recension
Personaggio senza dubbio minore nell’ambito dell’ hard melodico degli anni ’80 e ’90 (bassista della band di Jeff Paris sul favoloso ‘Wired Up’, poi con Three Dog Night, Night Ranger e Brad Gillis), Gary Moon esordì come solista nel 2003 sfornando questo eccellente (ma eccellente davvero) album, composto da materiale registrato per un progetto non andato in porto, una band che avrebbe dovuto chiamarsi The Pack, formata da Gary assieme a Steve Isham degli Autograph. La band cominciò a registrare un album che, per motivi facilmente comprensibili considerato che si era nel primissimi anni ’90, non venne completato, almeno finché Gary non riprese in mano i nastri, aggiunse quello che mancava, rimasterizzò e pubblicò il tutto a proprio nome. Il disco si apre con l’AOR sofisticato e notturno di “Still”, prosegue con il grandioso arena rock “Heart Of Stone” (basato su un giro di chitarra davvero ficcante), mentre “State Of The Heart” veleggia sui territori del big sound come dei Bon Jovi più pop. “Alayna” ha un atmosfera esotica di marca zeppeliniana ma con un refrain diretto e melodico, la superba “Music Box” parte con un tappeto di chitarre acustiche e tastiere che si fa via via più secco e fisico, “Call of The Wild” stende una grande melodia sulla trama in chiaroscuro imbastita da chitarre e Hammond per un risultato finale molto Tyketto. Con le due track successive sbarchiamo in California, dato che “Queen Of The Damned” è un delizioso melodic metal che fa tanto Ratt, mentre “Can’t Help Falling In Love”, più vellutata e notturna, guarda all’universo Autograph. “Angels Don’t Lie” è una power ballad magnificamente tessuta, poi “One Love” ci riporta ai migliori momenti della discografia di Jeff Paris, un arena rock bombastic e trascinante, “Love In A Wicked World” chiude strizzando di nuovo l’occhio ai Tiketto con la sua miscela di chitarre elettriche e Hammond, le sfumature bluesy ed il refrain diretto ma non banale. Su eBay, ‘Still Moon’ è una rara avis, ma su Amazon lo potete scaricare per la miserabile cifra di $ 7.99: non esitate…
In questi nostri tempi di revival selvaggio degli anni ’70, un album come ‘Equator’ non gode certo di buona stampa. Appare frutto di un compromesso o – peggio – di una resa incondizionata che si può tradurre nello slogan: i tempi cambiano, ed io mi metto al passo. Questa sembra la logica che ha ispirato tanti act che negli anni ’80 hanno sfornato dischi più o meno in linea con quanto saliva ai piani alti di Billboard: i Blackfoot di ‘Rick Medlocke and Blackfoot’, i Deep Purple di ‘Slaves and Masters’, i 38 Special di ‘Bone Against Steel’ eccetera eccetera. Era giusto? Era sbagliato? Quello che contava era il risultato finale, e spesso il suddetto era ottimo, se non addirittura stratosferico. Nel caso degli Heep, ci si può chiedere se quella logica fosse, diciamo così, giustificata dalla localizzazione geografica dell’audience di una band che negli USA non ha mai, non dico sfondato ma perlomeno conquistato una certa popolarità. Negli States, difatti, Mick Box e soci ottennero qualche riscontro fra il 1972 ed il ’74 (‘Wonderworld’ sfiorò il disco d’oro vendendo 450.000 copie e raggiungendo il numero 38 della Billboard 200) scivolando poi in un sostanziale anonimato con vendite insignificanti mentre in UK ed in Germania continuarono a mantenere posizioni di prestigio (‘Innocent Victim’ pare che abbia venduto in Germania nel 1977 addirittura un milione di copie). E dunque, che senso aveva, per gli Uriah Heep, rivolgersi all’hard melodico, genere poco considerato in Europa e che tra le band britanniche aveva portato fortuna solo ai Def Leppard e ai Fastway? Era, suppongo, il solito miraggio del faraonico mercato yankee a orientare gli Heep verso certe sonorità che non gli appartenevano, la speranza