Se dedico un po’ di spazio a questo disco è solo per una sorta di dovere morale, diciamo così. L’ho trovato nella lista delle rarità di AORHEAVEN in versione giapponese a 40 Euro, e temo che su e-bay giri a prezzi ancora superiori. Io posseggo l’edizione originale del 1989 su etichetta CBS, lo comprai usato per 5000 lire una decina d’anni fa, e mai avrei immaginato di avere nella mia collezione una rarità ipervalutata. Passi che, prima della ristampa, i CD dei Signal venissero messi in vendita al miglior offerente, che un demo di una top band possa spuntare cifre a due zeri... ma questo disco, pur essendo nient’affatto malvagio, non merita proprio di entrare nell’empireo delle lost gems. Si tratta della prima e - a quanto so - unica testimonianza lasciataci da Gene Marchello, virtuoso della chitarra e cantante. Nella sua band, oltre ad una indispensabile sezione ritmica, figurava anche un tastierista che faceva più che altro atto di presenza, dato che il suono del disco era imperniato quasi esclusivamente sulla chitarra di Gene. Il vero nume tutelare era Peppi Marchello (il rapporto di parentela tra i due non mi è noto), già leader di una band di seconda schiera, i Good Rats, e poi produttore per Fiona: produceva e scriveva - da solo o con Gene - tutte le canzoni tranne una. Il disco, a fronte di una copertina semplicemente orribile, ha un bel suono, con una cura particolare per le timbriche della chitarra. Gene mette in mostra una voce potente, ancora acerba, ma è chiaro come il sole che, più che cantare, quello che gli interessa davvero è farci sentire quanto veloce sanno muoversi le sue dita lungo la tastiera della chitarra: il disco si conclude con uno di quegli strumentali sconclusionati e privi di qualsivoglia filo logico che hanno il solo scopo di deliziare i fanatici dei guitar heros, mentre la title track ha una prolungata parte solista dove il nostro si mette in scena con acrobazie un po’ indecise tra il puro heavy metal e il più indigesto neoclassicismo Malsteeniano. Le altre canzoni si muovono nei territori del melodic metal americano con uno stile un po’ alla mid 80s , diciamo alla Sammy Hagar/Malice/Scorpions, con qualche intrusione Journey nei refrain di “Brown eyes” e “What if”, ed un paio di power ballads ( “Love begins again”, “Winners never lose”) in cui lo spettro della band di Klaus Meine si fa più consistente. In definitiva: un disco grazioso, ma non certo da annoverare tra quelli in grado di sconvolgere una vita. E assolutamente non meritevole di un grosso sforzo economico per entrarne in possesso. Non posso non rabbrividire immaginando a quali prezzi girino le autentiche gemme, tipo ‘Modern pilgrim’ di Mark Ashton, oppure l’unico album dei Roxanne, o quello dei Salty Dog, o il primo dei Vain. Le etichette specializzate perdono tempo ristampando dischi minori, trascurabili, dei cui master immagino debbano andare praticamente a caccia, mentre ci sono tante mirabilie che prendono polvere negli archivi delle majors. E così c’è gente che si svena per accaparrarsi questo ‘Destiny’, oppure si butta affamata sulle ristampe di dischi inutili come quelli degli Orphan o degli Statetrooper, e poi nomi come Shangai o Refugee sono per la massa dei fan solo questo: nomi. A quando l’appuntamento con le ristampe serie?
