AORARCHIVIA

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STARSHIP

 

 

  • LOVE AMONG THE CANNIBALS (1989)

Etichetta:RCA Reperibilità:in commercio

 

Sembra inevitabile cominciare qualsiasi discorso sugli Starship ricordando che questa band fu l’ultimo stadio (la degenerazione, direbbe qualcuna delle mummie ammuffite che sbavano su tutto quanto fu rock negli anni ’60 e ‘70) dei Jefferson prima Airplane e poi Starship. I mal di pancia di Paul Kanter di fronte ad un discorso musicale che ormai nulla aveva più in comune con quanto fatto una decina di anni prima lo spinsero a lasciare la band e portarsi via il “Jefferson” così che a quello che era diventato il nuovo leader di fatto, il cantante Mickey Thomas, rimase solo lo “Starship” per il moniker della band: poco male. Tanta era la distanza fra quanto era stato fatto ai tempi di ‘Surrealistic Pillow’ o ‘Bark’ e ciò che la band offriva a metà anni ’80 che qualunque rimando al passato risultava fuori luogo. Gli Starship, insomma, potevano presentarsi come una band “nuova” senza nulla perdere, e il successo del primo album pubblicato con il nuovo marchio (“Knee Deep in the Hoopla” fece il platino negli USA nel 1985) lo confermò. Nel 1987, ‘No Protection’ conquistò il disco d’oro, ma due anni dopo, ‘Love Among tha Cannibals’ si fermò solo al numero 64 della Billboard 200, anche se – almeno per i palati AOR – era il miglior album confezionato da Thomas e soci, che irrobustivano sostanzialmente il suono senza più strizzare l’occhio alla musica pop.

Love…’, come i suoi due predecessori, è frutto del lavoro di un faraonico (o che tale ci appare oggi) team di produttori (ben quattro), songwriters ed esecutori che operarono fra sette studi di registrazione. Che questo non basti a fare un capodopera è pacifico, ma la profusione di talento e professionalità messa in campo non poteva essere andata tutta sprecata… e fin dall’apertura con “The Burn” appare chiaro che qui non si è sprecato niente: canzone tra l’anthem e il big sound, melodia gigantesca, arrangiamento sofisticato, magistrali intrecci dei cori. E ancora più in alto si sale con “It’s Not Enough”, cadenzata e d’atmosfera nelle strofe (un po’ alla “Is This Love”), sale impetuosa nel refrain. “Trouble in Mind” esibisce ritmiche robotiche e vagamente danzerecce alla Loverboy, ed ha una bella scioltezza pop che si adagia sulle chitarre rock. “I Didn’t Mean to Stay All Night” è una power ballad d’atmosfera segnata dal basso pulsante e le chitarre taglienti quanto basta, “Send a Message” suona vagamente funky alla maniera dei Toto; anche la title track richiama la band di Steve Lukather per quel flavour etnico virato sul pop, e le similitudini proseguono con “We Dream in Color”, pop rock arioso ma robusto (preceduto dall’intro strumentale “Dream Sequence”), con le chitarre che salgono belle toste nel coro, mentre “Healing Waters” è puro atmospheric power. “Blaze of Love” si dipana attraverso un bell’intreccio di percussioni sintetiche, chitarre brillanti e melodia drammatica, “I’ll Be There” chiude con una power ballad non memorabile ma sicuramente gradevole.

Pur continuando a suonare dal vivo (dapprima con il moniker Mickey Thomas’ Starship, oggi come Starship featuring Mickey Thomas) gli Starship tornarono al disco solo nel 2013 con il discreto ‘Loveless Fascination’ (ma della band  di ‘Love… era rimasto soltanto Thomas). ‘Love Among the Cannibals’ si può reperire usato a pochi soldi su CD o come file .mp3 su Amazon: non va classificato fra gli “imperdibili” ma chiunque ami l’AOR dei Big 80s nelle sue declinazioni più pop può prenderlo a scatola chiusa.