di fare quel botto che solo alle due band citate (ed ai Grim Reaper, ma con ben altre alchimie sonore) era riuscito. Che quell’esplosione non si sia verificata, non dipende certo dalla qualità di ‘Equator’, album che avrebbe potuto dare ampia soddisfazione a qualsiasi aficionado dell’hard melodico ottantiano… se solo qualcuno si fosse preso la briga di ascoltarlo. La promozione che la Columbia offrì all’album sul mercato che contava, quello americano, non fu niente di speciale, così che ‘Equator’ non riuscì neppure ad entrare nella Billboard 200, anche i due singoli estratti dall’album non se li filò nessuno e MTV passò il videoclip di “Rocakarama” forse solo un paio di volte e magari alle tre del mattino… In patria le cose non andarono molto meglio, solo un misero numero 79 nella chart inglese e anche la fedelissima Germania voltò le spalle a questi inediti Heep versione AOR. In definitiva: un disastro su tutta la linea, almeno dal punto di vista commerciale, che rischiò seriamente di ammazzare la band, le fece perdere il contratto con la Columbia e fu il preludio a quattro, lunghi anni di silenzio discografico. E tutto questo, ribadisco, accadde ad un album che aveva le carte giuste per imporsi sul mercato dell’hard rock melodico. Salvo per la conclusiva “Night Of The Wolf”, difatti, ‘Equator’ mette al bando il vecchio sound degli Heep, tuffandosi deciso nell’arena rock che tanto piaceva agli yankees al bel tempo che fu, a cominciare da “Rocakarama”, quasi una alternate version della ‘Rock of Ages’ leppardiana, rifatta dagli Heep (e dal loro produttore, l’esperto Tony Platt) in una chiave ancora più spettacolare e bombastic rispetto all’originale, un’orgia di tastiere saettanti, chitarrone e cori da stadio che avrà fatto inorridire (suppongo) tutti quei fan a cui prendeva il batticuore quando, in concerto, partivano “Easy Livin” o “Spider Woman”… “Bad Blood”, “Lost One Love” e “Angel” andavano dritte verso gli USA ed i Journey, ciascuna a suo modo (la prima, anthemica ed enfatica; la seconda, sul registro della power ballad; la terza, un classico FM rock yankee dal vivace arrangiamento). Più drammatica, con belle sovrapposizioni di cori, risultava “Holding On” (il punto di riferimento, qui, sembravano soprattutto i Triumph) mentre “Party Time” ha un titolo che già dice tutto, selvatica e divertente eppure sempre cromatissima. Con “Poor Little Rich Girl” c’è un piccolo, parziale ritorno al passato, almeno nel suono dell’organo che apre la canzone sfumando fra keys incantate ed una bella chitarra acustica che fanno da rampa di lancio per un crescendo elettrico, solenne e grandioso, spezzato dal un bel bridge orchestrale dal sapore barocco, per un risultato finale che di nuovo ricorda i Triumph. “Skools Burnin’” torna di prepotenza all’arena rock, incrociando Journey e Queen in un tripudio di keys e chitarre anthemiche, “Heartache City” stende su un’intelaiatura di metal californiano un arrangiamento denso e variopinto, con una linea melodica più decisa e diretta ma sempre avvolta in cori e panneggi di tastiere: contende a “Poor Little Rich Girl” il titolo di top track dell’album. In chiusura, come già detto, l’epicità serrata di “Night Of The Wolf” fa a pugni con tutto il resto ma è forse un contentino destinato ai die hard fans costretti a sorbirsi quaranta minuti e rotti di melodic rock… La reperibilità attuale di ‘Equator’ è ottima dopo la ristampa (con varie bonus) della Lemon Records nel 2010, comunque di copie in CD e vinile non c’è mai stata penuria: Amazon ha in stock anche la versione che la Columbia rieditò nel 1999, un bel po’ di copie ancora chiuse nel cellofan di un album che, pare, i fan degli Heep non sono mai riusciti a digerire e (Dio sa perché) neppure ce l'ha fatta ad entrare nel cuore dei fan dell’AOR.