A
questo disco ho accennato nella recensione dei Black’n’Blue, citandolo
come modello di cattiva produzione. Naturalmente, non esiste un
“modello” di produzione, né buona né cattiva. Il produttore ideale
è quello che riesce a dare un input tecnico e creativo rispettando lo
stile ed il carattere che la band possiede, aiutandola ad esprimersi al
meglio: se il gruppo suona sporco, il produttore non deve per principio
“ripulirlo” solo perché a lui le chitarre piacciono con le timbriche
cristalline alla Neal Shon. Ma aiutare la band non significa neppure
sostenerla quando si incammina su una cattiva strada. Cattiva o tortuosa,
come è il caso dei H & H. Howard Leese, storica chitarra solista
degli Heart, che ha lavorato con gente come Ron Nevison, Ritchie Zito,
John Purdell e Duane Baron, dovrebbe avere un’idea ben chiara del lavoro
del produttore, che è anche quello di dare alla proposta dei suoi
assistiti una certa coerenza, un minimo di linearità. In questo disco,
invece, mancano proprio queste due qualità, e badate bene che non stiamo
trattando il lavoro di una crossover band assatanata che nello spazio di
otto battute passa dal nu-metal, al jazz alle citazioni mozartiane. Stuart
Smith - chitarrista, notoriamente fanatico ammiratore di sua maestà
Ritchie Blackmore, che in questa circostanza riesce addirittura a
coinvolgere il suo dio personale nella stesura di una canzone - prometteva
con questo secondo lavoro della propria band una maggior coesione: non si
alternavano più vari cantanti ai pezzi, ma dietro il microfono c’era il
solo Kelly Keeling, grandissimo singer dei grandissimi Baton Rouge. Basta
con gli ospiti e via ad una vera band, anche se il ruolo di bassista
rimaneva scoperto, ed al quattro corde si alternavano Kelly Keeling e
qualche turnista. Il tutto doveva poi essere rilegato ad arte da Leese. Ma
forse neppure Mutt Lange avrebbe saputo come mettere un po’ d’ordine
in questo disco. Non è mia abitudine procedere con il track
by track, ma in questo caso mi pare che sia opportuno e addirittura
necessario. Allacciate le cinture, allora... DOGS
OF WAR:
dopo l’intro di cornamuse campionate parte una scheggia di dinamico hard
rock alla Deep Purple con l’hammond del key-player Arlen Schierbaum in
grande evidenza. Nell’assolo, Smith sembra in comunicazione medianica
prima con il Blackmore di “Highway
star”,
poi con quello dei giorni migliori dei Rainbow. Brano impetuoso, veloce,
sapientemente intricato, che fa presagire fuoco e fiamme settantiane,
ma... WORLDS
APART:
...ma cominciano le sorprese. Perché questo è puro westcoast AOR, solido
ed elettrico, d'accordo, ma sembra di essere finiti di punto in bianco su
un altro disco! IF
ONLY LOVE:
di nuovo AOR, più soffuso, acustico, con un coro che ricorda un po’ i
Surgin ed i Baton Rouge, e non c’è niente di strano, dato che su questo
pezzo hanno messo mano anche Jack Ponti, Jamie Kyle e Lance Bulen. Stuart
Smith non si fa però problemi ad infilarci un assolo alla Blackmore era
Rainbow. JADE:
qui ci ritroviamo nel regno dell’hard melodico e anthemico, alla Baton
Rouge vecchia maniera. L’assolo di chitarra è più class,
fortunatamente. Gran bel pezzo. BROKEN
ARROW:
ancora un cambio di scena: neppure Fregoli sapeva essere tanto veloce!
Classico blues elettrico, lento, d’atmosfera, ben ricamato
dall’hammond, che si conclude con un assolo di Schierbaum davvero
notevole. Smith qui suona dimesso, quasi in sordina. PRISONER:
è la canzone scritta da Kelly e Smith assieme a Ritchie Blackmore, ed uno
si aspetta, ingenuamente, qualcosa alla Purple. Errore! C’è un breve
intro di elettrico e suadente hard blues zeppeliniano e poi il brano si
rivela un up tempo che procede secondo una direttrice di classico AOR
Losangeleno, stile ultimi anni ’80. Soltanto l’assolo è modulato
sugli stilemi cari al Man In Black. AWAY
FROM HARM:
è forse il brano più interessante, un mid tempo, praticamente una
rilettura AOR del sound Rainbow era-Dio, qualcosa di simile a ciò che i
Purple fecero su ‘Slaves
and masters’.
