Perché diavolo Danny Tate sia rimasto fuori dalle liste di Heavyharmonies non so spiegarmelo. Ci sono John Kilzer, Mitch Malloy, Jimmy Davies, Henry Lee Summer, ma non lui. Eppure la musica contenuta in questo suo album d’esordio appartiene alla stessa categoria in cui possiamo far rientrare quella dei nomi appena citati: non precisamente, non del tutto, AOR o hard melodico, ma un impasto di questi con quel rock mainstream dei Big 80s che è stato poi battezzato “heartland rock”. Aggiungiamo il fatto che Mr. Tate non è affatto un signor nessuno, ha scritto canzoni di successo per tantissimi act (bastano Rick Springfield, Jeff Healey, Kenny Wayne Shepherd e i Lynyrd Skynyrd?) e colonne sonore per diversi film e molti show televisivi. Come artista solista non ha avuto però fortuna, nessuno dei suoi dischi è entrato nella Billboard 200, probabilmente perché la sua carriera come recording artist è cominciata nel momento sbagliato, dopo l’esordio nel 1984 con ‘Sex Will Sell’ (pubblicato in proprio da Danny), ci fu una pausa di ben otto anni prima che arrivasse ‘Danny Tate’ (stavolta edito da una label vera, e anche di notevoli mezzi, la Charisma) e quante probabilità avesse un disco del nostro genere di entrare nelle charts nel 1992 tutti lo sappiamo. La consonanza della musica del Nostro con quella dei nomi fatti più sopra è confermata (almeno fino ad un certo punto) dal fatto che ‘Danny Tate’ venne coprodotto dal suo autore con Jack Holder, che era stato dietro il banco del mixer anche del pregevole esordio di John Kilzer, e qui suonava anche chitarra e tastiere in una backing band di notevole spessore (comprendeva, fra gli altri, Monty Byrom, Alan Pasqua, Mike Brignardello e un ancora poco noto Warren Haynes). Apriva le danze “Someday”, stesura nello stesso tempo ruvida ed elegante, bel mix tra gli universi sonori di Bryan Adams e Mitch Malloy, e su quella falsariga si muoveva “How Much”, che aggiungeva alla pietanza sfumature Bad Company sapientemente cromate, completando il tutto con un refrain drammatico. Pianoforte, organo Hammond e cori femminili davano pepe al divertente melodic southern intitolato “Lead Me To The Water”, si tornava alle sonorità tipiche di Mitch Malloy nella ariosa balld elettroacustica “Save A Little Love”, ma con “Six Senses” c’era da gridare al miracolo: su un ritmo boogie alla ZZ Top veniva ricamata una track sexy e notturna, dominata da intrecci di chitarre spettacolari e sofisticati in cui andava ad inserirsi con splendida disinvoltura un assolo di chitarra slide. Dopo la ballatona romantica “Paradise Lost”, tutta archi e pianoforte, si ritornava ad un rock da FM maschio e vigoroso con “Winds Of Change”, poi un’ altra canzone da urlo, “Feel Like A Woman”, sorta di voodoo blues cromato fatto di chitarre acustiche potenti ed elettriche insinuanti fra cui vagavano armonica e Hammond. Ombre country e southern smaltavano “No Place To Hide”, svelta e agile alla Mitch Malloy, mentre “The Fever” si rivelava la cosa più AOR: lenta ma con un canto vigoroso, giunta a metà si incendia tornando nel finale morbida e d’atmosfera. La divina “Romance” era notturna e nello stesso tempo policroma, bluesy, sensuale, le chitarre saettano affilate o ci sfiorano morbide come il velluto, “The Taste Of Your Tears” manteneva una precisa cifra AOR pur in un contesto sempre bluesy su una splendida melodia. In chiusura c’era “Angel, Fly”, ballad dalla grande atmosfera che si snodava tra keys e chitarre acustiche. Il songwriting eccezionale veniva esaltato da arrangiamenti fantasiosi pilotati da una produzione stellare e, insomma, ‘Danny Tate’ risulta uno dei più begli album di rock melodico pubblicati in quell’anno tutt’altro che propizio alle fortune del nostro genere che fu il 1992. Non è mai stato ristampato, però gira sul mercato dell’usato a basso prezzo e in notevole quantità e chi ha apprezzato i lavori dei nomi citati al principio non può davvero privarsene.
