recension
Perché solo i primi quattro, si chiederà qualcuno? Perché il meglio del John Waite solista sta in questi quattro dischi: punto. Dopo la fine dei Babys, John aveva visto il suo ex pard Jonathan Cain diventare una stella di primissima grandezza con i Journey e non volle essere da meno, anche se la formula scelta per presentarsi al mondo con il suo nome fu leggermente diversa da quella che stava facendo la fortuna della band di ‘Escape’. ‘Ignition’, difatti, è un esordio all’insegna di un hard rock gagliardo e patinato assieme, melodico e irruente, prodotto benissimo da Neil Geraldo, che proiettava John Waite ai piani più alti della neonata scena AOR. C’è l’urgenza di “White Heat”, “Be My Baby Tonight” e “Wild Life”, con i loro riffoni secchi di chitarra sui panneggi di tastiere; il vellutato acciaio dei masterpiece “Change” e "Temptation", dotati di una sconfinata estensione melodica spiegata su un telaio di hard rock cromato; il piano R&B che conduce “Mr. Wonderful” fra le esplosioni di energia del ritornello; “Going To The Top”, libro di testo per Bon Jovi e tanti altri; l’hard’n’roll sofisticato di “Desperate Love”, con un pianoforte (boogie, stavolta) in evidenza; i chiaroscuri di “Make it Happen”; la misura strepitosa della ballad “I’m Still in Love With You”. Tutti gli assoli di chitarra sono del grande session player Tim Pierce, fra i songriters che coadiuvano John appaiono Holly Knight e Paul Sabu. Per me, il suo disco più bello in assoluto. Due anni dopo, ‘No Brakes’ risulta un altro lavoro eccellente, con Gary Myrick alle chitarre e John che produce assieme a David Thoener. Parte con il rockaccio convulso di “Saturday Night”, prosegue con il mega hit “Missing You”, melodia tenera sapientemente innervata di elettricità, si fa largo con il big sound ruvido di “Dark Side Of The Sun” e “Tears”, rallenta il ritmo con le sfumature country blues di “Restless Heart”, scivola fra i mutevoli umori di “Euroshima” e le alchimie un po’ Billy Squire di “Dreamtime/Shake It Up”, accelera con le sfuriate di “For Your Love”, conclude le danze con il flavour funk di “Love Collision”. "Missing You" porta per la prima volta John al numero uno di Billboard e traina in alto anche ‘No Brakes’, che in appena tre mesi diventa disco d’oro in USA e porta il Nostro perfino a qualche comparsata in un paio di telefilm (i più vecchi se lo ricorderanno in tre episodi di Il profumo del successo, andato in onda nel nostro paese a partire dal 1985, che il vostro webmaster religiosamente seguiva non per la insulsa trama da soap opera ma per poter rimirare Morgan Fairchild, all’epoca in pieno splendore). Nel 1985, ‘Mask of Smiles’ è un disco registrato forse troppo in fretta, per sfruttare l’onda lunga di "Missing You": risulta un po’ carente di ispirazione, a cui John supplisce comunque con il suo invidiabile mestiere. Manca qualcosa nella melodia di “Every Step of The Way”, forse il refrain non è abbastanza incisivo, ma è bello il taglio risoluto di “Laydown”, fra intrecci di chitarre taglienti e tastiere spettacolari, mentre “Welcome To Paradise” è una discreta power ballad. “Lust For Life” è poco più di un filler, piacevole il ritmo pimpante e la vena R&B di “Ain’t That Peculiar” e “You’re The One”, calda l’atmosfera di “Just Like Lovers”, molto leccata ma efficace la ballatona “The Choice” e chiude l’adrenalina dell’hard’n’roll “No Brakes”, su cui imperversa un indiavolato pianoforte da saloon. Non si può fare a meno di sottolineare che tra i chitarristi ospiti, spunta a sorpresa il nome di Johnny Thunders, solitamente alle prese con ben altro materiale sonoro. Arrivato al quarto capitolo, il rock di John Waite riprende quota con ‘Rover’s Return’, facendosi