Pilson (che produce anche, e molto bene) con Matt Starr a pestare dietro i tamburi è decisamente alto, ponendosi quasi sempre al crocevia tra MSG (quello dove nella sigla la “M” stava per “McCauley”, of course) e gli ultimi Winger. Undici canzoni impostate su un class metal raramente avventuroso ma che la chitarra di Reb Beach rende sempre spettacolare e mai banale. Il meglio sta nel ritmo galoppante e nel riffing un po’ ultimi Whitesnake di “Long Road To Nowhere”, nel refrain molto Scorpions della drammatica “Sacred Place” e nell’imprevedibile crescendo di “Divided/United”. Davvero un buon album.

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Frontiers - 2020

 

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BUXX "Knickers Down"

I Buxx esordirono con un EP a sei pezzi nel 1982 e si sente. Questa band americana era stata chiaramente fulminata dall’AOR dei Loverboy e decise di rifarlo a modo proprio, in una chiave più elettrica (powerpop, in certi casi) ma senza mai rinunciare alle tastiere. L’album comprende le sei canzoni nell’EP più altri quattro (o cinque) pezzi. In un paio di frangenti la fonte di ispirazione diventavano i Journey (quelli pre ‘Escape’), su “Free to Rock” adattavano il sound dei Deep Purple all’arena rock più anthemico, mentre “Take You Back Anyway” arretrava fino agli anni ’70. Il top, nei tempi nello stesso tempo pulsanti e sculettanti di “Hangar 18” e nell’arrangiamento variegato e avventuroso della power ballad “Get Wise”. L’album (con lo stesso titolo dell'EP) venne pubblicato prima dalla band stessa con l’aggiunta di una bonus track, poi dalla Retrospect, che lo ha ancora in catalogo (senza bonus track, però). Per chi ama il rock melodico come si praticava all’alba dei Big 80s, un ascolto quasi obbligato.

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Retrospect - 2012

 

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FRANK VESTRY "My Collection"

Il titolo già dice tutto: un’ antologia personale che il cantante americato ha compilato radunando materiale inciso (e già edito) con le varie band in cui è stato coinvolto, ossia Marcello / Vestry, Last Temptation, Laneslide, Devias, Burning Starr. Il livello delle canzoni presentate varia dall’ottimo all’indecente: il secondo aggettivo si riferisce alla gran quantità di scopiazzature invereconde che marezzano certe track, in particolare “Gone”, prelevata dal disco che Vestry incise dodici anni fa con Rob Marcello, messa assieme tramite un abile collage di tre canzoni del primo album di Mitch Malloy: se ai premi Grammy esistesse una categoria per il miglior copia & incolla, senza dubbio in quel 2008 “Gone” lo avrebbe stravinto. Ma chiudendo un occhio – in certi casi, strizzandoli bene entrambi – questa campionatura della carriera del nostro Frank risulta tutt’altro che sgradevole.

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Lions Pride Music - 2020

 

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IAN MOSS "Matchbook"

I Cold Chisel non erano solo Jimmy Barnes. Avevano un ottimo chitarrista, Ian Moss, che esordì da solista nel 1989 con questo ‘Matchbook’, ottenendo grande successo in patria (numero uno sulla chart locale e 200.000 copie vendute in Australia). Rispetto ai Cold Chisel, qui Moss proponeva una miscela più patinata di rock, r&b e funky, con molti punti di contatto con quanto in quel torno d’anni offrivano Huey Lewis, John Parr e Eddie Money, esibendosi anche al canto con ottimi risultati (aveva una bella voce soul, sul genere di Gino Vannelli). Prodotto da Chris Lord-Alge, ‘Matchbook’ non offre picchi spettacolosi nel songwriting ma si fa ascoltare e piacerà a tutti gli estimatori del pop rock di fine anni ’80.

