Questo pezzo non avrei mai voluto scriverlo: un necrologio per Ronnie James. Per un breve periodo, prima che nel mio universo sonoro entrasse David Coverdale, Ronnie James Dio fu il mio cantante perfetto. L’avevo conosciuto grazie a "Last in line", ma il colpo di fulmine venne quando lo sentii cantare sui primi tre album dei Rainbow, in particolare su ‘Long live rock’n’roll’. Renato Padovano (o Padavona, come si ostinano a scrivere su Wikipedia, anche se questo cognome, in italiano, non esiste), un metro e cinquanta d’uomo che saliva sul palco con degli assurdi zatteroni alti venti centimetri non tanto per vanità quanto per riuscire a farsi scorgere dal pubblico, che non voleva dire a nessuno quando era nato ma aveva cominciato la sua carriera addirittura nel 1957 e s’era scelto un nome di battaglia superbo e arrogante quant’altri mai. Per qualche anno, Ronnie James fu davvero vicino ad essere Dio, poi entrò nei Black Sabbath e cominciò la sua rovina. Dall’hard rock passò all’heavy metal, si calò nel personaggio dello screamer, divenne un modello per tanti heavy singers perdendo quella che era stata la sua dote più grande: la duttilità. Si incancrenì in uno stile di canto solenne, tronfio, epicheggiante e urlato. Non sapeva più ridere o piangere, mormorare, sussurrare: aveva perduto ogni sfumatura. Anche il suo modo di cantare era diventato uno stand up and shout, l’espressività s’era ridotta ad un assalto frontale, le emozioni passavano attraverso una pantomima da circo, sempre sopra le righe. Dov’era finita l’ironia, i sottintesi, il puro divertimento? Svaniti come i fantasmi degli Elf, con il loro rhythm and blues energizzato che gli aveva guadagnato un contratto con la Purple Records e Ritchie Blackmore aveva poi sequestrato per farne la propria band. ‘Ritchie Blackmore’s Rainbow’ fu il primo mattone del castello in cui Ronnie James avrebbe finito per murarsi vivo, ma la sua voce su “Self portrait” è davvero quella di un menestrello, per uno straordinario madrigale cupo e leggiadro, privo di facili sentimentalismi. Ma quanta classe anche in “Black sheep of the family”, rhythm and blues divertito e scanzonato. Ecco chi era Ronnie James una volta, la sua capacità di muoversi senza imbarazzo tra atmosfere antitetiche era strepitosa, forse unica. ‘Rising’ ci dette altre cinque, perfette schegge di hard rock (non conto “A light in black”, noiosa e monolitica fin quasi alle lacrime). “Tarot woman” era il suono del destino, funesto e ineluttabile eppure accolto con una fatalistica scrollata di spalle, quella domanda posta con un tono metà divertito e metà spaventato, come sai che non tornerò indietro, cartomante? “Run with the wolf”, un canto barbarico e pieno di timor panico, precedeva “Starstruck”, ancora rhythm and blues, dove Ronnie James metteva un’ironia che solo un’altra volta ancora avremmo sentito nella sua voce, e il rock’n’roll “Do you close your eyes”, anthem ante litteram (scusate il gioco di parole), dove Ronnie dimostrava di saper infiammare anche i party. Inorridite pure, ma “Stargazer” è la canzone che mi dice meno: per me, è una “Kashmir” in confezione economica, troppo pomposa e inutilmente lunga. ‘Long live rock’n’roll’: l’apoteosi di Ronnie James cantante di hard rock. Otto canzoni e otto volti diversi. Quanti potevano vantare una elasticità del genere ed un’espressività che non scadeva mai nel melodrammatico? La title track è un altro anthem da urlo, “Lady of the lake” ha un’atmosfera di tragedia da far accapponare la pelle e l’interpretazione di Ronnie James ha la forza di quella di un attore drammatico. “L. A. Connection” è un boogie micidiale, dove Ronnie alterna toni furibondi e offesi ad altri scherzosi e malinconici, mentre in “Gates of babylon” riesce ad essere nello stesso tempo e con pari intensità diabolico e romantico. Su “Kill the king” torna in scena l’attore drammatico, questa è una tragedia di Shakespeare, il pathos e la tensione risultano quasi insostenibili, quegli “oh kill!” finali sono addirittura liberatori. Se su “The shed (subtle)” Ronnie James si mette a fare lo spaccone da bassifondi, “Sensitive to light” ci regala la sua ultima