 

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HEARTLAND

 

 

  • INTO THE FUTURE (2021)

Etichetta:Escape Reperibilità:in commercio

 

Forse Chris Ousey ha creduto che presentarsi al pubblico usando stavolta il moniker della sua prima e più celebre band (moniker che, evidentemente, è nella sua disponibilità, non reclamato da Steve Morris né da Gary Sharpe) gli avrebbe portato qualche vantaggio in termini di esposizione. Però il materiale presente su ‘Into the Future’ è del tutto in linea con il suo primo album solista, e questo ripescaggio di un marchio legato più all’AOR patinato che all’hard melodico rischia solo di ingenerare confusione e aspettative che andranno inevitabilmente deluse. Insomma, detto chiaro e tondo: qui dentro, degli Heartland non c’è quasi niente, salvo il nome e la voce di Chris Ousey.

Dicevamo della sostanziale identità di stile tra ‘Into the Future’ e ‘Rhyme & Reason’, che si deve al ritorno di Mike Slamer come coautore (e anche coproduttore, autore di una parte delle tracce di chitarra e tastiere nonché mixer) mentre su ‘Dream Machine’ il nume tutelare era stato Tommy Denander. Questo non mette però ‘Into…’ sullo stesso piano di quello straordinario album: forse Mike Slamer è stato meno presente rispetto al passato, ma il songwriting è a tratti meno brillante e ardito di quello di ‘Rhyme…’. L’inizio è addirittura all’insegna della banalità, dato che “A Foreign Land”, a parte il bel riff prog, risulta abbastanza insignificante. Mike Slamer semina buoni lick di chitarra qua e là attraverso “Caught Up”, anche le strofe sono interessanti, il resto risulta troppo scontato. Molto meglio riescono “A Living Thing” e “Giving It All Away” che si possono descrivere come i Journey in versione Mike Slamer, mentre su “A Dangerous Game” risaltano l’alternanza fra le strofe bluesy e il chorus arena rock. Il rock di Bryan Adams viene ottimamente riletto in “Climbing Your Wall”, la spettacolare “Mouth to Mouth” procede su una bella interazione chitarre/tastiere, “Not Guilty” recupera piacevoli atmosfere Whitesnake che Chris esplorò durante la sua breve avventura con gli Snakecharmer (ma il riffing è sempre, inconfondibilmente, di marca Slamer). Se “Bolt from the Blue” è serrata, con una chitarra pulsante e flash di keys, “White Lies” è più rilassata e anni ’80, “Working for the Man” è impostata su una chitarra secca e tagliente, “When the Band Plays” riscrive  abilmente il rock da spiaggia degli Autograph, “Sleeping With Lights On” conclude benissimo riagganciandosi di nuovo al periodo Snakecharmer.

In sè, ‘Into the Future’ è un ottimo album, lo mortifica un po’ solo il confronto con quel ‘Rhyme & Reason’ che è da annoverare tra i capolavori del nostro genere. Forse è andata così perché Mike Slamer ha avuto meno controllo sul progetto rispetto a quanto avvenne dieci anni fa?

 

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ASIA

 

 

  • AQUA (1992)

Etichetta:Musidisc Reperibilità:in commercio

 

Gli Asia sono stati la testimonianza più eloquente dello stato di crisi in cui il progressive rock si ritrovò durante tutti gli anni ‘80. Quasi di punto in bianco, il genere venne ridicolizzato dalla critica trendista (prima rimbecillita dal punk e poi sedotta dalla new wave) da un lato e abbandonato dal suo pubblico dall’altro. Salvo improbabili ritorni di fiamma, dunque, per chi aveva bazzicato quella scena l’alternativa era: cambiare o sparire. A qualcuno il cambiamento riuscì e bene (i Genesis), altri fecero fiasco. Altri ancora, decisero di ricominciare da capo, provando a traslare qualcuno degli elementi formali del prog nei generi che parevano dettare legge, e questa fu la strategia degli Asia, che vedeva tre eccellenze del progressive (Steve Howe, Carl Palmer e John Wetton) procedere verso nuovi lidi sotto la guida di quel Geoff Downes che aveva firmato un hit mondiale del pop quando era il tastierista dei Buggles. La produzione de luxe di Mike Stone fece il resto e il debutto della nuova band fu un gran botto su Billboard nel 1982 (numero uno e quattro volte di platino negli USA) con qualcosa che si poteva definire di volta in volta pop rock, arena rock, pomp, AOR ma a tutti i residui fan del prog ricordava molto poco quanto avevano ascoltato negli anni ‘70. Le fortune degli Asia, comunque, andarono immediatamente in calando. Nel 1983, ‘Alpha’ fece “solo” un disco di platino e già nel 1985 con il fiasco di ‘Astra’ (che arrivò appena al numero 67 della Billboard 200) la band uscì sostanzialmente dai riflettori. Geoff Downess però non gettò la spugna e nonostante lo sbriciolamento della line up e la perdita del contratto major con la Geffen, nel 1992 si ripresentò con ‘Aqua’, cercando di riagganciare quel pubblico americano che aveva fatto la prima fortuna della band: con quali probabilità di successo, considerando la data di uscita, proprio non saprei dirlo. Dicevamo che gli Asia si erano disgregati dopo ‘Astra’: il primo ad andarsene era stato John Wetton, poi anche Steve Howe e Carl Palmer salutarono, richiamati dalle rispettive band madre mentre si stava incidendo ‘Aqua’. Geoff Downes corse ai ripari arruolando Al Pitrelli e Simon Phillips, mentre il quasi sconosciuto John Payne andò ad occupare il tradizionale (per gli Asia) ruolo di cantante/bassista.