un po’ meno irruente e (se possibile) più raffinato. La produzione è nelle mani di Frank Fillipetti, le chitarre in quelle di John McCurry. Desmond Child regala uno dei suoi strepitosi refrain a “These Times are Hard for Lovers” (quel riff così insinuante che scivola su un tessuto notturno e malizioso), “Act of Love” è una ballad intensa e luminosa, l’intreccio di riff taglienti di “Encircled” prelude al divino mid tempo bluesy “Woman’s Touch”, squarciato da solari esplosioni di tastiere. Dopo il rock da FM “Wild One” c’è un’altra immensa scheggia di melodia con “Don’t Lose Any Sleep” (scritta da Diane Warren, la rifarà anche Robin Beck), il bel crescendo di “Sometimes”, le tinte policrome di “She’s the One”, misteriosa nei versi e radiosa nel refrain, e la classe sopraffina dell’hard R&B “Big Time for Love”, che si dipana fra una chitarra bollente ed il fragore cromato di una sezione fiati. Il pubblico, però, resta freddino (il picco sulla Billboard 200 è un non esaltante numero 77), spingendo John a fare lega con Jonathan Cain, Ricky Phillips (anche lui un ex Babys) e Neal Schon negli ineguagliati Bad English. Di tutto quello che è venuto dopo non è che non valga la pena parlare, solo non aggiunge nulla a quanto John ha fatto – e a che livello – nei Big 80s, soprattutto su ‘Ignition’ e ‘Rover’s Return’, dischi che nessun amante del rock adulto può permettersi di ignorare.
Questo nuovo lavoro di Jesse Damon e Paul Sabu (il jungle boy dell’AOR non si limita certo a produrre, anche se il disco è intestato unicamente all’ex cantante/chitarrista dei Silent Rage) è, con l’appena pubblicato album di Robert Hart (la mia recensione potrete leggerla sul prossimo numero di Classic Rock), la cosa migliore che abbia ascoltato dal principio dell’anno in ambito melodic rock. ‘Damon’s Rage’ è un vero e proprio trattato di Sabu sound, quasi un genere nel genere tanta è la caratterizzazione che Paul è in grado di dare alla musica che firma, declinato in tutte le sue sfumature, da quelle più tenui a quelle più marcate. Inizia con la melodia ariosa sul riffing serrato di “Play To Win”, avanza con la freschezza elegante di “Love Gone Wild” (ritmata sul tema di “Ten Years Gone” e benedetta da un arrangiamento vario e sofisticato), esplode nell’arena rock d’atmosfera sapientemente punteggiato dalle tastiere intitolato “Shadows Of Love”, si fa in successione misterioso e solenne sulla title track, prende tinte da metal californiano ed un refrain anthemico fra gli accordi di “Electric Magic”, torna all’AOR con le strofe fascinose ed il refrain potente in “Love Is The Answer”, si fa spettacolare nel class metal “Tell Me Lili”, spara un fantastico refrain in “Here Comes Trouble”, ammalia nei chiaroscuri della power ballad “Lonely Tonight”, diverte con il riffone secco e la melodia scanzonata di “Flying Dutchman”, coinvolge con il clima spavaldo ed il refrain leggero e divertito di “Adrenaline”, spande vaghi umori southern sul tessuto AOR della suggestiva ballad “Wildest Dreams”. La qualità audio non è ai massimi livelli ma neppure infima, e fa il paio con quella del penultimo ‘Temptation in the Garden of Eve’: nulla, comunque, che possa guastare il piacere che ‘Damon’s Rage’ darà a chiunque ami il grande AOR dei Big 80s