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Mushroom - 1989

 

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ONE DESIRE "Midnight Empire"

Non disponendo della classica sfera di cristallo non saprei dirvi se il futuro passerà dalle parti dei One Desire, ma è certo che dovrebbe. La band finlandese sa amalgamare passato e presente del rock melodico come poche altre e se non si nega al gioco della citazione (i Journey di “Separate Ways” occhieggiano più di una volta su “Shadowman”; “So Many Tears” degli Shy viene citata nel finale di quell’imponente arena rock intitolato “Through the Fire” che alterna momenti delicati e grandiosi con impeccabile grazia) si dimostra ancora una volta capace di trapiantare temi familiari (ripresi soprattutto da Journey, Ten, Danger Danger, FM) sul telaio del rock moderno sfuggendo ai cliché scandinavi come e meglio degli H.E.A.T. Aggiungete al quadro una produzione di lusso, arrangiamenti sempre policromi e movimentati ed una qualità audio da urlo e il sospetto che ‘Midnight Empire’ sarà il top assoluto del 2020 in ambito modern melodic sfiora la certezza assoluta.

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Frontiers - 2020

 

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BLIND DATE "Blind Date"

La musica dei Blind Date non era niente di speciale: il songwriting discreto vagolava nel già sentito e i buoni arrangiamenti non potevano promuovere nell’empireo canzoni che si limitavano a replicare senza fantasia quanto già avevamo ascoltato da (in prevalenza) Danger Danger, Journey e XYZ. Non un album esecrabile, ‘Can You Feel It’, ma il suo recupero dagli archivi deve essere qualificato come sostanzialmente superfluo.

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Perris - 2004

 

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NAKED CITY "Crawling"

Di questa band si sa solo che aveva come base Las Vegas. Quando venne inciso ‘Crawling’, la Retrospect non lo dichiarò, ma le sonorità sono in prevalenza quelle dominanti nell’hard melodico tra la fine degli anni ‘70 ed i primissimi ‘80. Il songwriting è di gran classe, gli arrangiamenti colorati e variegati, con un intreccio strumentale notevole in cui spicca il dialogo tra il sax e la chitarra che spesso si palleggiano gli assolo. Il top? Forse “Naked City”, con quell’avvincente smalto r&b e la melodia un po’ Toto, o l’AOR hard edged di “The Other Side”. Peccato sia fuori catalogo: una ristampa non sarebbe fuori luogo.

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Retrospect - 2008

 

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J.T. SHELTER "J.T. Shelter"

Il problema di questi canadesi J. T. Shelter (non è un nome ma proprio un moniker) era rappresentato da un cantante, tal J.T. Batten, dotato di una voce tutto sommato discreta, ma che dava spesso all’ascoltatore la strana impressione di trovarsi in bilico sul filo della stonatura. Il tessuto sonoro era ricalcato su quello degli universi sonori di Tyketto e Mitch Malloy, con appena qualche lieve deviazione di rotta (“That’s Fire” guardava al rock melodico dei primi ’80 nello stile – più o meno – dei Surgin’, e anche “Answer me Now” era ambientata in una dimensione più AOR), produzione e registrazione risultavano senza macchia e il songwriting discreto. Naturalmente, essendo una band cristiana, in gran parte dei testi si finiva per cantare le lodi del Signore o lanciare esortazioni stereotipate ad aver fede, pur senza arrivare ai canti da messa di act come le Rachel Rachel. In definitiva: non ignobili, ma sicuramente marginali.

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Kardiak - 1993

 

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GALLERY "Behind The Wall"

Sostanzialmente autoprodotta questa unica testimonianza lasciataci dagli americani Gallery. Avevano una cantante (presentata solo come “Bird”) con una bella voce che suonava come una Fiona più acuta (ma il chitarrista e tastierista Malcolm Smith le toglieva ogni tanto il microfono, e non era una buona cosa dato che il suddetto aveva una voce debole e fessa) e un sound decisamente keys oriented che spesso mescolava il prog all’AOR. Il songwriting era appena discreto: buono l’AOR leggerino di “Let You Go” e le contaminazioni prog della title track e della fascinosa “Wrong Or The Right” (che ricorda gli Heart dei ’70). La quotazione su eBay è elevatissima (ce n’è attualmente in giro una copia da un venditore americano che la prezza 140 dollari), giustificata solo dalla rarità di un album di cui si può tranquillamente fare a meno.