C’è un bel solo di hammond ed un breve bridge strumentale pieno di
citazioni dai primi tre album dell’arcobaleno. Singolare, ma centrato in
pieno. THROUGH
YOUR EYES:
ballatona elettroacustica, i riferimenti possibili sono tanti, da Bon Jovy
agli Aerosmith più commerciali. Vi gira la testa? Beh, non è ancora
finita... WINDOWS
TO THE WORLD:
hard rock yankee, molto alla Distance, o ai The Storm di “Livin’
it up”:
funkeggiante, insomma. Pazzesco! POLITICIAN:
hard bluesato, purpleliano. C’è un bell’intermezzo strumentale
ugualmente diviso tra l’hammond -
Schierbaum è veramente in
gamba - e la chitarra. YEARS
GONE BY:
è uno strumentale, scritto dal solo Howard Leese. Uno pensa subito agli
Heart... niente da fare! Dopo un altro intro di cornamuse, entrano le
chitarre acustiche, poi le elettriche, le tastiere e ci ritroviamo
catapultati nella verde Irlanda: atmosfera celtica, struggente, ma siamo
quasi al plagio della “Johnny
boy”
di Gary Moore. Perfino le chitarre elettriche hanno lo stesso suono di
quelle che il chitarrista irlandese usava su ‘Wild
Frontier’:
bello grosso, pastoso, sporco, saturo e violinaceo. E’
finita? Nada! C’è il brano
nascosto, live in studio, un folk acustico - chitarre, flauto, banjo -
veramente carino e trascinante: se riuscite a tenere fermi i piedi mentre
lo ascoltate siete dei cadaveri. Tirando
le somme: individualmente, prese da sole,
le canzoni sono tutte buone, in certi casi addirittura ottime o
superlative, ma ad ascoltarle così inanellate le une dietro le altre si
resta veramente interdetti. Quest’insalata mista poteva riuscire un
gigantesco disastro, invece il disco si fa ascoltare e riascoltare, e il
merito è principalmente di Kelly Keeling, che si riconferma un cantante
con un paio di attributi grossi così. E’ lui il filo conduttore, quello
che riesce a dare un senso ed una coerenza a questo materiale tanto vario.
La sua voce si adatta alle differenti atmosfere che si rincorrono
istericamente saltando da un pezzo all’altro con un’autorità
impressionante. Prendiamo “Broken
arrow”:
il blues è un campo minato e tante bands eccellenti c’hanno lasciato le
penne tentando di farcisi strada. Tom Keifer, sulla title track del pur
riuscitissimo ‘Long
cold winter’,
faceva sbadigliare, i Poison di “Poor
boy blues”
si salvavano per il rotto della cuffia e l’elenco potrebbe continuare
con nomi più o meno eccellenti che hanno osato misurarsi con una
dimensione musicale che solo i grandissimi come Plant o Coverdale sapevano
interpretare come si conviene. Kelly Keeling qui non si limita a passare
l’esame, lo supera con trenta e lode: ruggisce e sussurra, accarezza e
sbrana. Grande! E se non passo di nuovo in rassegna tutte le canzoni è
solo per non concludere queste note con una sequela di aggettivi: basti
solo dire che su “Jade”
mi è sembrato di risentire i Baton Rouge di ‘Shake
your soul’,
e che Ian Gillan dovrebbe firmare un patto col diavolo per poter cantare
oggi come Kelly fa su “Dogs
of war”. Naturalmente
resta aperto l’interrogativo: cosa avrebbe potuto fare un vero
produttore con tutto questo eccellente materiale ed un grande singer come
Kelly Keeling a cantarlo. Forse oggi avremmo tra le mani addirittura un
capolavoro assoluto. Magari sarà per la prossima. Pensaci, Stuart!
E
dopo i Dare, ecco altri (piccoli) campioni dell’AOR britannico, i
Virginia Wolf. I loro due album sono stati ristampati e - così è scritto
nelle note interne, almeno - rimasterizzati. Be’, lasciatemi dire che
non ho mai ascoltato un lavoro di remastering più fedele all’originale:
ci sono tutti i fruscii e le
distorsioni del disco di vinile, manca solo il rumore della puntina che
sfrega lungo i solchi e siamo a posto... Peccato davvero, perché questi
due album sono un mosaico di suoni ricchi e brillanti, benedetti da una
produzione splendida, che una trasposizione digitale fatta come si deve
avrebbe valorizzato degnamente. Considerata
l’omogeneità della proposta musicale della band ed il livello medio
uniforme delle due produzioni, preferisco concentrarmi sul primo disco,
che sul suo successore ha il vantaggio dell’effetto sorpresa:
chi avrebbe mai potuto supporre che una band inglese potesse
sfornare un lavoro di raffinato, cromato AOR
nel più puro stile delle grandi bands canadesi? La forza dei
Viginia Wolf stava nel riuscire ad appropriarsi di quella formula ed a
metterla in pratica senza citare alcunché: al massimo si poteva cogliere
qualche eco, una risonanza, tracce di quell’ ”organizzazione” del
sound che rimandavano a questa o quella band - i Loverboy e gli Honeymoon
Suite più di altri. Il top?