Un fiasco annunciato? Probabilmente sì, se osserviamo che questa band americana che praticava uno street metal assolutamente yankee venne messa sotto contratto da una fantomatica label inglese (“fantomatica” perché risulta aver pubblicato solo questo disco e nient’altro) senza distribuzione negli USA, dove gli Skin And Bones decisero di pubblicare ‘Not a Pretty Sight’ in proprio (ma solo su LP e cassetta), forse soltanto per poterne vendere qualche copia dopo i concerti. Andò meglio in Giappone, dove l’album fu preso in carico nientemeno che dalla Victor, però questa edizione nipponica è rarissima e oggigiorno si trova sul mercato prevalentemente l’edizione inglese su vinile (la Equinox lo pubblicò anche in CD, almeno così dice Discogs, ma di copie britanniche su dischetto ottico io non ne ho mai viste in giro). Alla fantomatica label di cui sopra, in compenso, le risorse non dovevano mancare dato che fece incidere la band in due studi inglesi e per la produzione si assicurò Andy Taylor (l’ex Duran Duran a quel tempo molto in auge in questo ruolo grazie al botto dei Thunder), mentre come ingegnere del suono venne reclutato addirittura Mike Fraser. L’album è aperto da “Nail It Down”, street metal dall’atmosfera cupa alleggerita da un refrain vagamente anthemico, con belle rifiniture di armonica e un assolo di chitarra slide; a seguire, spiccano i notevoli chiaroscuri di “Ressurection Love”, con il suo riff pulsante e la melodia fresca del refrain. “Cover Me With Roses” è una power ballad malinconica, perfettamente allineata all’estetica street di fine anni ’80, “Hey Stupid” viaggia su un riffone AC/DC ed esplode con un coro anthemico mentre “Nymphomania” è scanzonata e decisamente Van Halen, con un refrain diretto che fa tanto Joan Jett. “Kiss This”, convulsa e nevrotica, precede “All the Girls in the World”, dove i Nostri sembrano dei Bon Jovi più ruvidi e diretti: banale. Molto meglio fanno su “Let Her Go”, una power ballad suggestiva, con un bel crescendo ed un vago smalto southern. Su “Out With the Boys”, i ragazzi si trasformano di colpo nei Thunder: Andy Taylor deve aver avuto le sue responsabilità per questo estemporaneo cambio di pelle. Conclude “My World”, che ci serve gli Autograph in salsa street metal. Nel 2003, la Metal Mayhem riversò su un unico CD il contenuto di ‘Not a Pretty Sight’ (in versione giapponese) e dell’EP di esordio, ‘Madhouse’, intitolando questa raccolta ‘Speak Easy’: non so se sia ancora in catalogo, ma su eBay e Amazon è presente in abbondanza e a prezzo onesto, e per i fan dello street rock yankee, l’acquisto è caldamente raccomandato.
Quanti ricordano che l’ex chitarrista degli Heart ha pubblicato un album da solista, undici anni fa? Pochi, direi. Ma vale la pena di impegnare qualche neurone per memorizzare permanentemente l’esistenza di ‘Secret Wapon’? La gran massa della musica che ci solletica le orecchie è priva di consistenza, piume sonore che dopo aver titillato (piacevolmente o meno) i padiglioni auricolari vengono spazzate via senza lasciare traccia dei loro svolazzi dalle parti dei nostri lobi. Non parlo di album semplicemente scadenti, brutti o dilettanteschi, ma di tutta quella musica senza infamia e senza lode che costituisce il novanta per cento delle produzioni discografiche. ‘Secret Weapon’ rientra in quella quota? Sì e no. Andiamo a esaminarlo in dettaglio. L’inizio è ottimo: con Joe Lynn Turner al microfono, “Alive Again” scivola su chitarre delicatamente zeppeliniane che sfumano in una melodia sognante e molto Bad Company versione western, per un risultato complessivo suggestivo e potente. “Heal The Broken Hearted” ha come vocalist nientemeno che Paul Rodgers, che lascia deciso il suo sigillo nel bel crescendo e nel clima nello stesso tempo maschio e arioso della canzone. C’è ancora molto dei Bad Company su “Hot To Cold”, decisamente elettrica, ma qui il mixaggio è – a dir poco – discutibile: sarebbe un duetto fra Joe Lynn Turner e Deanna Johnston, solo che le loro voci sono mixate così basse da essere quasi inudibili (quella della Johnston si percepisce appena). Su “French Quarter” abbiamo Keith Emerson che suona il piano per quarantatre