NOTE DAL WEBMASTER

 

 

DIETRO LE QUINTE DI 'METAL HEALT'

 

 

Forse la storia che sto per raccontarvi vi lascerà uno strano sapore in bocca: perché fa a pugni con quella mitologia rock a cui tutti (incluso chi di rock scrive e prova ad analizzarlo freddamente… o almeno ci prova) finiscono per pagare dazio. È la storia di un’intuizione e della volontà caparbia di un individuo. Ma quest’individuo non è un musicista: è un produttore ed un discografico, Spencer Proffer. È l’uomo che ha portato al successo quella forma di heavy metal melodico che avrebbe dominato le classifiche americane negli anni ’80. Come dite? Sono stati i Quiet Riot? Non esattamente: i Quiet Riot sono stati lo strumento che Proffer ha usato per gettare quel certo genere di rock in pasto agli yankee. Proffer osservò la scena rock dei primi ’80 e decise che mancava qualcosa, qualcosa che aveva visto in Inghilterra negli anni ’70: “Era il 1972, e gli Slade erano diventati una sorta di fenomeno socioculturale in Gran Bretagna. Andai ad un loro concerto e ne sperimentai tutta l’esuberanza: quando Noddy Holder cantò ‘Cum on Feel The Noize’, migliaia di fan si misero ad urlarla assieme a lui, parola per parola”. Dieci anni dopo, negli USA non c’era niente del genere in circolazione. Non che nelle prime posizioni della Billboard 200 non ci fosse musica rock: tra AC/DC, Van Halen, Joan Jett, Journey, Toto, Foreigner e Loverboy, Aldo Nova e Scorpions, di rock ce n’era in abbondanza (molto, molto più di oggi, tra parentesi). Ma era rock, non metal. E mancava di quella qualita anthemica che si trovava nella musica degli Slade e tanto aveva colpito Proffer: chi ci andava più vicino erano gli AC/DC, che però non potevano propriamente essere iscritti sul registro delle band heavy metal. Era una possibilità, dunque, ancora inesplorata.

 

Il 1982 fu un anno chiave per Spencer Proffer. La sua etichetta discografica, la Pasha, ebbe un contratto di distribuzione con la potentissima major CBS. “La cosa positiva” ricorda oggi Proffer, “stava nel fatto che potevo tirare fuori una band esordiente da un garage e affidarla al più potente sistema di distribuzione discografica mondiale. Quella negativa, che economicamente quel contratto mi lasciava un ristretto margine di guadagno, dato che praticamente tutti i ricavi fatti su una band dovevano essere impegnati per il progetto successivo, per non parlare del fatto che tutto il potere decisionale restava nelle mani della CBS. Dopo scoprimmo che la CBS non intendeva agire nella fase di lancio del prodotto: la mia compagnia doveva occuparsi del lancio, loro sarebbero intervenuti con tutte le loro risorse soltanto se gli avessimo dimostrato di avere in mano qualcosa per cui la gente poteva entusiasmarsi ed aprire il portafogli… Comunque, era un’opportunità per entrare nel giro grosso”. Il problema era trovare quel “qualcosa”. L’ispirazione venne a Proffer grazie alla radio: “Ero in studio, stavo lavorando con Eddie Money, quando alla radio passarono ‘Cum on Feel The Noize’, la piazzarono tra ‘Roxane’ dei Police ed una canzone dei Soft Cell… Fu una cosa che mi colpì: il rock anthemico non passava sulle radio americane. In giro c’era grande musica, ma aveva una qualità passiva, non coinvolgeva, non ti faceva cantare a squarciagola. Pensai immediatamente che se fossi riuscito a individuare una band che, per il sound, le vibrazioni che trasmetteva, l’immagine fosse simile agli Slade (che in America non ce l’avevano mai fatta), potevo ottenere un disco di successo, di quelli che la gente richiedeva continuamente ai centralini delle radio”.