“Don’t
run away”,
dove le influenze si allargano ai Giuffria del primo album, “Living
on a knife edge”,
dinamica ed aggressiva, “Take
a chance”,
con un bel coro anthemico al confine del pomp (alla Prophet di ‘Cycle
of the moon’,
che però uscirà due anni dopo questo disco, nel 1988), “Goodbye
don’t mean forever”,
perfetta calibratura di armonie pop e chitarre hard, ma tutto il disco è
assoluta delizia per gli amanti del puro AOR, ed il
successivo ‘Push’,
uscito l’anno dopo, non è da meno. Piuttosto,
non aspettatevi chissà che da Jason Bonham, che qui suona come mille
altri batteristi, e solo nella band a suo nome dimostrerà tutto il
proprio valore come strumentista e songwriter, peraltro in territori molto
più hard rock di quelli battuti dai Virginia Wolf (ne riparleremo). Chris
Ousey continuerà a dare buona prova come cantante negli Heartland, che
sopratutto nel loro primo disco replicheranno con discreta efficacia la
formula già sperimentata dalla sua prima band.
Lo so cosa state pensando: ma che c’entra ‘sto disco con l’AOR? Niente. O tutto. Dipende dal modo in cui decidiamo di ascoltarlo, dalle prospettive secondo cui lo osserviamo. L’AOR,
lo sappiamo tutti, ha vissuto la sua grande stagione - creativa e di
popolarità - fra i primi anni ’80 ed i primi anni ’90. Durante quel
periodo, l’hard rock, in tutte le sue sfaccettature, è stato, in linea
di massima, il genere dominante delle classifiche americane. Poi le cose
sono cambiate, in più e più modi: generi e “fenomeni” sono nati e
morti, ed oggi la scena che conta e che è rappresentativa di ciò che
potremmo chiamare comunque “hard rock” ha punti di riferimento ben
diversi da quelli delle bands che andavano per la maggiore vent’anni fa.
Esemplificando: nessuno potrebbe mai ascoltare una canzone dei
Nickelback e scambiarla per una dei Motley Crue. Se è nel metal
che le fratture sembrano essersi fatte più violente ed insanabili, nel
rock genericamente duro pare ci sia ancora spazio per un minimo di dialogo fra le epoche, ma credo che
nessuno si possa illudere su un ritorno di popolarità ai massimi livelli
dell’hard degli anni ’80. Una parte di quegli stessi artisti che
testardamente continuano a interpretare quel genere di rock per uno
sparuto pubblico di nostalgici - pubblico che sempre più di sovente si
rivolge alle ristampe per sopperire alle evidenti carenze in fatto di
ispirazione e mezzi tecnici che troppo spesso caratterizzano le nuove
bands - sta da qualche anno tentando di crossoverizzare il melodic rock
con quelle che non è più possibile definire semplicemente “nuove
tendenze”, ma rappresentano senza discussioni la corrente mainstream
dell’hard rock. Vertical Horizon, SR-71, i nuovi Harem Scarem e parecchi
altri si ingegnano a trasporre elementi del vecchio nel nuovo, con
risultati che - almeno dal punto di vista del gradimento del grosso
pubblico, quello che determina materialmente la nascita di un trend - sono
fino ad oggi meno che soddisfacenti... e non c’è proprio da stupirsene.
Ogni epoca musicale ha il suo manipolo di illusi che pensa di poter
mettere d'accordo i commensali servendo in tavola un’insalatona mista,
con il risultato - generalmente - di disgustarli tutti. La
verità è che il nuovo AOR esiste già, ed è interpretato proprio da
bands come gli Evanescence. La ricetta non è diversa da quella che fece
furore nei big 80’s: prendere
gli elementi ritmici del metal e sposarli a dosi massicce di melodia pop.