secondi su un vago sfondo di tastiere: superfluo, come minimo. “33 West Street” è uno strumentale delizioso che si fa via via misterioso, selvatico, funky, jazzato, celtico: temi e atmosfere si rincorrono e mutano continuamente, armonizzandosi sempre benissimo. Paul Shortino sta al microfono per “The South Summit”, ma la sua voce entra curiosamente solo a metà canzone: acustiche sognanti, keys pompose ed una chitarrona agile e rauca. Altro strumentale con “Rada’s Theme”, vellutato ed elettroacustico. Per cantare “The Vine” viene convocato Jimi Jamison, che ci mette molto del suo, al punto che questa canzone diventa una ballad notevolmente Survivor, ma non proprio una delle migliori. Va meglio con Keith St. John, che sulla grande atmosfera di “In These Eyes” lascia il suo marchio (un marchio che riporta ovviamente ai Burning Rain) interpretando con bel pathos un’altra esercitazione sul sound più drammatico dei Bad Company. Le melodie che chitarre acustiche ed elettriche intessono nello strumentale “Vermilion Border” sono tenere e seggestive, nello slow blues sanguigno “I’ve Been Leavin’ You” al microfono c’è tal Andrew Black: confesso la mia totale ignoranza riguardo vita e miracoli di costui, che però si ritrova una bella voce e canta con uno stile decisamente alla Paul Rodgers. Chiude un altro strumentale, “Somewhere”, sviluppando un tema ripreso dal musical ‘West Side Story’. In definitiva, ‘Secret Weapon’ risulta il tipico album che un chitarrista abituato a lavorare in una band spesso realizza quando ha la possibilità di incidere in totale autonomia, non guidato da un produttore: sbilanciato, arruffato, mancante di un filo conduttore. È, insomma, un accrocco: mescola senza criterio pezzi cantati e strumentali, disperde buone idee senza riuscire a sfruttarle fino in fondo, in qualche frangente adotta scelte tecniche o di arrangiamento discutibili. C’è molto di buono, ma anche del superfluo e del bislacco (quelle voci mixate così basse su “Hot To Cold”, la comparsa della voce a metà di “The South Summit”). A chi consigliarne l’acquisto? Non ai fan degli Heart, dato che qui, di quelle certe alchimie sonore che associamo alla band delle sorelle Wilson non c’è traccia. Chi ama il sound dei Bad Company e del Paul Rodgers solista potrebbe trovare ‘Secret Weapon’ interessante, anche se le stramberie di cui sopra potrebbero guastare il godimento di un album che, alla fine, risulta comunque tutt’altro che malvagio.
I miei pessimi rapporti con la comunità rock germanica ritengo siano cosa arcinota fra i frequentatori abituali (se esistono) di AORARCHIVIA. Tranne per i Laos e pochissimi altri, basta che di una band sappia che viene dalla terra dei crauti e l’interesse cade all’istante a zero. I Victory stanno fra quei pochissimi, essenzialmente perché nei loro migliori album non sembrano quasi mai una band tedesca. Tanti altri hanno provato a mascherare l’origine teutonica ma, in un modo o nell’altro, la provenienza risaltava sempre senza pietà, come capitò ai Bonfire all’epoca di ‘Fireworks’ e ‘Point Blank’: non bastò farsi scrivere qualche canzone da illustri songwriter yankee né farsi produrre da Michael Wagener, continuavano nonostante tutto a suonare crucchi fino al midollo… I Victory invece – pur senza l’assistenza di produttori di vaglia e songwriter prestigiosi – sono stati in grado di assemblare almeno un paio di dischi che ad un ascolto distratto possono passare per buoni prodotti made in USA. Il migliore mi sembra sia ‘Temples of Gold’ (ma anche ‘You Bought It - You Name It’ ha i suoi meriti), che scoprii però con molto ritardo perché venni fuorviato da una recensione di Gianni Della Cioppa che sul numero 82 di Metal Shock lo descrisse come