Quest’unico (pare) album di Josette Miles è uscito nel 1998 ma non è chiaro se sia stato inciso effettivamente alla fine del millennio oppure registrato molto prima. Lo stile del materiale qui presente farebbe propendere comunque per la seconda ipotesi dato che ascoltiamo in tutto l’album class metal e hard melodico arrangiati nel più puro stile di metà anni ’80. Nonostante la bella voce della cantante (limpida, chiara, espressiva, potente quando serve) ed una backing band di un certo valore (tre membri dei Dakota tra cui Jerry Hludzik – anche produttore –, Roger Fisher degli Heart, Kjell Benner che fu il bassista dei Poker Face), ‘Josette’ resta un lavoro minore: le prime quattro canzoni sono scontati esercizi di metal californiano proposto in una versione mai troppo aggressiva e desisamente melodica a livello di vocals: trascurabili. Il livello sale di molto con “Heading Home”, una buona ballad tutta acustiche e keys con refrain elettrico, e si mantiene su buoni livelli con “When Love Begins” che vira sull’atmospheric power con discreta efficacia ed un refrain molto Journey. Decisamente Survivor si rivela invece l’hard melodico “Livin’ 2 Lives”, irruente e patinato assieme, mentre la power ballad “One Love” ha un bel crescendo ma si sgonfia un po’ nel refrain. “Believe In Me” è un hard melodico molto diretto e con un ritornello pop, ma “Don’t Be Lonely” è un altro mezzo colpo a vuoto, una ballatona infarcita di tastiere ma con una linea vocale che suona vaga e indefinita. Il meglio arriva con la conclusiva “As Time Goes By”, ancora hard melodico, stavolta molto ben arrangiato. Su eBay, ‘Josette’ gira intorno ai trenta dollari (ci sarebbe anche un folle su Amazon UK che ne ha messo in vendita una copia a 134 sterline…), quotazione che mi sento di affermare è dovuta interamente alla sua relativa rarità: non un album da buttare, ma certo non meritevole di esborsi spropositati per venirne in possesso.
Ecco un’altra di quelle band di cui hanno sentito parlare solo il vostro webmaster e forse altre quattro o cinque persone… Ma, dato che lo scopo di questo sito – come ho più volte ribadito – non è tanto correre appresso agli album di fresca pubblicazione ma mettervi al corrente dell’esistenza di validi prodotti del passato (e anche, se è il caso, smontare miti cresciuti attorno a prodotti che validi non lo sono per niente), eccoci a trattare dei Brickyard: americani, che nel 1991 pubblicarono questo unico album, mai stampato in CD finché la Retrospect non lo rieditò in serie limitata nel 2010. Dopo questa fugace ricomparsa è ridiventato una rara avis, merce per collezionisti assatanati e danarosi (su Amazon, il CD è in vendita a 200 dollari). Questito: valeva la pena ristamparlo? Direi di sì. Altro quesito: ho 200 dollari di cui non so assolutamente cosa fare, mi compro il CD dei Brickyard? Se quei soldi proprio vi ingombrano il portafogli e magari volete tentare un investimento (tra qualche anno potrebbe valerne 300, chi lo sa?), correte su Amazon (le copie in vendita sono appena due) ma debbo subito precisare che la quotazione non è proporzionata al contenuto musicale del prodotto. Band onesta, i Brickyard, e anche con una discreta abilità nel songwriting, ma irrimediabilmente derivativa. Aprono l’album con “Piece of the Action”, incursione nei territori di quell’ibrido tra AOR e southern rock di cui furono campioni i 38 Special, anche se qui il clima drammatico rimanda più agli Outlaws, mentre la successiva “Break the Ice” è impostata su un pulsare boogie che fa tanto ZZ Top anni ’80, ma senza il clima festaiolo e con un deciso taglio hard rock. Da qui in poi, il sound dell’album fa una netta giravolta, passando senza equivoci all’AOR hard edged: “Baby I’m in Love Again” parte morbida e sale in un bel crescendo elettrico fra Bryan Adams e John Waite; la power ballad “Come Back and Hold Me” mescola Foreigner e Honeymoon Suite, strofe d’atmosfera su uno sfondo di tastiere mentre il refrain risulta elettrico e potente; “White Light” è un mid tempo dal flavour FM rock, nello stesso tempo ruvido e arioso, con un bel coro anthemico; “I Believe in Love” un’altra power ballad dal bell’arrangiamento, in cui si alternano i panneggi di tastiere a chitarre tinnanti o belle toste. Le altre cinque canzoni sembrano estratte dal songbook dei Survivor, e se il cantante, Mikel Japp, avesse una voce simil Jimi Jamison, si potrebbe davvero essere tratti in inganno e scambiarle per estratti da uno degli album della band di Jim Peterick: tutte molto buone, ben arrangiate (ma sulla conclusiva “Do You Wanna Know” il suono è un po’ tirato via, come se l’avessero registrata in un altro studio, e in fretta e furia), però non so fino a che punto si può lodare una band per la sua capacità di clonare il sound altrui… Comunque, se amate il tipico AOR dei Survivor, in queste canzoni c’è pane per i vostri denti. In definitiva, ‘Brickyard’ non è certo un album da buttare via, e potrei consigliare caldamente ai miei lettori di procurarselo se non fosse per la faccenduola dei 200 dollari…