Aperto dallo strumentale d’atmosfera “Aqua Part 1”, l’album partiva con “Who Will Stop the Rain?” , tipico AOR in versione Asia, pomposo e solenne, con le tastiere in gran spolvero, raffinati impasti vocali e la chitarra in evidenza solo nel finale. Con “Back in Town” cambia tutto: AOR hard edged dalle tinte r&b, un po’ nello stile degli FM post ‘Tough it Out’, anche se Geoff Downes non rinuncia a inserirvi qualche tocco sinfonico. “Love Under Fire” vaga fra Toto e Journey, morbida ma non molliccia, con la solita abbondanza di tastiere, mentre “Someday” risulta più elettrica, suggestiva e con un bell’arrangiamento movimentato. Se con “Little Rich Boy” siamo nei territori dell’arena rock più imponente, “The Voice of Reason” è impostata su un crescendo moderato, aperta da intrecci di acustiche e tastiere. Gli ZZ Top vengono evocati dalla chitarra rauca che scandisce il pop rock arioso “Lay Down Your Arms” (con qualche reminiscenza del miglior Van Stephenson), “Crime of the Heart” è una ballatona moderatamente power, “A Far Cry”si apre con le solite trombe barocche e suona come un incrocio del più classico sound della band con quello dei Survivor (bello quel delicato assolo di chitarra acustica). “Don’t Call Me”, elettrica e d’atmosfera, precede “Heaven on Earth”, più Journey ma con la solita enfasi prog e chiude “Aqua Part 2”, altro breve strumentale, sfarzoso e suggestivo.

Non saprei dire in quale misura i vecchi fan abbiano gradito questa nuova versione della band (le vendite irrilevanti, considerato il periodo storico, non fanno testo) ma certo ‘Aqua’ ha molto da offrire a chi ama l’AOR tout court: la voce di John Payne è più aggressiva e profonda di quella di John Wetton, gli arrangiamenti sono sempre eleganti e il songwriting è buono, esaltato da una produzione policroma. Chi lo snobbò all’epoca della sua uscita dovrebbe recuperarlo senza esitazione.

 

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GIANT

 

 

  • SHIFTING TIME (2022)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

I Giant 2.0 tornano con un nuovo album a distanza di ben dodici anni da ‘Promise Land’. La band di questo ‘Shifting Time’ dovrebbe però più correttamente essere definita Giant 2.1, dato che è occorso un significativo cambiamento nella line up: non c’è più Terry Brock dietro il microfono, sostituito dal singer dei Perfect Plan, Kent Hilli. Tralasciando qualunque commento sarcastico o scandalizzato riguardo la nazionalità del nuovo cantante (già dodici anni fa, nella recensione di ‘Promise Land’, osservavo che ormai abbiamo gli svedesi anche sotto le coperte), si deve piuttosto sottolineare che la voce di Hilli è un po’ più vicina a quella di Dan Huff di quanto non lo fosse quella di Brock. Un miglioramento, dunque? Per chi vorrebbe risentire in tutta la loro gloria i Giant veri, senza dubbio. Ma questi sono e restano i Giant 2.0. Alle tastiere e alla produzione c’è Alessandro Del Vecchio, che ha anche collaborato alla composizione delle canzoni con vari songwriter scandinavi: Michael Palace, Kristian Fyhr, Peter Alpenborg. Che hanno pilotato questo disco in una direzione teoricamente più gradita ai fan, cercando di recuperare il sound e le atmosfere che conoscevamo. Ci sono riusciti? Solo molto parzialmente. Chi ha scritto le canzoni di ‘Shifting Time’ non era certo Mark Spiro, Van Stephenson o Jim Vallance (per tacere della fondamentale assenza di Dan Huff e Alan Pasqua). E poi, qui non c’è quasi traccia dell’entusiasmo, del divertimento, del buon umore che spirava da tante canzoni dei Nostri, si tenta di replicare soltanto l’aspetto più melodico e drammatico di quel suono, esagerando con i toni gravi, dimenticando che i Giant non erano soltanto I'll See You in my Dreams o Chained ma anche “No Way Out”, “Get Used to it” o “Thunder and Lightning”. Inutile procedere ad una disamina canzone per canzone, il leitmotive di ‘Shifting Time’ mi sembra di averlo chiarito a sufficienza. Dico solo che il meglio mi sembra stia in “Standing Tall” (molto arena rock, bella soda e ben ritmata, con qualche autocitazione che però non disturba) e “My Breath Away” (con le sue strofe morbide e il refrain impetuoso).