Ma, attenzione: metal di oggi e pop di oggi. E oggi metal significa Korn,
Linkin Park, Tool, Marilyn Manson, non certo Judas Priest o Kiss. Il
futuro del rock commerciale - l’aggettivo è odioso, ma inevitabile -
passa di qui, non certo per gli esperimenti di Harry Hess e compagni.
Evanescence, The Rasmus ed altri stanno facendo oggi quello che nei
primi anni ’80 fecero Ratt e Dokken: smussano gli spigoli di generi
musicali troppo violenti e urticanti per la massa. E’ la stessa formula,
in fondo, che dette popolarità ai Nirvana, i quali non fecero altro che
volgarizzare il college rock dei primi REM e le sperimentazioni
noise/hardcore dei Sonic Youth ricoprendoli di un velo di melodia
pop/punk. Niente di nuovo
sotto il sole. Scendendo
nello specifico, ossia ‘Fallen’,
posso solo dire che l’ho trovato infinitamente più gradevole e
stimolante del crossover delle bands sopra citate. Le trame della chitarra
non sono proprio un modello di fantasia, ma le canzoni appaiono
convincenti, e la voce di Amy Lee è davvero magnifica, un po’ Tori Amos
un po’ Julianne Regan, acerba ma piena di promesse. Le atmosfere
vagamente gothic non sono certo quelle adatte ad infiammare un party, ed i
testi che generalmente parlano di amori perduti, sfregiati, sprecati,
maltrattati si sconsigliano
caldamente ai depressi o a chi è fresco reduce da delusioni sentimentali. Il domani del rock melodico, insomma, è questo, che la cosa ci piaccia o no. A meno che quel gemellaggio Queen-AC/DC che i The Darkness stanno portando nei quartieri più alti delle classifiche britanniche non si estingua nel classico fuoco di paglia ma diventi la nuova bomba che abbatterà tutto il castello nu-metal/punk/hip-hop/gothic/industrial/psichedelico edificato negli ultimi tredici anni. Incrociamo le dita...
Dio
ci salvi dai monickers. Dalle etichette, dalle “identità” che i fans
– e solo i fans – difendono contro ogni logica ed ogni evidenza. Per
i fans, i Deep Purple sono la band di ‘In
rock’,
di ‘Machine
head’,
di ‘Made
in Japan’.
Punto. I veri Purple sono
quelli e soltanto quelli. Tutto ciò che è venuto prima, dopo o durante
non conta, non vale, non significa assolutamente niente. Ai concerti
esultano per “Child
in time”,
“Smoke
on water”
o “Highway
star”,
ma – non scherzo, l’ho visto succedere con i miei occhi – non
conoscono titoli come “Mistreated”
o fanno tanto d’occhi quando gli riveli che per tre dischi David
Coverdale è stato il loro cantante. I
Deep Purple hanno fatto a pugni con la loro identità fin da quando Ian
Gillan decise per la prima volta che Ritchie Blackmoore proprio non poteva
sopportarlo e cominciò quei tira-e-molla che lo hanno portato ad entrare
ed uscire periodicamente dalla band. Ogni tentativo di scrollarsi di dosso
il marchio di loudest band in the
world, di far passare in secondo piano i concerti nella Terra del Sol
Levante, le nuvole di fumo sul casinò, i volti scolpiti nella roccia è
stato un fiasco. ‘Perfect
stranger’
era un gran bel modo di affacciarsi sugli anni ’80, ma i fans lo
premiarono, forse? La band preferì così ripiegarsi su se stessa con ‘House
of blue light’
e quell’indecenza che fu sarcasticamente (mi auguro) intitolata ‘Nobody’s
perfect’.
Ascoltando quest’ultimo disco si poteva addirittura avere
l’impressione di una band arrivata al capolinea: pigra, imbolsita e
strafottente. Ma, grazie a Dio, Gillan ricominciò a farsi venire il mal
di stomaco ogni volta che incrociava Blackmoore, e fece di nuovo le
valige. Era una nuova occasione per ricominciare, per darsi una scrollata,
guardarsi un po’ attorno e decidere una volta per tutte se continuare ad
essere la parodia di se stessi o incamminarsi verso direzioni più
fresche, attuali e – magari – remunerative.