I punti interrogativi nei box relativi a “etichetta” e “reperibilità” alludono al fatto che questo album dei Laos è un bootleg. Per essere più precisi, è una pubblicazione pirata di quello che avrebbe dovuto essere il loro secondo album, ‘Womanizer’. Questo disco avrebbe dovuto uscire nel 1992 per la BMG tedesca, riemerse quando la MTM ristampò l’esordio della band, 'I Want it' (per i particolari, seguite il link). Purtroppo, la MTM defunse di lì a poco, e del secondo album dei Laos si persero le tracce. Una parte del materiale era già stato edito a nome della sola Gudrun Laos, per un totale (mi sembra) di quattro canzoni, e fu la stessa Gudrun (ma oggi ha cambiato nome, si fa chiamare Aino) a dare qualche informazione su ‘Womanizer’ in un’intervista rilasciata anni fa. Pare che tutto l’album venne registrato da lei e dal produttore Rudi Kronenberger e che la cover di “More Than a Feeling” fu incisa perché serviva per uno spot pubblicitario della Levi’s. L’album si compone di diciassette canzoni, ma le ultime cinque sono soltanto versioni con titoli appena differenti di altrettante track, dunque abbiamo in realtà solo dodici titoli. Le differenze con ‘I Want It’ sono abbastanza marcate, ma dei Laos di quel disco era rimasta soltanto Gudrun. Della cover di “More Than A Feeling” e di “Come Tomorrow” e “Love Sweet Love” ho già scritto nella review di cui sopra, mentre “Harem” ha cadenze tra solenni e arabeggianti e la title track poggia su un riffone granitico alla AC/DC. “Living Without You” è un AOR d’atmosfera impostato su arrangiamenti molto fantasiosi di tastiere con un refrain elettrico e potente ed un finale in crescendo, epicheggiante e pomposo, “What Loves All About” e “Highway To Freedom” due ballad tutte keys, la prima più serena, la seconda enfatica e solenne. Nelle ultime quattro canzoni c’è una decisa sterzata verso il rock mainstream americano, elettroacustico, tradizionale ma non scontato, a cominciare da “Beg Borrow & Die”, procedendo attraverso i bei chiaroscuri di “Perfect World” (cantata da Gudrun in duetto con qualcuno che temo resterà ignoto) che ha il plus di un bridge sui generis con tastiere molto pompose ed una chitarra col wah wah, chiudendo con “Fantasize” e “Long Hot Summer”, debitrici delle atmosmere folk rock che gli Heart portarono al successo negli anni ’70. Attraverso tutto l’album spicca la produzione cristallina e lo sforzo di Gudrun e Kronenberger di confezionare arrangiamenti che vadano oltre le convenzionalità del genere senza stravolgerle. In definitiva, non un capolavoro, ‘Womanizer’, ma senza dubbio un album interessante. Come procurarselo? Essendo un bootleg, si possono mettere al bando gli scrupoli e procedere al reperimento tramite web. In bocca al lupo!
Archiviato (ma forse sarebbe più corretto dire “seppellito”) l’esperimento prog di ‘Down the Rabbit Hole (side one)’ (doveva esserci anche una side two, ma il seppellimento di cui sopra l’ha fatta svanire in un limbo da cui suppongo mai più riemergerà), gli Unruly Child tornano con un album che li vede sempre in splendida forma e capaci di coniugare in forme accattivanti quel loro sound così particolare. Prima di passare al setaccio ‘Can’t Go Home’, vorrei però spendere qualche parola sulla qualità audio di questo album, perché in più di una recensione letta qua e là nel web ho trovato vere e proprie lamentazioni riguardo una resa fonica che, secondo qualcuno, mortificherebbe la musica in maniera quasi irrimediabile. Nelle mie cuffie Sennheiser e dal mio stereo, la qualità audio di ‘Can’t Go Home’ risulta molto buona, la dinamica è superiore rispetto a quella di tante (troppe) produzioni contemporanee e la registrazione (che pure sembra decisamente analogica) è nitida e permette di apprezzare benissimo le tante finezze che la band si concede. Forse la voce di Marcie è stata mixata un pelo troppo dietro, ma la resa fonica generale di ‘Can’t Go Home’ non è solo buona in assoluto ma abbastanza in linea con quella degli album precedenti con Mark/Marcie al microfono (fa eccezione ‘Tormented’, che però era solo una raccolta di demo), e le critiche colte in giro