interpretazione divertita e beffarda, niente più rock bluesy per lui dopo questo disco. “Rainbow eyes” è l’ultima magia, una ballad interpretata con una sobrietà esemplare eppure la voce di Ronnie James riflette le stesse note crepuscolari, i chiaroscuri struggenti di una canzone che pur dovendo molto a “Stairway to heaven” acquista una vita propria anche grazie a lui, che fino a questo disco poteva farsi chiamare Dio senza (troppo) imbarazzo. Il passaggio ai Black Sabbath, dicevo, inaugurò la fase discendente. Credette di aver trovato un pubblico ed un genere e ci si consacrò anima e corpo. I primi due dischi che registrò con Tony Iommi erano grandissimi, le sue interpretazioni sempre magistrali, ma molto rimaneva fuori dal suo sconfinato registro espressivo. Stava diventando piano piano quel cantante heavy metal di cui non avevamo nessun bisogno. Pure, sopratutto in ‘Heaven and hell’, troviamo una varietà di atmosfere che ammalia, dai toni immaginifici della title track fino al cupo, amaro lirismo di “Lonely is the word”, è un caleidoscopio strepitoso, anche se meno colorato di tutto ciò che Ronnie James ci aveva offerto fino a quel momento. ‘Mob rules’ concluse la trasformazione. Sì, era sempre straordinario in “Voodoo” (dove riesce assolutamente diabolico, e non si può che credergli, quando canta: “call me the devil, it’s true…”) e nell’assalto frontale della title track, ma il cambio di passo emerge tutto in quel notevole hard rock zeppeliniano intitolato “Slipping away”, ringhiato con una ferocia incomprensibile quando un’interpretazione meno sopra le righe non avrebbe potuto che giovare. ‘Holy diver’ rappresentò il principio e la fine. Il principio della sua attività solista e la sua fine come cantante. Un disco dal suono terribile, stridulo e rumoroso, di una secchezza a tratti addirittura irritante. Heavy metal. Be’, c’è modo e modo di fare l’heavy metal, e quello di Ronnie James non mi è mai piaciuto. Anche perché, non si può negarlo, come songwriter lui non è mai stato questa gran cosa. S’inventò un suono e ci restò fedele finché fu possibile, poi tentò di declinarlo verso il commerciale, sempre a modo suo, ma con risultati ben poco lusinghieri. “Rock’n’roll children” non poteva certo fare concorrenza ai Ratt o ai Quiet Riot, né poteva vantare simili ambizioni "Night Music" (definita - fin troppo generosamente - da Beppe Riva un "aborto semi commerciale" nella sua recensione di 'Lock up the wolves' pubblicata su Metal Shock n.75) . Lui aveva perduto quella capacità di variare e calibrare i toni della propria voce. Dov’era potente, diventò scomposto; dov’era tragico, finì per suonare patetico; dov’era magico, si fece teatrale. Qualcuno potrebbe sostenere che lui fu, quantomeno, coerente, rimanendo fedele ad un genere che già a metà anni ’80 era giù di moda, l’heavy metal duro e puro, epico e grandioso, mentre tanti cambiavano pelle per mettersi al passo con quanto il pubblico sembrava apprezzare di più. È vero, ma è anche vero che con quella voce, Ronnie James avrebbe potuto cantare qualunque cosa e quel rinchiudersi nel suo castello di cartone con il drago di plastica che sputava fuoco, le spade di latta e tutti gli ammennicoli dell’immaginario metallaro diventava una sorta di autocastrazione, un esilio volontario: come se un pittore decidesse di dipingere usando sfumature di un unico colore. Quell’impiego furibondo delle proprie corde vocali alla lunga non ottenne altro risultato che di logorargliele, rendendolo negli ultimi tempi quasi afono. Sul disco degli Heaven And Hell – i Black Sabbath sotto falso nome – si faticava a riconoscere in quel rantolo asmatico la sua voce, a credere che era la stessa voce che ai tempi dei Rainbow incantava e lasciava senza fiato. Ma tutto questo, ormai, non ha davvero più importanza. Ronnie James Dio non c’è più, se n’è andato, anche se la sua voce resterà con noi, quella voce che per qualche tempo fu davvero senza uguali. Che in cima alle vostre preferenze ci siano gli Elf, i Rainbow, i Black Sabbath o i tanti dischi dei Dio, neppure conta: l’unica certezza è che dal 16 maggio del 2010, a tutti noi mancherà per sempre qualcosa. |