Cominciamo con una precisazione riguardo il moniker di questa band, che è: Heavens Edge. Non “Heaven’s Edge”. E non è pignoleria sottolinearlo, dato che sia su Heavyharmonies che su Wikipedia i Nostri sono iscritti come Heaven’s Edge… come se poi quel nome non fosse scritto chiaramente e a caratteri cubitali sulla copertina di tutti i loro tre album. Il recentissimo ritorno, a ben 33 anni dall’esordio, ci coglie di sorpresa. Un’altra band gloriosa che rispunta dalle nebbie del passato scatenando in chi ha apprezzato quanto da loro fatto nei Big 80s delusione o magari raccapriccio? Prima di affrontare l’appena edito ‘Get it Right’, rinfreschiamoci un po’ la memoria tornando nel 1990, a quel ‘Heavens Edge’ che fu uno degli splendidi frutti del rock melodico nella sua tarda stagione. Originari della zona di Philadephia come Cinderella e Britny Fox, gli Heavens Edge appartenevano solo molto grossolanamente alla stessa area stilistica dei loro corregionali. Anche se pare che avessero iniziato la carriera in territori nettamente AOR, una volta entrati in studio con Neil Kernon decisero (spinti – sembra – dal produttore) di dare una netta sterzata metallica al proprio sound. ‘Heavens Edge’ è fatto di quel genere (così difficile da definire con precisione) che Beppe Riva battezzò “class metal”, e costituisce una delle sue realizzazioni meglio riuscite. La base su cui gli Heavens Edge gettavano le fondamenta del proprio sound era quella del metal californiano (soprattutto sul versante Ratt), ma l’edificio si sviluppava secondo le linee variegate dettate dagli Winger del primo album e questo quasi inedito connubio è palese fin dall’iniziale “Play Dirty” (con un bridge che fa però tanto Silent Rage), fra le note dell’hard melodico “Find Another Way” (con un middle eight di netta marca Journey), in “Don’t Stop, Don’t Go” (agile, spettacolare, un po’ Skid Row) e “Up Against the Wall” (arena rock con un contrappunto di ottoni scoppiettanti che le danno un sapore un po’ r&b, ricamato di acrobazie chitarristiche). Un riffing agile e sinuoso era spesso il trade mark della coppia d’asce formata da Reggie Wu e Steven Perry, e caratterizzava soprattutto “Skin to Skin” (con un refrain sleaze ed essenziale), “Daddy’s Little Girl” (che ha un coro quasi identico a quello di “Medicine Man” dei Katmandu: un furto operato da Dave King e compagni ai danni degli Heavens Edge, oppure entrambi l’hanno grattato a qualche canzone che non conosco?), “Bad Reputation” (caratterizzata dalle atmosfere cangianti e il lungo bridge d’atmosfera). Se “Can’t Catch Me” procedeva frenetica con la solista in shredding scatenato, anticipando quanto l’anno successivo faranno gli Scream, “Is That All You Want?” era un vero e proprio anthem bluesy, percorsa da una bella slide e infiammata nella seconda parte da una chitarra selvatica (questa canzone, così è scritto nel booklet, venne registrata live in un club di Philadelphia il 17 settembre del 1989: ignoro quanto sia stato ritoccato in studio, ma ritengo che abbiano lavorato come minimo sul rumore del pubblico, dato che in un locale