un album di heavy metal duro e puro (confermando la mia consolidata impressione che spesso finiamo tutti per sentire solo quello che vogliamo sentire e non quello che le casse o le cuffie convogliano effettivamente nei nostri padiglioni auricolari). Venendo ai contenuti di ‘Temples of Gold’, l’inizio è ottimo con la pimpante “Rock ‘N Roll Kids Forever”, dove Fernando Garcia e soci sembrano degli Slaughter o dei Vinnie Vincent Invasion più heavy. “Backseat Rider” è una bella variazione sul tema di “Rock of Ages” (il fatto che stessero registrando l’album nello stesso studio in cui i Def Leppard avevano inciso ‘Hysteria’ forse li ha positivamente suggestionati?) ma con “Standing Like a Rock” ecco che l’identità germanica dell’ensemble (con l’eccezione del cantante, che ad onta del nome spagnolo è cittadino svizzero), salta fuori, rivestendo di una patina di metal teutonico un bel class decisamente Ratteggiante. “All Aboard” sembra fondere la prima e la seconda canzone in scaletta: le strofe fanno molto Slaughter mentre il refrain anthemico inclina verso i Def Leppard: comunque, buona. Torniamo in Germania con “Hell and Back”: clima guerriero ma senza le solite esagerazioni tronfie e trombonesche del metal Made in Germany e un bel catalogo di riff. La title track ostenta una solennità vagamente zeppeliniana (alla “Kashmir” per capirci) che nella melodia vocale vira verso gli House of Lords più pomposi mentre “Take the Pace” guarda verso gli AC/DC, martellante ma con un refrain molto pop. Se “Rock the Neighbours” è un metal californiano anthemico e potente, “Mr. President” omaggia i Van Halen tramite un riffing che non sarà il massimo dell’originalità ma rende la track scatenata e divertente. “Break Away” torna in California, sempre anthemica e con un bel refrain, per la power ballad “Fighting Back the Tears” vengono tirati in ballo (ovviamente) gli Scorpions, la chiusura con “The 9th of November” è di nuovo all’insegna del metal cromato di stampo aborigeno. In versione LP, l’album terminava qui, ma sul CD ci sono anche tre pezzi live ripresi dal precedente ‘Culture Killed the Native’. Tirando le somme: un buon album, senza dubbio. Derivativo al mille per mille, ma onesto. Non certo una colonna del rock melodico, però meritevole di essere ricordato. Le quotazioni tra eBay e Amazon variano istericamente tra i sei ed i cinquanta euro, e c’è una discreta abbondanza di Lp che potrebbe far felice chi ha la fissa (incomprensibile, per il sottoscritto) del vinile.
Quando affermo che le interviste rilasciate dai musicisti per accompagnare l’uscita di un nuovo album non dovrebbero MAI essere prese sul serio, non esagero. Le esigenze – reali o più spesso immaginarie – del marketing li spingono a fare dichiarazioni che possono risultare ridicole, patetiche o più spesso offensive verso tutti quelli che hanno apprezzato (e magari comperato) i loro album precedenti, in genere modulate tramite clichè e luoghi comuni, mentendo spudoratamente, provando a darsi un tono... offrendo, in definitiva, tutto un campionario di miserie fra il comico e il disgustoso le quali ci danno l’esatta statura morale di individui che solo chi è in preda ad ingenuità galoppante può ritenere franchi e veritieri ogni volta che cercano di venderci – non dimenticatelo mai – qualcosa. David Coverdale non si è mai particolarmente distinto – in meglio o in peggio – quando ha partecipato a questa fiera. Potrei ricapitolare tutto quanto ha dichiarato dai tempi di ‘1987’ ad oggi ogni volta che ci chiedeva di comprare un nuovo album, ma a che pro? Dopo tutto, faceva solo quanto riteneva fosse necessario per piazzare il prodotto che stava reclamizzando, comportandosi né più né meno come qualsiasi