Cosa resta da dire? Solo che i Giant 2.0 mi sembrano ancora meno band di quanto lo fossero dodici anni fa. Su ‘Promise Land’ c’erano almeno tre canzoni (e tre ottime canzoni) che con il più classico suono Giant ben poco avevano a che fare e testimoniavano la voglia di David Huff e Mike Brignardello di ritagliarsi una certa autonomia e tentare altre strade. ‘Shifting Time’ sembra invece il risultato di un’operazione tra il nostalgico e il celebrativo, che per forza di cose non poteva avere un esito clamoroso.

 

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LEBROCK

 

 

  • FUSE (2021)

Etichetta:FiXT Music Reperibilità:in commercio

 

I frequentatori di più vecchia data (se esistono), ricorderanno che durante i primi anni di vita di AORARCHIVIA il webmaster spesso e volentieri presentava le recensioni degli album di fresca pubblicazione generalmente mesi e mesi dopo l’uscita dei medesimi. Senza perdere tempo a spiegare le ragioni (buone e meno buone) di un tale comportamento, chi mi segue oggi può contare su recensioni abbastanza tempestive (nei limiti delle mie possibilità) del materiale contemporaneo. Questo album dei LeBrock è uscito però a giugno dell’anno passato, e qualcuno potrebbe chiedersi se non sto tornando a dilazionare – come facevo una volta – la presentazione di album che avrebbero invece bisogno di una segnalazione rapida per non perdersi nel mare magnum delle uscite. Ma sarà poi vero che una segnalazione immediata è necessaria? Nell’era della scaricamento selvaggio (e gratuito per la massima parte) e dello streaming, la vita media di un album è ormai ridotta a poche settimane (o giorni, addirittura?): l’offerta sconfinata scoraggia il fruitore dall’insistere nell’ascolto, lo distrae, lo abbaglia (e illude) con miraggi di mirabilie sonore che paiono stare sempre dietro l’angolo. E forse non è inopportuna la dilazione, il ripescaggio di titoli validi che magari sono schizzati come proiettili fra padiglioni auricolari sovraccaricati senza lasciare traccia di sé. Quando le band promettenti implodono appena dopo l’uscita dei loro album di debutto (Cage The Gods, Bishop Gunn e Levara sono nomi che non risentiremo più) e la vita media di un prodotto discografico si riduce a un mese scarso (se va bene), recensire un titolo uscito da oltre nove mesi di una band esordiente può apparire un ripescaggio dal neolitico o giù di lì. Ma se è vero che gran parte di ciò che esce al giorno d’oggi (e non solo nel nostro genere) si merita la vita effimera che il sistema attuale concede, è altrettanto vero che i pochi album meritevoli di durare svaniscono anche loro come se non ci fossero mai stati e provare a portarli (o riportarli) all’attenzione del pubblico quando il loro periodo medio di vita (secondo gli standard odierni) è terminato potrebbe essere una salutare provocazione.