notturno più di un paio di centinaia di persone non possono entrarci, mentre a sentire i boati che accompagnano la band e scandiscono il coro sembra che la ripresa sia stata fatta in un arena da diecimila posti gremita all’inverosimile…). Due le ballad, entrambe su base Journey (dei Journey ovviamente più elettrici): “Hold On to Tonight” (che prende qualcosa da “Who’s Crying Now”, in splendido equilibrio tra strofe e coro), e “Come Play the Game”, più drammatica. Le critiche favorevoli non riuscirono però a spedire questo grandissimo disco molto in alto nella Billboard 200 (solo un misero numero 141 di picco), e con quello che accadde nel 1991, per i poveri Heavens Edge il licenziamento era fatale. Nel 1998, la Perris pubblicò ‘Some Other Place, Some Other Time’, una raccolta di demo che valeva esattamente quanto valgono le raccolte di demo, ossia poco o nulla: una misera coda per una carriera finita troppo presto. Sporadiche reunion per show di beneficenza in questo o quel club della zona di Philadephia non facevano certo sperare in un nuovo album, la morte del bassista George Guidotti nel 2019 spinse addirittura i quattro superstiti a decidere di non esibirsi più con quel moniker, decisione che è però rientrata con l’ingresso nella band di Jaron Gulino (già nei Tantric e poi bassista per quella band eccellente che furono i Mach 22). E, dulcis in fundo, arriva ‘Get it Right’. Che, diciamolo subito, è un buon disco, ma non replica (logicamente?) i livelli dell’esordio. In compenso, non si rifugia nella comoda dimensione dell’autocitazione e ci dice che la band si è tenuta al passo con quello che nel rock è accaduto negli ultimi trent’ anni: non si spiegherebbe altrimenti il fatto che il refrain di “Gone Gone Gone” sia così H.E.A.T… Anche la power ballad “What Could’ve Been” ha un flavour moderno, elettroacustica e con una melodia che arieggia i Def Leppard, mentre “I’m Not the One” è tempestosa secondo la lezione degli ultimi Whitesnake, con strofe quasi d’atmosfera e un refrain suggestivo e policromo. Il class metal dal riffing rotolante (ma abbastanza scontato) che apre l’album, “Had Enough”, pure ha linee melodiche leppardeggianti, “Nothing Left But Goodbye” introduce atmosfere southern nel contesto, con qualche tocco acustico, riff saltellante e una bella slide nell’assolo. “When the Lights Go Down”, fa molto Bon Jovi, anche questa un po’ scontata ma non malvagia, “Raise ‘Em Up”, serrata, galoppante, nervosa, varia bene i toni tra strofe e coro, con “9 Lives (My Immortal Life)” diventano dei Van Halen di grana grossa, fra chitarre che grattano, un canto sfacciato e il refrain diretto, “Dirty Little Secrets” è un class metal ipermelodico, tra il riffing elementare e le vocals molto pop. Il top, per il sottoscritto, arriva, con “Beautiful Disguise”, fatta di begli intrecci di chitarre e melodia in stile Firehouse. Che ‘Get it Right’ potesse reggere il confronto con ‘Heavens Edge’ era improbabile, però questo disco può guardare l’esordio a testa alta e ci restituisce una band che è ancora capace di macinare ottimo rock melodico.