E gli sguardi, naturalmente, si volsero agli USA, alla terra
promessa del rock, che per i Purple era sempre stata molto avara di
soddisfazioni economiche. Con
Gillan fuori dai piedi, Ritchie Blackmoore si ritrovò unico ed
incontrastato capitano della barca, e non ebbe dubbi su quale rotta farle
prendere: quella che aveva già seguito l’Arcobaleno nei suoi ultimi,
poco gloriosi giorni. Per il ruolo di singer, dopo qualche timido contatto
con Jimi Jamison, si decise di arruolare il grande Joe Lynn Turner, scelta
di qualità impeccabile, ma sicuramente un invito a nozze per chi era
pronto a sparare a zero su quelli che apparivano sempre più come i nuovi
Rainbow sotto falso nome. Delegato
il compito della produzione a Roger Glover, la band si imbarca dunque per
quell’epica impresa che da vent’anni attendeva di compiersi: occupare
i primi posti della classifica di Billboard. Col senno di poi si potrebbe
dire che non c’era via di scampo a quel nome che mai e poi mai avrebbe
potuto significare hard melodico o AOR, ma l’ascolto di ‘Slaves
and masters’
non
poteva non entusiasmare chi guardava senza pregiudizi un gruppo capace di
reinventarsi in una dimensione meno monolitica e più attenta alla melodia
che in passato, con suoni scintillanti ed arrangiamenti svelti. E se
questa nuova dimensione finiva per farli assomigliare troppo ai Rainbow...
be’, anche i Rainbow erano una grandissima band (anche se personalmente
li ho sempre preferiti quando dietro il microfono c’era Ronnie James
Dio). La
performance di Joe
Lynn Turner cancellava qualsiasi possibile confronto con un Gillan vocalmente già
in pesante imbarazzo: reduce dall’ esperienza breve e
castrante con l’egocentrico Malmsteen ( ‘Odissey’
era comunque un buon disco di class metal, e l’unico frammento della
discografia del chitarrista svedese che sia mai riuscito ad apprezzare
fino in fondo), Turner qui era libero di svariare ed imporre il proprio
stile, passando dall’ AOR levigato di “King
of dreams”
al rithm’n’blues scatenato di “Fire
in the basement”,
dalle cadenze quasi medievaleggianti di “Fortuneteller”,
al drammatico hard melodico “Truth
hurts”.
L’eredità più classica del suono Purple spunta in “The
cuts run deep”
e nella conclusiva “Wicked
ways”,
ma stemperata da suoni più “leggeri”, cristallini e spettacolari, ed
interventi solistici di esemplare concisione. “Love
conquers all”
è una ballatona che non avrebbe sfigurato su ‘Bent
out of shape‘,
“Too
much is not enough”
deborda verso l’arena rock di tradizione yankee ed il pomp più
commerciale, ed è l’unico brano scritto da songwriters esterni (a
Turner si affiancano Bob Held e Al Greenwood). Il top assoluto? Per me,
“Breakfast
in bed”,
blueseggiante saggio di hard rock che si appropria della lezione dei Bad
Company e degli Whitesnake prima maniera, con un Turner davvero da urlo.
Ritchie Blackmoore non sbaglia un colpo lungo tutto l’album: misurato o
ficcante, aggressivo o carezzevole, il suo tocco non perde un grammo della
assoluta magia che lo ha reso una leggenda vivente, mentre Roger Glover
dimostra ancora una volta di essere decisamente più talentuoso come
produttore che nel suo storico ruolo di bassista, confezionando un suono
moderno ed efficace. Ma
nulla poteva sconfiggere la marea dei fans assatanati che non chiedevano
altro che celebrare per l’ennesima volta il rito dell’headbanging
scandito dal riff più semplice e trascinante della storia del rock mentre
una voce cantava di quello che era successo sulle rive del lago di Ginevra
mentre la band era lì con la Mobile a registrare. I Deep Purple
erano i Deep Purple e basta. Fine della conversazione. E
dell’esperimento AOR tentato con ‘Slaves
and masters’.