Fuse’ non è un capolavoro epocale, solo un album di buona caratura, opera di una band (un duo, in effetti) che cerca di coniugare passato e presente del rock melodico e ci riesce meglio di tanti altri ensemble. Chi rimane strettamente legato al suono AOR degli anni ’80 lo troverà sicuramente troppo moderno, sia nei suoni (molto freddi) che nelle atmosfere (tendenti al grave/drammatico). Eppure i Le Brock cercano (o danno la sensazione di cercare) la quadratura del cerchio tra AOR classico e attuale e si avvicinano all’impresa in “Hollow”, che ha un bel riff secco, la batteria elettronica, i flash di tastiere e il ritmo nello stesso tempo danzereccio e galoppante tipici dei Big 80s, ma ambientati in un clima e spalmati sotto una melodia del tutto moderni. I richiami alle band storiche ovviamente non mancano: se almeno quattro canzoni non possono che ricordare le trame melodiche dei Journey, “Hangin’ On” approccia (timidamente) l’universo Foreigner, mentre nella conclusiva “Rush” il modello sono i Toto. Non sempre si cerca di traslare l’AOR del bel tempo che fu nel ventunesimo secolo: “Bright Lights”, “Takes All Night” e “In Time” sono fatte di rock melodico contemporaneo alla Work of Art, Vega, W.E.T. o chi vi pare più opportuno meglio rappresenti ciò che oggi passa per Adult Oriented Rock.

Fuse’ testimonia la volontà di questa band di non abbordare quel revivalismo sonoro di maniera, tanto di moda soprattutto fra chi si ostina a mantenere vivi dei moniker che sarebbe più onesto e opportuno lasciar riposare in pace. L’ibrido ottenuto può non essere gradito a tutti, ma lo sforzo dei LeBrock nel cercare di conciliare passato e presente del rock melodico merita rispetto e perlomeno la prova dell’ascolto.

 

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ROBERT TEPPER

 

 

  • NO EASY WAY OUT (1986)

Etichetta:Scotti Bros. Reperibilità:scarsa

 

Al solito, inutile domandarsi perché Robert Tepper non sia diventato una star e questo suo primo e miglior album si sia arrampicato appena fino al numero 144 della Billboard 200. La label non si scapicollò a promuoverlo, è vero, ma l’inclusione della title track nella colonna sonora di Rocky IV (pare per intervento di Sylvester Stallone in persona) e di un’altra canzone in quella di Cobra, entrambi film di grandissimo successo negli USA, avrebbe dovuto garantire al Nostro almeno una certa esposizione. Invece questo disco non se lo filò nessuno, e oggi il CD viene scambiato su eBay per una quindicina di dollari (ma quelli ancora sigillati vanno via intorno ai cinquanta).

Magnificamente supervisionato da Joe Chiccarelli – autore di una produzione impeccabile, densa, raffinata – 'No Easy Way Out' è aperto dalla title track che ha una quasi “ovvia” e drammatica impronta Survivor (se Stallone l’aveva voluta per ritmare un capitolo della sua saga pugilistica, un motivo doveva pur esserci). “Angel of the City” esplora al principio l’atmospheric power nelle sue declinazioni più spettacolari, facendosi via via più elettrica e heavy, mentre “Don’t Walk Away” è una bella esercitazione sul classico sound Loverboy, fra cascate di percussioni sintetiche e chitarre ruggenti. La ballad (e che ballad…) si intitola “Your Love Hurts”, notturna e impostata su un raffinato crescendo, mentre “Restless World” (dinamica e tramata di percussioni) si divide tra l’FM rock di John Parr e l’AOR dei Honeymoon Suite, e sulla stessa scia si incammina (più o meno) “Hopeless Romantic”, che esclude dal quadro i sequencer e si fa più elettrica e heartland rock. “Soul Survivor” risulta serrata e diretta ma sempre con una bella cifra melodica nel refrain, “If That’s What You Call Lovin’” è una power ballad mancante un po’ di personalità, ma comunque molto buona. “Domination” chiude alla grande l’album fra le solite percussioni, chitarre grattanti e una certa enfasi danzereccia inserita nel contesto imponente dell’arena rock.

Robert Tepper ci riproverà due anni dopo a diventare una star con il quasi altrettanto buono ‘Modern Madness’, che su Billboard farà ancora peggio del predecessore, e anche se la sua discografia conta altri tre album (l’ultimo è uscito nel 2019), quello che conta sta in ciò che ha inciso nei Big 80s e, se la dea bendata l’avesse assistito, aveva tutte le carte in regola per trasformarlo in un protagonista dell’AOR.