non capisco su cosa si basino: gli Unruly Child hanno sostanzialmente avuto sempre questo suono, perfino quando li produceva Beau Hill… Forse qualche recensore li voleva con timbriche più brillanti in stile Alessandro Del Vecchio, ma quel genere di dimensione sonora non gli è mai davvero appartenuta (anche se è vero che ‘Waiting For the Sun’ aveva un mixaggio a tratti molto più spavaldo: però, in quell’album cantava Kelly Hansen). Lasciando la forma e venendo alla sostanza, diciamo che ‘Can’t Go Home’ recupera in parte la dimensione pop/AOR nelle melodie che mancava un po’ da ‘World’s Collide’, ritrovando quella sintesi fra hard rock, AOR e prog che nell’ultimo album tendeva (leggermente) a privilegiare il prog (e forse avrebbe dovuto suonare come un campanello d’allarme, preannunciando le scelte in fatto di sound di ‘Down the Rabbit Hole (side one)’). “The Only One” apre l’album spandendo una melodia delicata sul classico tessuto elettrico disegnato dalla chitarra di Bruce Gowdy, “Four Eleven” prosegue il discorso spostando l’asse del suono verso l’atmospheric power (lungi da me entrare in polemica con questo o quel collega recensore, ma le somiglianze che qualcuno ha voluto vedere tra questa canzone e la “Still of The Night” degli Whitesnake io proprio non le rilevo). Impasti vocali sempre raffinati e deliziosamente orchestrati veleggiano attraverso “Driving Into The Future”, solare, hi tech e molto anni ’80, su “Get On Top” mettiamo il segno di spunta per i futuri best of, con la sua bell’alternanza di parti d’atmosfera e altre decisamente anthemiche (alla maniera della band, of course). “See If She Floats” è una notevole piece melodica, “She Can’t Go Home” una power ballad celestiale, “Point Of View” ha il solo difetto di essere inutilmente lunga, un minuto e mezzo in meno di durata non avrebbe potuto che giovare all’impatto di questa canzone così agile, dinamica, sinuosa e sexy. “Ice Cold Sunshine” è quasi un anthem e qui effettivamente un mixaggio meno piatto, più bombastic avrebbe giovato, soprattutto al momento del refrain, quando il volume della voce di Marcie sembra addirittura abbassarsi. “When Love Is Here”, policroma e un po’ Yes, precede l’altro highlight dell’album, quella “Sunlit Sky” che mi ricorda nettamente le commistioni Yes/Zeppelin degli Zebra, fatta di chiaroscuri elettroacustici, a tratti potente e fisica, in altri leggiadra. A chiudere, l’arena rock di “Someday Somehow”, luminoso e diretto. Contrariamente a tante band dei bei tempi andati che sopravvivono riciclandosi o strizzando l’occhio a sonorità contemporanee, gli Unruly Child proseguono sulla propria strada, praticando un sound che è soltanto loro con passione e talento: l’anno è appena cominciato, ma sarei davvero sorpreso se a dicembre ci ritrovassimo con un altro lavoro in grado di contendere a ‘Can’t Go Home’ la palma di album top del 2017.
Quale scusa migliore per trattare di questa eccellente band britannica della pubblicazione presso la Escape di uno sconosciuto ed eccellente secondo album inedito? Pensavamo che i Walk On Fire fossero stati una delle tante band che avevano esordito per poi scomparire, invece dopo quasi trenta anni salta fuori che la UNI Records gli fece registrare anche un altro album, mai pubblicato per gli arcinoti mutamenti di scenario, ma andiamo con ordine… I Walk On Fire sbucarono fuori dalla non foltissima scena AOR britannica nel 1989, creatura del singer Alan Kelly e del tastierista David Cairns. Prodotto dal Walter Turbitt (ingegnere del suono e produttore dei Cars), ‘Blind Faith’ presentava la band come un duo completata da turnisti di notevole spessore: Steve Ferrone alla batteria, Keith Airey alle chitarre, Richard Cottle e Pete Vitesse alle tastiere. La title track apriva il disco con una grande tranche di big sound AOR, imponente e grandiosa eppure agile e leggera, un po’ nello stile di John Parr. Più fisiche, “Wastelands” e “Hearts of Gold” si posizionavano sulle coordinate dell’FM rock yankee (con qualche riflesso alla Bryan Adams), mentre la superba “Crime of Loving You” approcciava l’atmospheric power secondo la lezione di Tommy Shaw e “Tell It Like It Is” tesseva una bella trama melodica R&B su un tessuto sempre d’atmosfera ma di matrice nettamente Toto. Ancora John Parr veniva chiamato in causa sulla ballad “Caledonia”, la drammatica “Hands of Time” era percorsa da una chitarra dal suono lacerante, “Hungry for Heaven” shakerava piacevolmente Journey e Toto, il pop rock di classe dal retrogusto funky “Miracle of Life” era completato (ovviamente) da un assolo di sax e la ballad “Close My Eyes” chiudeva l’album con un crescendo maestoso. Insomma: uno splendido disco, ma pubblicato nel paese sbagliato. Per la verità, la UNI Records si appoggiava alla MCA per la distribuzione negli USA, ma considerato l’impegno che la MCA metteva nel promozionare le proprie stesse band, si può immaginare quante copie di ‘Blind Faith’ i Walk On Fire siano riusciti a vendere negli Stati Uniti. Ci furono tour a supporto di Foreigner, Dan Reed Network and Nils Lofgren (tutti in Gran Bretagna, naturalmente), poi la band tornò in studio per dare un successore a ‘Blind Faith’, e se avessero saputo che quella musica sarebbe stata pubblicata solo dopo una trentina d’anni… Della produzione stavolta si incaricò David Cairns in persona e la band era diventata una vera band, con Michael Casswell alla chitarra, Phil Williams al basso e Trevor Thornton dietro i tamburi. Rispetto al primo album, in 'Mind Over Matter' c’è una maggior presenza della chitarra ma il sound resta sostanzialmente lo stesso: anche qui la title track apre il disco, offrendoci una straordinaria miscela di Giant e del tipico FM rock di John Parr con una sventagliata di elettricità nel coro. “Spinning Wheel” mi ricorda il Jimmy Barnes era ‘Fraight Train Heart’, un hard melodico con un vago sottofondo bluesy in cui si insinuano rapidi flash di arpeggi cristallini, mentre “Pleasure Of Pain” si realizza nell’alternanza tra i chiaroscuri fascinosi dei versi e l’esplosione di energia del refrain. I Giant tornano prepotenti nel sound della spettacolare “Reign Down” e Tommy Shaw si rifà vivo fra le note della favolosa “Long Live Love”, col suo splendente impasto di chitarre e tastiere, e dell’altrettanto vincente “Save Your Lies (We’ve had Enough)”, dinamica, con un bel giro pop di keys che scivola su un tappeto di chitarre potentissime. Se “Wicked” è sinuosa, sexy e notturna, “Bad Attitude” risulta avincente, anthemica ma con un’anima rock’n’roll, “Madhouse” è un classico AOR pure giocato sulla contrapposizione tra parti pacate ed altre molto elettriche, e su questa stessa scia prosegue “Big Gun”, dall’arrangiamento movimentato in cui spiccano le chitarre graffianti e l’Hammond fra cui scivolano parti di tastiere molto pop. “Price Of Love” è una power ballad in cui si intravede ancora una volta l’ombra dei Giant (e un po’ anche quella dei Bad English) e a chiudere arriva l’arena rock di classe superiore intitolato “Drag me Down”, con una chitarrona fragorosa e tirata che imperversa fra i panneggi delle tastiere. Eccelsa la resa fonica, con un lavoro di remastering dalla qualità veramente encomiabile, ulteriore plus per un album che ogni amante del sound AOR nordamericano di fine anni ’80 non potrà che accogliere come un dono dal cielo.
I Dirty Blonde sono una delle tante, troppe band di cui ci è rimasta solo la musica, se siete di quelli che sguazzano tra biografia, storia e storielle assortite, sorry, ma non posso offrirvi nulla in cui affondare i denti. Svaniti dopo aver pubblicato quest’unico album, il moniker si porta nella nebbia anche il singer Jimmi Saint James ed il chitarrista Kezzy McCafferty, mentre il bass player Ray Riendeau si rifarà vivo suonando con Gary Hoey e James LaBrie, ed il batterista Brad Williams viene assegnato da Heavyharmonies agli Snowblynd in qualità di cantante (ma ritengo si tratti soltanto di un’omonimia, considerato che quel nome è tutt’altro che raro negli USA). Venendo a ‘Passion’, chiariamo subito che non si tratta di un masterpiece, ma “soltanto” di un bel trattato di quell’hard rock né troppo melodico né troppo brusco imparentato strettamente con il metal californiano, a cominciare da “I Got the Itch”, molto glam, fra i Crüe e gli AC/DC, mentre “Restless, Young, and Wild” parla con bella scioltezza la lingua dei Ratt e la title track offre un saggio di matal made in L.A. robusto ma non ispido. Si sale di livello (e non di poco) con “Sad Teresa”, notturna, insinuante, dotata di una bella cifra melodica sulla scia dei Babylon A.D. (e notiamo, en passant, che Jimmi Saint James è quasi un gemello vocale di Derek Davis, singer di quella splendida band e degli altrettanto eccellenti Moonshine). Si ritorna dalle parti dei Motley Crüe con l’hard’n’roll “Push Comes to Shove”, mentre per confezionare il bel party rock anthemico “Girls Nite Out” la band rivolge il pensiero agli specialisti Kix. Ancora Babylon A.D. e Ratt vengono amalgamati sul metal californiano sporcato di glam “Hooked On Lovin’ You”, “Hearts on Fire” è una lenta power ballad elettrica con qualche sparso tocco acustico, “Whiskey in my Vein” poggia