Di fronte al solito, anemico totale delle vendite in USA, la band non
seppe fare nulla di meglio che licenziare il povero – ed incolpevole –
Turner e rifugiarsi nelle celebrazioni per il venticinquennale che videro
l’inevitabile ritorno di Gillan e la registrazione di un album che era
tutto quello che i fans potevano desiderare, fin dalla copertina. Che il
cantante avesse fissato precisi appuntamenti in studio per incidere le sue
parti solo ed unicamente quando Blackmoore non c’era, che per il
successivo tour si parlasse di alberghi separati per tenere i due quanto
più distanti possibile… be’ questo è soltanto folklore, no? Non
significa assolutamente che l’ennesima, catastrofica reunion
della line up Mk II fosse stata fatta solo per amore dei soldi… E
oggi? Blackmoore si è perso nel suo beneamato Medio Evo, Jon Lord è
andato in pensione… I Deep Purple fanno dischi ormai solo per onore di
firma ed avere la scusa per andare poi in tour a suonare i vecchi classici, con un cantante
virtualmente afono ed un grandissimo chitarrista che però ha troppa carne
al fuoco per concentrarsi su una band in cui praticamente recita soltanto
il ruolo di session-man strapagato. Una band che, almeno quando si è
esibita in TV al Pavarotti and friends, era davvero ridotta alla
parodia di se stessa. ‘Slaves
and masters’
era l’occasione concreta di ricominciare, di avviare un nuovo ciclo.
Un’occasione sprecata o perduta: lascio a voi la scelta.
Potrei
cominciare queste note sui due dischi dei Bonham con qualche
considerazione di filosofia spicciola sul destino artistico generalmente
poco felice a cui vanno incontro i figli dei grandi nomi della musica,
citando magari Julian Lennon o Dweezil Zappa. E’ un fatto che Jason
Bonham, dopo aver tentato con scarsa fortuna la carta dell’AOR
aggregandosi agli Airrace ed ai Virginia Wolf, decise che le sue
possibilità di conquistarsi un posto al sole stavano solo in quel cognome
che lo legava a doppio filo alla più grande band della storia della
musica rock. Così, dopo aver suonato con Jimmy Page nel suo primo - e ad
oggi unico - album solista ed averlo accompagnato in tour, dopo essersi
esibito con Page, Percy e Jonesy al concertone per i quarant’anni
dell’Atlantic, dopo aver ricordato al mondo intero di essere il figlio
di Bonzo, ecco che nasce la band a suo nome, servita da un principesco
contratto offerto dalla Epic, che mette al suo servizio Bob Ezrin per la
produzione del primo album. Tutto, in questo gruppo, sembrava calcolato
per cavalcare la grande onda zeppeliniana che caratterizzò gli ultimi,
luminosi sprazzi di anni ’80, a partire dalla composizione stessa della
band, una formazione a quattro, che comprendeva un vocalist moderatamente
planteggiante (Daniel McMaster), un polistrumentista abilissimo nel
disimpegnarsi con basso, tastiere e violino (John Smithson), un
chitarrista dal felice tocco bluesy
(Ian Hatton), e, naturalmente, il nostro Jason dietro i tamburi. Zep
doveva essere e Zep fu, ma con
garbo e personalità, ed una voglia di sperimentare a cui altri ensemble
felicemente rinunciarono nella loro devozione al suono originale.
I settanta e passa minuti di ‘The
disregard of timekeeping’
(anno di pubblicazione: 1989) si snodano in un originale melange tra
atmosfere zeppeliniane, prog moderno nello stile Yes era ‘90125’/’Big
Generator’,
e concessioni AOR. La title track apre l’album con due minuti di
fascinose divagazioni strumentali chitarra/tastiere/batteria/violino, poi
parte “Wait
for you”
e ogni dubbio sulla volontà del figlio di Bonzo di percorrere i sentieri
paterni crolla sotto i colpi
di questo delizioso omaggio all’immortale riff di “Black
dog”.
Ci pensa poi “Guilty”
a celebrare l’andamento lento
più copiato della storia del rock, quello di “Kashmir”.
Tutte queste citazioni zeppeliniane sono comunque modulate su un registro
più pacato dell’originale, con gran spolvero di tastiere e violino, ed
un Daniel McMaster che segue gli stilemi dettati da Percy senza fanatismi.