Chi ha letto il pezzo sui Deep Purple di ‘Burn’ forse ricorderà che in quella recensione dichiaravo di non aver mai nutrito soverchia stima per Ian Gillan, sia come cantante che come autore di testi. Non meraviglierà dunque il fatto che della sua carriera solista mi sia sempre interessato pochissimo. Mi colpì però la stroncatura che di questo album scrisse per Metal Shock (naturalmente quando fu pubblicato, nel 1991) un recensore che di Gillan si dichiarava fan sfegatato. Stroncatura non motivata da quei cambiamenti di direzione musicale che di solito fanno incazzare (a torto o a ragione) i fan sfegatati, ma solo dalla scandalosa pochezza dell’album. Quella bocciatura senza attenuanti di ‘Toolbox’ mi rimase impressa e tempo fa, durante uno scambio di mail con un mio assiduo corrispondente, me ne ricordai, e mi venne voglia di verificare se quel disco era stato bistrattato giustamente. Forse un po’ di curiosità ci fu anche trentatré anni fa, ma nel ’91 per verificare avrei dovuto aprire il portafogli, oggi ci sono Spotify, YouTube e altri sistemi, e allora… Qualcuno potrebbe obiettare che, non avendo ascoltato altri lavori del Gillan solita, il mio giudizio sarà valido solo fino ad un certo punto (posto che il mio giudizio su un album abbia un qualsiasi valore), ma mi permetto di dissentire. Quando un disco fa pena, fa pena e basta, anche se chi lo ha inciso ha registrato – prima o dopo quello – dei capolavori. E mi auguro verrà apprezzata l’onestà del sottoscritto, il quale non ha problemi a dichiarare apertamente che questo è il primo lavoro solista di Gillan che ascolta (e, immagino, sarà anche l’ultimo): c’è gente, là fuori, che cerca di darci a bere di aver ascoltato e metabolizzato tutto quanto è stato inciso sul globo terracqueo dall’invenzione del fonografo di Edison fino a dieci minuti fa, non li cogli in fallo su nessuno, chiedetegli via mail che ne pensano di Burt Bacharach, Renzo Zenobi, Steve Lacy o i Tygers of Pan Tang e loro ti spareranno discografia e precisi giudizi su ogni album e magari anche il colore dei calzini che portava l’artista in discorso quando ha inciso questa o quella canzone… naturalmente, dopo aver fatto un’opportuna ricerca su Google, che consente ormai anche a chi non sa un beneamato cazzo di darsi arie da esperto. ‘Toolbox’ non comincia affatto male: “Hang Me Out to Dry” viaggia su un bel riffone alla Van Halen, possiede un gradevole flavour r&b sottolineato dagli interventi dei fiati (mixati però a un volume troppo basso, forse si riesce a coglierne la presenza solo ascoltando in cuffia). Questa canzone però Gillan l’aveva composta assieme a Leslie West, che suonava anche le parti di chitarra. Sul resto del disco il suo partner nel songwriting era Steve Morris, che come compositore non si è mai distinto: bravo a trovare lick e riff di chitarra convincenti (e in questo disco non mancano) ma (almeno a giudicare da quanto ha fatto con le varie band in cui ha militato, e ricordo qui soltanto Heartland e Shadowman) non proprio un drago nello scrivere canzoni. E difatti la musica cambia subito – e non in meglio – con la title track, diretta, selvatica e molto Purple, in cui Steve prova a riprodurre anche le timbriche che associamo alla chitarra di Ritchie Blackmoore, e peggio ancora va con “Dirty Dog”, che poggia su un riff purpleiano inserito in un heavy rock amorfo e scontato. Anche “Candy Horizon” prosegue sulla strada della nostalgia per il viola profondo, serrata, trita, del tutto inutile. Ma “Don’t Hold Me Back” cosa dovrebbe rappresentare? È l’AOR secondo Gillan? Un fondo di