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Suspect - 1991

 

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LODGIC "Nomadic Sands"

Se i World Trade sono stati – bene o male – il preludio agli Unruly Child, i Lodgic sono stati senza dubbio il prologo ai World Trade. Billy Sherwood e Guy Allison con questa band misero a punto una miscela di AOR e prog alla Yes era ‘90125’ che avrebbe trovato ulteriore sviluppo nei World Trade ma risultava già molto accattivante. Sofisticati, a volte un po’ freddi e cerebrali, con un suono keys oriented ed un songwriting meno lucido e strutturato ma già maturo che impastava il prog della rinnovata band di Chris Squire all’AOR primi ’80 di Loverboy, Fortune, Van Stephenson, con qualche stilla di Police soprattutto nell’iniziale “Romance”. Venne ristampato dalla Yesterrock nel 2011 e se le commistioni tra il rock melodico e quello progressivo sono il vostro pane, qui c'è molto in cui affondare i denti.

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A&M - 1985

 

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WHITE LIE "Tellin' Secrets"

Uscì solo su LP questo unico album dei newyorkesi White Lie, e in tiratura estremamente limitata. Varrebbe la pena ristamparlo? Con tanti capolavori dimenticati che attendono una riedizione o di essere trasposti (finalmente) in digitale, dare la precedenza a questo ‘Tellin’ Secrets’ non mi suonerebbe bene. Non è un disco da buttare ma neppure un capodopera. La qualità audio era altalenante, virando dal buono al pessimo quasi senza soluzione di continuità. Il songwriting pure andava su e giù: se “You Drive Me Crazy” era un hard melodico in stile primi ’80 del tutto insignificante, “In My Dreams” risultava invece un class metal agile e spettacolare, il top del disco assieme all’AOR sognante, tutto keys e chitarre acustiche, di “Don't Say Goodbye”. Il resto vagava tra gli universi sonori di Loverboy, Van Halen, Keel e Ratt senza troppa distinzione. Il singer Anthony Debenedetto aveva una voce sul genere di quella di Russell Arcara, ma su una canzone veniva sostituito al microfono ed in un’altra duettava con qualcuno molto meno dotato vocalmente di lui, e che a fatica riusciva a mantenere l’intonazione. In definitiva, possiamo lasciare scivolare nell’oblio ‘Tellin’ Secrets’ senza troppi rimpianti.

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Sniper Records - 1987

 

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INSIDE OUT "Inside Out"

Album discreto, questo esordio degli Inside Out, dove il metal californiano di marca Ratt e Autograph veniva intercalato da stesure hard rock nello stile di Bon Jovi e Tyketto. Il meglio nel riffing molto Ratt di “She’s No Angel” (ma con un refrain quasi d’atmosfera) e nelle architetture elettroacustiche alla Tyketto di “Take me Home”. Purtroppo fu una pubblicazione privata finanziata dalla band, ergo è oggi rarissimo e prezzato a cifre d’affezione (su eBay UK ne è in vendita attualmente una copia a 90 Sterline) che ne fanno un articolo riservato a collezionisti fanatici.

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Autoproduzione - 1993

 

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ROULETTE "If Time"

Chissà perché questa raccolta mista è stata intestata ai Roulette e non ai T.C. Jester. Le band erano guidate dal bravo cantante Bob Wheeler (la sua voce suonava come un perfetto connubio tra quelle di C.J. Snare e Terry Ilous), ma mentre i Roulette sono presenti con le cinque canzoni del loro unico EP del 1991, dei T.C. Jester viene incluso tutto l’album dello stesso titolo uscito nel 1994 solo su cassetta. Fra i due ensemble non c’era molta differenza, i Roulette avevano un sound più vario mentre i T.C. Jester erano focalizzati sul class metal. La qualità audio è pessima su entrambe le release, al punto da non giustificare il recupero di canzoni certo non ignobili ma tutt'altro che memorabili.