Ma bisognava trovare la band. Una sera, Proffer va al Country Club di Los Angeles (storica fucina di gruppi metal californiani) e si trova davanti una band, i Dubrow, che all’istante gli appaiono perfettamente adatti. Anche se quella sera il pubblico era composto da venticinque persone scarse, i Dubrow fecero uno show fragoroso, abrasivo e potente. Proffer si presentò, mostrando le sue credenziali: aveva una label con distribuzione CBS ed era interessato a scritturare una band come i Dubrow, ma a precise condizioni: “Gli proposi di portarli in studio e fargli registrare, a mie spese, tre delle loro canzoni migliori. In cambio, loro mi avrebbero permesso di arrangiare e produrre una canzone che ero certo sarebbe diventata una hit se l’avessero interpretata loro: ‘Cum on Feel The Noize’”. Carlos Cavazo, Frankie Banali e Rudy Sarzo accettarono di buon grado, ma Kevin Dubrow storse la bocca: era il songwriter della band e cantare qualcosa che non aveva composto proprio non gli andava a genio. Ma la proposta di Spencer Proffer era, come quelle che faceva don Vito Corleone, impossibile da rifiutare, anche se l’atteggiamento di Kevin Dubrow non cambiò, tutt’altro: “Kevin mi dette dei problemi spaventosi, prima cercando di intervenire sull’arrangiamento di ‘Cum…’, poi tentando di boicottarla portando gli altri ragazzi della band dalla sua parte”. Proffer voleva trasformare la canzone degli Slade in un arena rock adatto agli anni ’80, e lavorò principalmente sulle parti vocali: "Creai una stratificazione di vocals anthemiche registrando i cori cantati da Kevin, Rudy e Carlos e poi doppiandoli fino a dieci volte. Alla fine, tutti furono entusiasti del risultato, incluso Kevin, anche se continuava a odiarla…

 