tastiere su una trama melodica inconsistente e chitarre che non vanno da nessuna parte: noiosa. Riesce meglio “Pictures of Hell”, heavy metal epicheggiante che Steve Morris riesce a rendere inconsuetamente arioso. “Dancing Nylon Shirt (Part 1)” e “Bed of Nails” sembrano il parto di una versione patinata e vagamente sonnolenta dei Bulletboys (ma la prima non è male), “Gassed Up”, veloce e metallica, torna alle solite tematiche Purple, mentre buono risulta il classico hard rock di “Everything I Need”, robusto e vagamente bluesy. Chiude “Dancing Nylon Shirt (Part 2)”, che si potrebbe interpretare come il rap metal in versione Gillan: a me sembra ridicola, qualcun altro forse la troverà solo tediosa, comunque da dimenticare. Dietro il banco del mixer di ‘Toolbox’ c’era Chris Tsangarides buonanima, uno di quei produttori alla Martin Birch le cui strategie si possono descrivere metaforicamente con l’espressione calcistica “palla lunga e pedalare”… Non proprio un campione di finezze, né uno capace di suggerire soluzioni sofisticate ai propri assistiti: insomma, più un ingegnere che un produttore di quelli in grado di fornire un autentico imput artistico; bravo a fare i suoni e mixare, ma non a dare un po’ di vita tramite un bell’arrangiamento a canzoni magari non eccelse. Perciò, tutto quanto sentiamo qui è farina del sacco di Gillan e Morris, e non esattamente un macinato di gran qualità e finezza. A mio giudizio, dunque, ‘Toolbox’ fa veramente pena. È il classico disco messo assieme dall’ex di una grande band rimasto a corto di idee: se gli viene in soccorso qualcuno che le idee ce l’ha, riesce ancora a produrre qualcosa di buono, ma abbandonato a se stesso non sa fare altro che riciclarsi senza fantasia. Quando si guarda attorno cercando di attualizzare il proprio sound lo fa in maniera superficiale, con poca convinzione, maldestramente. ‘Toolbox’ venne pubblicato solo in Europa, Giappone e Sud America: sbaglia quindi Wikipedia che lo dà edito nel 1998 anche negli USA. È stato ripetutamente e quasi istericamente ristampato, anche se nessuno se lo filò all’uscita, nonostante recensioni – fatta salva quella del fan accanito di cui sopra – mai del tutto negative e anzi in qualche caso apertamente laudative. Non perché fosse un buon album, ma perché era un album di Ian Gillan, e se volete comprendere al volo i motivi che portarono tanti ad apprezzare ‘Toolbox’ vi basta leggere la recensione di Allmusic, tutta impostata sulla nostalgia, sugli echi dei Purple che percorrono l’album, e sul fatto che qui risuona quella voce che aveva cantato “Child in Time” e “Highway Star” e tutte le altre canzoni di ‘Made in Japan’… Alla fine della fiera, bastava questo perché ‘Toolbox’ venisse accolto con favore: nel 1991, e anche oggi da qualcuno che – alla stessa stregua del recensore di Allmusic – ci tiene a darsi un tono esaltando quella che ormai viene considerata l’epoca “sana” del rock sempre contrapposta all’epoca malsana (gli anni 80, ovviamente). Gillan sapeva benissimo che genere di reazione scatena la sua voce in questo genere di fan, e che non era necessario impegnarsi troppo nel songwriting per dargli soddisfazione, bastava propinare loro qualche riff alla Blackmoore e lanciare un po’ di acuti spaccacristalli (e qui non sono “un po’”, ma percorrono il disco praticamente dal principio alla fine) per mandarli in estasi. Che lui sia riuscito a far meglio prima o dopo ‘Toolbox’ non cambia il fatto che questo sia un album veramente fiacco e spompato, che solo qualche fan arrabbiato (e di bocca buona) è riuscito a farsi piacere.