su un classico riff dondolante, bella tosta, veloce e divertente, poi “Ladies in Mercedes” rimette in gioco gli AC/DC, ma con una precisa trama melodica che fa tanto Autograph. La cover della “Bad Bad Leroy Brown” di Jim Croce (un classico del r&b, ma di rado rifatto in chiave rock) viene risolta brillantemente: piano honky tonk, una sorta di bridge rap… I Kix rispuntano tra le note di “Dynomite”, diretta ed essenziale, con assolo di chitarra slide, e in chiusura arriva la carica anthemica e molto Crüe di “2 Cool 4 School”. La produzione, asciutta e competente, era di Alex Perialas (che siamo abituati ad associare a band molto più estreme, ma un bravo produttore sa trattare qualunque genere musicale), e, in definitiva, ‘Passion’ è perfettamente in grado di entusiasmare tutti gli aficionados dell’hard rock losangeleno del bel tempo che fu, almeno di quelli che se lo possono permettere: tra Amazon e eBay, ‘Passion’ su CD è in vendita a cifre oscillanti fra i trenta ed i novanta dollari (ma anche le copie in vinile e cassetta non vengono esattamente regalate). A quando una ristampa?
Che per gli album veramente buoni del nostro genere pubblicati dopo il giro di boa del secondo millennio la vita sia difficile l’ho ricordato nella recensione dei Monkeyhead, a cui rimando per non ripetere cose già scritte. Aggiungiamo la innata volatilità che affligge ogni release nell’era del downloading selvaggio, destinata (pare) a durare nel pensiero (e nella stima) degli appassionati qualche settimana al massimo ed eccoci a vivere in un eterno presente musicale, in cui conta solo quello che è prontamente e gratuitamente scaricabile mentre tutto il resto viene dimenticato o buttato via, così che ogni album diventa subito una lost gem semplicemente perché già sei mesi dopo l’uscita nessuno lo starà ascoltando più o almeno se lo ricorda. Dunque, diventa paradossalmente più importante mantenere viva la memoria dei dischi usciti qualche anno fa rispetto a quelli vecchi di decenni, attorno a cui spesso fiorisce un culto che trova motivo soltanto nel grado di stagionatura del prodotto. Non che questo unico album dei TRW, all’uscita, nel 2007, abbia fatto sfracelli, intendo che non sono stati in molti a lodarlo e qualche mese dopo l’uscita era già del tutto ignorato. TRW, sigla composta con le iniziali dei suoi componenti: quello straordinario chitarrista AOR che risponde al nome di Michael Thompson e due ex Bridge 2 Far, John Robinson (batterista dal curriculum pieno di collaborazioni prestigiose) e Mark Williamson, bassista e ottimo cantante. Il frutto dei loro sforzi sono tre quarti d’ora di musica che in altri tempi avrebbero avuto diritto ad un posto fra i classici del nostro genere ma oggi dobbiano lottare con le unghie e con i denti per evitare che scivolino definitivamente nell’oblio “Set My Spirit Free” apre l’album in maniera fascinosamente zeppeliniana, prima acustica, poi elettrica, esotica, rimbombante, fa praticamente da intro alla title track, che pure procede su un riff molto zep, con una cifra melodica vagamente Unruly Child ed un refrain corale che rimanda direttamente agli Eagles, un gioco di contrasti magnificamente assemblato che dice in maniera eloquente quanto la band scansi le soluzioni più trite e convenzionali che infestano il melodic rock. “Hold On” è un pregevole AOR in chiaroscuro, con tenui sfumature bluesy che diventano soul nel refrain, “Indiscretion” cambia bruscamente passo, anthemica e impostata su un riff secco e potente, con magnifici innesti di cori soul. A seguire, tre canzoni che potrebbero essere state scritte dai Tall Stories: “Gonna Be Some Change” (raffinata, divertita, zeppeliniana e soul), “Only a Letter” (splendidamente AOR), “Hard Time Love” (vivace con il suo tappeto di chitarre pulsanti, di nuovo molto soul). “One Good Woman” viaggia su un riff favoloso, swing e dondolante, ancora soul a secchiate e certe soluzioni che ricordano i Foreigner, mentre l’impasto elettrico/acustico di “Love Comes Calling” rimanda agli Unruly Child ed alla Michael Thompson Band, con il plus di un refrain di grande suggestione. Chiude “Alimony Blues”, eccezionale slow blues che parte acustico per diventare elettrico su una bella trama melodica e intarsiato di ispirate parti soliste. Reperibile a cifre modeste, ‘Rivers of Paradise’ ha tutto per catturare l’attenzione di chi ama l’AOR ma non ne può più di ascoltare a getto continuo cover sotto falso nome o la solita pappa made in Scandinavia: se lo avete dimenticato in un angolo, recuperatelo; se non ne avevate mai sentito parlare, dategli una chance.