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Steelheart Memories - 2017

 

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DENARO "Denaro"

In questi tempi calamitosi, si rispolvera volentieri una band dal moniker così piacevole: moniker che era soltanto il cognome del leader, il chitarrista Mark Denaro, comunque… Prodotto nientemeno che da David Prater, ‘Denaro’ era un album eterogenero: cominciava con “It’s Alright”, praticamente uguale alla “Don’t You Forget About me” dei Simple Minds a cui veniva appiccicato un refrain AOR, proseguendo con otto canzoni di tutt’altra pasta, oscillanti fra il class e lo street metal con frequenti sfumature sleaze, più intense su  “She’s a Digger” (che molto doveva a “Seventeen” degli Winger) e “Bullets in the Sky” (che fa tanto L.A. Guns era ‘Cocked And Loaded’) e una power ballad (“Tell Me Why”) in bilico tra Bon Jovi e Guns N’ Roses. Niente di speciale, anzi tutto molto ortodosso, sia nel riffing che nelle melodie, anche se le esecuzioni sono impeccabili e produzione e qualità audio eccellenti.

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JRS - 1992

 

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GARDNER / JAMES "Synergy"

Janet Gardner fa un doppio passo indietro: associa il marito (nonché chitarrista della sua band e compositore delle sue canzoni) Justin James nel moniker e abbandona tutte quelle commistioni tra classico e moderno che avevano caratterizzato l’album omonimo uscito nel 2017 (il link è a disposizione per chi non ricorda). Questo ‘Synergy’ è tagliato per i nostalgici del suono hard melodico di trent’anni fa, e se pure non ci risparmia furti più o meno clamorosi e autocitazioni (“On a Wire” ha il refrain ricalcato su quello di “Not a Minute Too Soon”, ovviamente da ‘Rev it Up’), soddisfa ampiamente e ci dà almeno due perle: il class metal tempestoso e anthemico di “Lonely We Fight” e le atmosfere maestose ed eleganti di “Flying on Faith”.

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Pavement Music - 2020

 

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MARYANNE SCANDIFFIO's NO ANGELS  "This Ain't Heaven"

Rimasto a prendere polvere per ventisei anni nell’archivio di qualche label, viene finalmente pubblicato l’unico parto di questa band che poteva contare sulla voce fiera e tagliente di MaryAnne Scandiffio e la chitarra di Robbie Parker. Prodotto da Paul Orofino (Danger Danger, TNT, Tyketto), ‘This Ain’t Heaven’ era impostato su un class metal certo non avventuroso ma ben assemblato, con palesi influenze Tyketto, Van Halen e XYZ. Il meglio, nelle atmosfere bluesy di “No Angels” e nel ritmo trascinante di “What You Want”. La qualità audio è senza macchia e la produzione efficace ma tutto viene (quasi) rovinato da un remastering spaccatimpani in perfetto stile loudness war che rende faticoso l’ascolto.

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Heaven and Hell Records - 2020

 

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THUNDERBOX "Thunderbox"

Senza dubbio originali questi Thunderbox, che nel 2000 registrarono il loro primo ed unico album basato su una miscela davvero inedita di southern rock lubrificato da tastiere di netta matrice pomp/prog, con saltuarie derive verso l’hard melodico (la molto Bon Jovi “Learn to Rock’n’Roll”), l’AOR (le atmosfere Toto di “Amsterdam”) e il blues tout court (“Campsite 54”). Arrangiamenti densi, in cui si può trovare di tutto, arricchiti di lunghe fasi strumentali, rendono l’ascolto tutt’altro che tedioso, ma il songwriting non è in sé strabiliante e qualche soluzione sa di cervellotico o di boutade. Consigliato a chi cerca qualcosa di diverso dal solito.