Non sono pochi i gruppi la cui fama riposa su un solo album e uno di questi è certamente la Michael Thompson Band, e parliamo ovviamente di ‘How Long’. Tutto quello che è venuto dopo non ha neppure lontanamente sfiorato la magnificenza dell’esordio e per un motivo molto semplice: in nessuno degli album successivi, Michael Thompson ha potuto contare su una squadra della stessa caratura di quella che lo aveva aiutato a mettere assieme ‘How Long’ che, è opportuno ricordarlo, fu prodotto da Wyn Davis e Alan Niven, e comprendeva canzoni scritte dal leader con Jeff Paris, Mark Spiro, Billy Trudel, Michael Muir, Jon Lind. Per questo ‘The Love Goes on’ si è strombazzato il ritorno di Moon Calhun dietro il microfono, come se la semplice presenza del cantante di ‘How Long’ potesse riportare il calendario al 1989... Fosse così semplice… La title track apre l’album con le sue strofe compassate e il refrain che ha qualche riflesso tra il prog e il moderno. Quello che mi ha colpito negativamente è il suono freddo, e per “suono” intendo la resa fonica generale, le timbriche, la grana della produzione: trasmettono uno strano senso di gelo che in più di un’occasione copre di brina le canzoni. Anche “Whispers And Dreams”, elegante e notturna, sembra passata in un congelatore e al clima siberiano non sfugge neppure “War Of The Hearts”, nonostante il refrain pregevole e il bell’arrangiamento vario. “In Your Arms” è AOR che si apre al moderno in maniera non spiacevole mentre “All Of It” è un hard melodico che, al di là della cura nella produzione, suona piuttosto ordinario. Riesce meglio “Just What It Takes”, un po’ Tyketto, ma avvolta sempre da quella brina che guasta il divertimento. Il livello sale con “Forever June”, morbida ballad in cui Thompson si esibisce in un bell’assolo che fa tanto Gary Moore (un Gary Moore molto più levigato del solito, naturalmente), ma il primo vero highlight arriva con “Higher”, vivace, smaltata di sfumature r&b, con qualcosa degli ultimi Foreigner. Belle le policromie di “Out Of Nowhere”, che offre un refrain deciso e vagamente Mike Slamer, ma spicca anche il raffinato arrangiamento di “What Keeps You Alive”, col suo riffing agile tra le strofe notturne e patinate e un refrain potente e un po’ Toto. Notevolissima è anche “A Picture Of You”, che alterna i toni della ballad a quelli di un boogie micidiale con straordinaria fluidità, mentre il brano di chiusura, “Wheelchair”, è un po’ opaco, con le sue atmosfere moderne che si stemperano in un heartland rock non memorabile. In definitiva, ‘The Love Goes on’ non è certo un disco da buttare, ed è riuscito meglio rispetto al penultimo ‘Love & Beyond’. Ma la distanza da ‘How Long’ resta incolmabile: altri tempi, altre risorse, un altro clima, vibrazioni ben diverse che percorrevano un’atmosfera tanto distante dall’attuale che pare da quel 1989 non siano passati trentaquattro anni ma un paio di secoli.
In quest’epoca musicalmente così sfasata, afflitta da una confusione babelica, è necessario avere un atteggiamento più scettico che diffidente quando l’esordio di una band viene accompagnato da proclami roboanti e attestazioni di genialità provenienti da sfere più o meno alte. Un paio di recensori, e Ron Keel in persona (che li ha scritturati per la propria label personale) giurano e spergiurano che questi Crashing Wayward sono il futuro del rock e che ‘Listen!’ è destinato a diventare importante più o meno come il secondo album dei Led Zeppelin o ‘Exile on Main Street’ dei Rolling Stones. Sarà vero? A me non pare. Non mi sembra neppure che ‘Listen!’ sia un album meritevole di grande attenzione. Il suo difetto principale sta nel fatto che quasi tutte le dodici canzoni che lo compongono sembrano monche perché sostanzialmente prive del refrain, cosa che risalta in particolare su “Disco Kills” (un gran riff sprecato), “Staring At Ceilings” (tanta carne al fuoco, ma resta del tutto irrisolta), “Paper Airplane Heart”, “Velvets Drawn” (una power ballad senza il ritornello che accidenti di ballad è?). Su “Shake The Dead Awake” – che potrebbe passare per un parto dell’ultimo Slash – il refrain è semplicemente cacofonico, e il resto poco incisivo. “Mouth to God’s Ear” e “Closer” fanno pensare a degli U2 versione modern rock e magari ai Muse, “Stranger Days” importa nel rock moderno melodie beatlesiane, “Death On Holiday” è heavy e aggressiva. La cosa migliore, alla fine, risulta “Breathe”, che parla bene la lingua di Audioslave e Velvet Revolver e ci dice che questa band, se proprio ci si mette, almeno una canzone con tutte le sue cose a posto riesce pure a scriverla… In conclusione, ‘Listen!’ non risulta affatto il parto di nuovi Led Zeppelin o Rolling Stones o qualunque band che abbia dettato le regole del rock passato e presente. Non so cosa si proponessero di ottenere i Crashing Wayward con questo loro primo album, ma una cosa è certa: non ha regole da dettare, non dice nulla di nuovo e spesso – di qualunque cosa si tratti – lo dice malissimo. La mia impressione è che tra un mese o due già se lo saranno dimenticati tutti e Ron Keel dovrà trovare altre band a cui affidare la missione ormai vicina all’impossibile di salvare il rock da una sempre più probabile morte per inedia.