“Holding
on forever”
e “Don’t
walk away”
sono invece le tracks più yesseggianti, e dove è più evidente la
presenza ai backing vocals di Travor Rabin, ospite che sospetto non troppo
gradito, dato che il suo nome - a fronte di un impegno non indifferente:
arrangia tutti i cori e suona il basso su tre canzoni - non figura nella
lunga lista degli thanks to...
Anche “Bringing
me down”
chiama in causa la band di ‘90125’,
ma in un contesto più leggero, dove l’armonica del grande Jimmy Zauala
inietta una rovente dose di blues. E poi, grandi pieces ariose e
melodiche, con “Dreams”
e la conclusiva “Room
for us all”
; uno spettacolare anthem, “Just
another day”;
puro hard rock, epicheggiante in “Playing
to win”
e più abrasivo su “Cross
me and see”. Gran
disco, grande band e grande trionfo in USA. Un trionfo che sarebbe stato
sicuramente replicato dal suo successore, ‘Mad
hatter’,
se quest’ultimo album non fosse uscito nel terribile 1992, l’anno
della definitiva affermazione del grunge negli states.
Aspettarono troppo, forse sarebbe bastato pubblicarlo solo un anno prima
per bissare il successo di ‘The
disregard of timekeeping’,
ma ‘Mad
Hatter’
necessitò della bellezza di sette studi (tra registrazione e mixaggio)
per essere completato, con cinque tra produttori e ingegneri che si
alternarono dietro il banco a produrre e mixare. In questo secondo album si assiste ad una netta sterzata hard: scompaiono del tutto i riferimenti al prog rock, alle atmosfere solari di ‘The disregard...’ subentra un clima tempestoso, a volte drammatico e struggente, un suggestivo, ammaliante chiaroscuro che avvicina più che mai la band a territori zeppeliniani. L’introduttiva “Bing” rompe gli indugi proponendo un blues abrasivo e d’impatto, tutto giocato sull’alternanza voce/chitarra, replicata poi da “Secrets” in un contesto più metallico. La title track, è una piacevole divagazione aerosmithiana, tutta fiati e vocals scanzonate, “Ride on a dream” una furiosa, monolitica cavalcata in cui Daniel McMaster sembra sempre sul punto di farsi scoppiare i polmoni. Ma è con “Good with the bad”, “The storm” e “Change of a season” che la band propone una sintesi esemplare dello zep-sound, fra chitarre lancinanti, ondate di tastiere, morbidi ricami di violino, modulando il proprio registro espressivo su atmosfere romantiche e sofisticate , ma nello stesso tempo impetuose ed hardeggianti. “Chimera” recupera suggestioni del primo album, riproponendone la grande estensione melodica in chiave più malinconica e settantiana. Se “Hold on” si sviluppa in un contesto armonicamente insolito, con un finale risolto col solo uso dei cori, è nello strumentale “Los Locos” che forse la band esprime con più compiutezza la sua nuova dimensione: rarefatto e intenso, struggente, pieno di una malia ombrosa, di ombre tenere e luci crepuscolari, è l’autentico capolavoro, la ciliegina sulla torta di un disco straordinario, che omaggia la band di Page e Plant (e Bonham, naturalmente...) senza plagi o citazioni forzate, ma reinterpretando il sound zeppeliniano in una dimensione realmente originale, un passo oltre ciò che avevano fatto i pur bravissimi Kingdome Come del primo album, più attenti a rileggere i pezzi storici ed a inserirli nel nuovo contesto musicale degli anni ’80. Eppure, nonostante il suo immenso valore, ‘Mad hatter’ fu un fiasco totale. E la band non seppe fare di meglio che cacciare Daniel McMaster, trovarsi un nuovo cantante alla moda ( il rauco e scomposto Marti Fredericksen) e votarsi ad un hard rock diretto e fin troppo trendy. Almeno ebbero il pudore di cambiare nome, ribattezzandosi Motherload. Conclusa nell’indifferenza più totale anche quest’infelice esperienza, Jason Bonham ha continuato una carriera di bassissimo profilo con un gruppo a proprio nome che oltre ad un inutile live in studio di cover della band paterna non ha prodotto nulla di significativo.
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