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Retrospect - 2000

 

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TRISHULA "Time Waits For No Man"

Nessun cambiamento di rilievo rispetto all’esordio dell’anno scorso salta fuori nel nuovo ‘Time Waits For No Man’. La band di Neil Fraser continua ad inseguire i Ten (in prevalenza, quelli più Little Angels inspired), ma ibdridandoli più spesso con il moderno suono scandinavo versante H.E.A.T, aggiungendo saltuariamente qualche pizzico Journey (in particolare su “How It’s Supposed to Be”). Il top, mi pare, nei bei chiaroscuri di “The Mighty”, ma tutto l’album è godibile, variando sapientemente le atmosfere fra le dieci canzoni. Un pregevole seguito a ‘Scared to Breathe’, stavolta con una copertina più adatta al nostro genere.

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AOR Heaven - 2020

 

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GRAFITE "Grafite"

Praticamente irreperibile quando venne pubblicato in privato dalla band, oggi il primo album dei Grafite è disponibile per il download su Amazon Music. Disco registrato e prodotto magnificamente, masterizzato addirittura da Bob Ludwig, ma privo di una direzione come spesso accadeva quando le band non lavoravano con un produttore: canzoni molto elettriche vengono alternate a stesure acustiche che possono prendere la forma della ballad (“No Reason to Cry”) o del pezzo d’atmosfera (“Whisper”). I metal californiani “Change” e “Don’t Tearing me Apart” hanno un bel corredo di riff e sono ben spruzzati di tastiere, “So You Think you’re Special” (decisamente sleaze) e “One Thing” (lunatica e funk) guardano verso lo street di marca Kik Tracee o Love/Hate, “She’s a Pig” è un party rock scatenato. Chi cerca qualcosa di moderatamente diverso dal solito nell’ambito dell’hard rock americano dei Big 80s, può rivolgersi ai Grafite senza esitazioni.

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Autoproduzione - 1994

 

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REB BEACH "A View From The Inside"

Mi aspettavo di più da questa seconda fatica solista di Reb Beach. Troppo convenzionale in molti frangenti, soprattutto poco personale, con Reb che pare più che altro seguire le orme di Joe Satriani e Neil Schon invece di sviscerare a fondo le possibilità del proprio chitarrismo. Il meglio lo sento nei tre brani funk: nelle architetture mutanti di “Little Robots”, nelle policromie fusion di “Attack of the Massive”, nelle atmosfere cool di “The Way Home”. “Cutting Loose” piacerà molto a chi ama il suono spettacolare degli Winger anni ’80, “Aurora Borealis” ha il pianoforte di Michele Luppi in bella evidenza, ma ‘A View From The Inside’ farà comunque l’effetto di una (mezza) doccia fredda a chi (come il sottoscritto) riteneva Reb Beach uno di quei chitarristi capace di innovare la materia rock senza stravolgerla.

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Frontiers- 2020

 

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SMALL TOWN TITANS "The Ride"

Moderno ma non del tutto, questo nuovo album degli americani Small Town Titans. I riferimenti sono quelli tradizionali: dai Nickelback (“The Man”) ai Black Stone Cherry (epoca ‘Between the Devil and…’ con “Junkie For You (Hey Mama)”) dagli Shinedown (la title track) agli Alter Bridge (“Let Me Breathe”, anche un po’ Soundgarden, vecchio chiodo fisso della band). “Rufflin’ Feathers”, col suo refrain anthemico , e “Behind The Moon” (dove suonano come una versione più abrasiva degli Skin) mescolano l’hard rock attuale con il classico, “Sex And Candy” ha una pesantezza quasi stoner, “Universal Limits” e “When It All Comes Down” sono heavy e violente, “9 to 5” si risolve in una ballad elettroacustica dalle atmosfere (ovviamente) tetre. Per gli amanti del modern hard rock, è un ascolto tutt’altro che superfluo.

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AntiFragile Music - 2020