Spencer Proffer aveva la canzone giusta, aveva la band giusta (con un nuovo nome, più stuzzicante del semplice casato del cantante: Quiet Riot, moniker recuperato dalla prima incarnazione dell'ensemble), adesso occorreva convincere la CBS. Andò a New York per far ascoltare quanto aveva ai pezzi grossi. Fu un successo? Non esattamente: “Non gli piacque. Anzi, era evidente dalle loro facce che quella roba la detestavano. La trovarono abrasiva, selvatica e tanto rumorosa che anche a volume basso, dissero, faceva venire l’emicrania. Alla fine, uno di loro mi prese da parte e, sia pure con grande educazione, mi disse di riprendermi quella band e di tornarmene da dove ero venuto…”. Qualcun altro si sarebbe arreso, avrebbe gettato la spugna, ma Spencer Proffer credeva in quella cosa, contro tutto e contro tutti: "Dato che virtualmente ogni label nel music business aveva già rifiutato di prendere in considerazione i Quiet Riot, mi ritrovai completamente solo. Ma ero assolutamente convinto che quel materiale potesse funzionare, che i ragazzi avrebbero risposto alla grande a quel genere di musica. I tre mesi successivi li passai a bussare alla porta di ogni label degli Stati Uniti, senza ottenere nulla. Alla fine, tornai alla CBS e riuscii a convincere Walter Yetnikoff, che a quell’epoca era il presidente del consiglio d’amministrazione, a concedermi un deal minimo, giusto quel che bastava a stampare il disco ed a farlo arrivare in qualche negozio". “Qualche negozio” letteralmente, perché la CBS distribuì solo 5000 copie dell’album negli USA. Proffer si rimboccò le maniche e mise mano al libretto degli assegni: comprò, pagandole di tasca sua, altre 10.000 copie e cominciò a spedire ‘Metal Healt’ alle radio. Naturalmente, mandare un album ad una stazione radio non dava la sicurezza che qualche DJ l’avrebbe messo sul piatto e diffuso nell’etere, ma grazie al lavoro di Carol Peters, general manager della Pasha che aveva una fitta rete di relazioni in quel settore, ed alle conoscenze che Proffer in persona aveva con radio FM della California e del Texas, qualcosa cominciò a muoversi: "Li implorai di suonare ‘Bang Your Head’, la canzone che apriva l’album. E funzionò. I centralini delle radio cominciarono a fumare…Nel giro di pochi giorni era diventata la canzone più richiesta nelle città in cui veniva trasmessa. Immediatamente spedimmo per posta le nostre copie del disco a tutti i rivenditori di quelle zone: andarono esaurite in un paio di settimane". Eppure, alla CBS tutti continuavano a rimanere indifferenti. ‘Metal Healt’ aveva venduto già 15.000 copie con la sola promozione di poche radio locali, ma ai piani alti dell’industria discografica il potenziale di quell’album nessuno riusciva ancora a vederlo. Cosa si poteva escogitare per fargli cambiare idea? Mandare la band in tour? Ma con chi e, soprattutto, con quali costi? Non era una cosa che Proffer potesse permettersi. Ma c’era una cosa nuova, nuovissima, che poteva portare i Quiet Riot all’attenzione del suo pubblico potenziale con poca spesa: “Mi telefonò un vecchio amico, Les Garland, che era diventato il capo della programmazione a MTV, il nuovo canale televisivo che trasmetteva videoclip musicali 24 ore al giorno. Les mi spiegò che MTV si guardava sempre attorno, per scoprire cosa succedeva nella musica anche a livello regionale, e mi confermò che avevamo un vero e proprio smash hit in Texas e Oklahoma, poi disse: ‘Fammi avere un videoclip di questa band, io lo mando in onda e vediamo se scatena le stesse reazioni che ha avuto alla radio’. Dio lo benedica per l’ispirazione…”. Proffer volò di nuovo a New York, per mettersi in ginocchio davanti alla CBS e ottenere il denaro per girare il videoclip. E, naturalmente, non ebbe un centesimo. Sì, qualche pezzo grosso dell’epoca cominciava a riconoscere che quella band aveva delle possibilità, ma ad aprire il portafogli per concretizzarle non ci pensavano neppure… Spencer Proffer dovette ancora una volta muoversi in prima persona, cercando scorciatoie e occasioni. “Mi rivolsi alla California Institute of Arts, un bellissimo istituto universitario finanziato dalla Walt Disney Company per supportare artisti e registi promettenti. Ci avrebbero permesso di usare le loro attrezzature e di impiegare gli studenti in cambio di crediti formativi e del loro nome sul videoclip. Avremmo girato nella palestra, con gli studenti come comparse e assistenti. Ora avevo bisogno di trovare qualcuno che facesse il lavoro”. Il punto di partenza fu la copertina dell’album: “La cover era stata un elemento importante per il suo successo, questo tizio con la camicia di forza nella stanza imbottita aveva un corpo da adolescente e con la maschera diventava un adolescente qualunque: l’immagine parlava da sola ad una generazione che stava per entrare da protagonista negli anni 80, e quando i ragazzi se la trovavano davanti finivano per identificarsi con essa. Con il videoclip dovevamo dar vita a quella copertina”. Proffer voleva che il video avesse una qualità surreale, un tono quasi felliniano. Non potendo chiamare a dirigerlo un regista affermato, si mise a cercare un qualche giovane affamato e in gamba: "Chiamai ogni agenzia di Los Angeles per sapere se disponevano di qualche persona di talento che aveva difficoltà a trovare lavoro e possedeva quel genere di visione di cui avevo bisogno. Chiunque avesse girato degli spot pubblicitari bizzarri poteva forse aiutarmi a girare un video musicale bizzarro”. E Proffer trova Mark Rezyka, un regista pieno di talento che non riusciva a lavorare perché considerato troppo fuori di testa. “Mark era perfetto: per me, per i Quiet Riot, per il video di ‘Bang Your Head’. Sviluppammo la storia assieme alla band ed io ci misi i soldi che servivano, ipotecando per la seconda volta la mia casa. Alla CBS finalmente qualcuno si era reso conto di quello che stava succedendo e avemmo da loro un certo supporto e riuscimmo a fare il video con 19.000 dollari”. Il videoclip partì per MTV, andò in onda e dopo un paio di settimane furono i centralini di MTV a prendere fuoco… Le vendite aumentarono in progressione geometrica, la CBS cominciò ad interessarsi seriamente a quella band da emicrania, procurandole un posto da supporter nel tour dei Black Sabbath ed in vari festival. Era fatta. "Dopo sei mesi di questa tenace e costante guerriglia commerciale", ricorda oggi Proffer, "l’album aveva conquistato il disco d’oro". E non si sarebbe fermato lì. Il colpo definitivo fu il videoclip di ‘Cum On Feel The Noize’, sempre girato da Mark Rezyka (che avrebbe poi lavorato, fra gli altri, per Helix, Winger e Kiss). ‘Metal Healt’ fu il primo album di debutto di una rock band ad arrivare al numero 1 della Billboard 200 ed a vendere quasi sette milioni di copie negli Stati Uniti. E questo risultato lo ottenne grazie alla tenacia, al fiuto, alla testardaggine di Spencer Proffer. Una storia d’altri tempi? Probabilmente sì. Non tanto perché viviamo nell’era di YouTube e Facebook, ma perché, in questi tempi di downloading selvaggio, la musica non vale finanziariamente neppure un soldo bucato (a meno che non sia suonata dal vivo), dunque nessun imprenditore scatenerebbe una “guerriglia commerciale” per vendere qualcosa che si può ottenere gratis. E le conseguenze di tutto ciò potete tirarle da soli.