Il cappello introduttivo che ho dedicato al recente parto della Michael Thompson Band si adatta alla perfezione anche a questa band, ma con due distinguo abbastanza importanti. Primo: ‘On Target’ (chi non sa o non ricorda, può seguire il link) era un gran bel disco, ma non un capolavoro di quelli che hanno fatto la storia del rock melodico. Secondo: qui, della band che incise quel disco è rimasto solo David Reece, che la label ha mandato in studio con un po’ di musicisti italiani che hanno suonato per lui canzoni scritte da Martin Kronlund, Mikael Erlandsson, Jimi Bell e Mario Percudani. Come possiamo definire tutto questo, allora? Sfruttamento del marchio o qualcosa di simile. Ma quello che conta davvero, il risultato finale? Se negli ultimi due album intestati a questo moniker e che potevano contare sulla presenza di almeno un altro membro della band di ‘On Target’ si era rimasti ben lontani dai livelli dell’esordio, non ci si poteva aspettare molto da questo ‘Center Mass’, che passa dal banale (gli AC/DC metallizzati di “Wind At My Back”, il genere di canzone che non è esagerato affermare abbiamo già ascoltato un paio di miliardi di volte) al monotono (la power ballatona “I Just Wanna Love You”) all’inconsistente (“Heat Of The Night”, che ha un riff piacevole e ben poco altro), precipitando poi nel cattivo gusto incarnato prima da “If The Good Die Young [Part 2]” (che prende la power ballad maschia di ‘On Target’ e la trasforma in un heavy metal da headbanging) e poi da “Love Hurts” (cover violentata di una ballad che dovrebbe essere interpretata su toni amari e mesti e invece diventa qui un power metal urlato e fracassone). Non che, qua e là, non spunti qualcosa di buono: “Blame It On Me” è una ballad davvero pregevole, tutta acustiche con appena un fondo di tastiere, ricorda certe cose del Jess Damon solista, ma anche il class metal di “Back 2 U” (dal bel riffing geometrico e imponente) e “Without You” (molto dinamico) convincono, come le architetture Dokken di “Back to Life”, mentre discreta risulta “While The Bullets Fly”, che inizia come una ballad elettroacustica infiammandosi decisamente nella seconda parte. Troppo poco per salvare ‘Center Mass’? Una cosa è certa: dei Bangalore Choir di ‘On Target’ qui è rimasta solo la voce di David Reece (che, oltretutto, non è più quella di trent’anni fa). Ripescare quel moniker, impostare la copertina in modo che richiami in qualche modo la grafica dell’esordio, evitare per quanto possibile di fare i nomi dei musicisti coinvolti equivale a promettere ciò che non si poteva mantenere, se non peggio. Se intestare ‘Center Mass’ ai Bangalore Choir sia stata un’idea di David Reece o della sua etichetta non posso saperlo, ma anche questo è certo, certissimo: non è stata una buona idea.
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