altro suo collega. Ma quando si trattò di presentare al mondo il suo terzo album solista, le dichiarazioni alla stampa furono ingannevoli in una maniera davvero poco comprensibile. L’addio al moniker Whitesnake doveva consumarsi già nel 1997, ma la EMI aveva insistito per mantenerlo, almeno in parte, così ‘Restless Heart’ era uscito con quel marchio equivoco, David Coverdale & Whitesnake. Dopo tre anni, però, il Nostro aveva deciso di usare il proprio nome e basta, dando (ovviamente) la sensazione di voler prendere le distanze da tutto quello che aveva fatto in passato. Sensazione rafforzata da quanto David andava dicendo ai giornalisti riguardo i contenuti di ‘Into the Light’: non faceva che parlare di blues e soprattutto di rhythm and blues, dando quasi l’idea di voler entrare in concorrenza con Barry Manilow o Tom Jones… I miseri riscontri sulle charts (in UK arrivò al numero 46 della classifica degli LP, nella Billboard 200 neppure riuscì ad affacciarsi) furono a mio modesto parere anche il risultato di questa sciagurata strategia di marketing che allontanò – era facile immaginarlo – tutti i fan degli Whitesnake (suppongo già delusi dai contenuti ben poco esaltanti di ‘Restless Heart’) e non stuzzicò affatto chi comprava i dischi di Barry Manilow, confermando quanto sia difficile rifarsi una verginità in campo musicale. Verginità, però, dichiarata a parole e niente più, perché i contenuti di ‘Into The Light’ col blues e l’r&b davvero poco avevano a che fare. Aperto da un intro d’effetto, l’album spara subito con “River Song” una pregevole esercitazione sul sound bluesy e zeppeliniano di ‘Coverdale/Page’, adorna di una lunga coda strumentale. Stessa musica su “She Give Me...”, quasi un melange di “Pride and Joy” e “Over Now”, sofisticata e divertente. “Don’t You Cry” è una power ballad che punta decisamente verso gli anni ‘70, seguita da un’altra ballad, “Love Is Blind”, questa elettroacustica e malinconica, con grande spiegamento di tastiere d’archi e organo Hammond. Si torna ottimamente alle atmosfere era ‘Coverdale / Page’ con “Slave”, che alterna strofe pacate e un refrain urlato e tempestoso, mentre nel dinamismo elettrico di “Cry for Love” c’è un pizzico di r&b e una bella armonica suonata da Jimmy Z. Con “Living on Love” siamo al top assoluto: elettrica, solare e zeppeliniana fino al midollo, con echi di “Over Now” e “Easy Does it”. Dopo i bei chiaroscuri della power ballad “Midnight Blue”, ritroviamo la “Too Many Tears” già incisa su ‘Restless Heart’, riproposta con un arrangiamento un po’ più movimentato: recupero assolutamente superfluo di una canzone che alle mie orecchie non ha proprio niente di speciale. “Don’t Lie to Me” è una strizzata d’occhio al rock mainstream di moda all’epoca, cupa e vagamente tetra come i trend comandavano (e comandano ancora oggi, purtroppo). Concludono l’album le atmosfere bucoliche, incantate e sempre un po’ zeppeliniane di “Wherever You May Go”, tutta acustiche e voce con un finale tramato di archi. In definitiva, ‘Into The Light’ suona quasi ovunque come un ‘Coverdale/Page’ parte seconda. C’è un surplus di ballad, ma resta un album hard rock, suonato da una una pattuglia di esecutori di grande pregio (Doug Bossi, Earl Slick, Reeves Gabrels, Marco Mendoza, Tony Franklin, Denny Carmassi, Mike Finnigan fra gli altri) e dotato di un songwriting di qualità molto superiore rispetto al fiacco ‘Restless Heart’. Perché diavolo David Coverdale cercò di farlo passare per quello che non era, alienandosi le simpatie del proprio pubblico è uno di quei misteri del marketing discografico che probabilmente solo un esperto del ramo sarebbe in grado di sciogliere…
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