Le autoproduzioni, gli album self released, non sono certo un’esclusiva dei nostri tempi, ma se oggi tendiamo ad accoglierli con una certa benevolenza (questo passa il convento, dopotutto…), nel passato senza dubbio venivano guardati con sospetto. Una band che non era riuscita ad agguantare uno straccio di contratto neppure dalla più misera delle indipendenti ed era costretta a registrare e pubblicare un album tutto da sola, che garanzie poteva offrire? Ma se sull’album spunta il nome di Kim Fowley… Questi sconosciuti The Take si presentavano con un disco prodotto proprio dall’uomo che scoprì le Runaways, per non parlare del suo lavoro con Alice Cooper, Kiss, Blue Cheer, Gene Vincent e tanti altri esponenti del rock americano tra la fine degli anni ’50 ed il 2015, quando passò a miglior vita. L’album si apre con “Let Me Find My Way”, atmosfera da AOR primi ’80 con un ritmo che ricorda un po’ i Prophet di “Frontline” e sullo stesso stile segue “Dreamin’ The Night Away”, lenta e sexy con il suo riff zeppeliniano. “Can’t You See” alterna riffoni molto AC/DC a parti più pacate ed acustiche su cui veleggia una melodia vagamente Triumph, “Is There Anybody Out There?” cambia passo, viaggiando su un riff metallico ed essenziale in un clima anthemico e misterioso, mentre l’ottima “Woman On Ice (Thin Ice)” suona come una versione pop e al rallentatore dei Van Halen. “Falling Asleep At The Wheel” riprende un po’ il discorso di “Dreamin’ The Night Away”, con quel caratteristico pulsare di key e l’assolo di tastiere ed un arrangiamento un po’ pazzo, “Lady”, col suo bell’impasto ritmato di chitarre e tastiere rimanda invece a tratti agli Yes pop di ‘90125’. Ancora Triumph nell’enfasi eroica di “Mansion In The Sky”, mentre un po’ opaca mi risulta “Ugly Side Of Town (Drop Your Gun)”. Contraddittoria “Eye Of The Storm”: riff cavernoso, tastiere squillanti, armonie zeppeliniane ed un clima epicheggiante che però viene disinnescato dall’arrangiamento scarno e dai suoni fessi di keys. Anche “Beauty’s In The Heart” riprende atmosfere Yes, ma con un enfasi heavy che ricorda gli Zebra e chiude “Have You Heard The News?”, molto soul e anni ’70. In definitiva, un album interessante, fuori dai trend in quel 1992 che ne vide la luce. Varrebbe la pena procurarselo se non fosse una rarità che su eBay viene prezzata a non meno di 150 euro. Aspettiamo la ristampa.
Debutto (credo) solista per la cantante delle Vixen, Janet Gardner, suonato e prodotto dal marito Justin James (Staind, Collective Soul e Tyketto). Janet canta sempre molto bene (a tratti si è fatta un po’ roca) e con quest’album entra decisamente nell’hard rock moderno, a cominciare da “Rat Hole”, divertente, heavy e danzereccia con le sue percussioni EDM. “Hippycrite” è ancora più heavy: scura nelle strofe, diventa scanzonata e classicamente melodica nel refrain. Eccellente “If You Want Me” che sovrappone una trama melodica d’atmosfera al riffone tutto groove, ma anche qui il refrain torna al classico e con ben percepibili echi Vixen, echi che si avvertono e con ancora maggior forza anche in “Candle” (assieme ad un certo feeling Sabu). Il mix tra moderno (a livello di ritmica) e classico (linee melodiche) prosegue con “Your Problem Now” e “Let It Be Over” (decisamente d’atmosfera), mentre “Lost” vira con decisione sul metallico ad un passo molto solenne. “The Grind” si rivela essere la track più orientata al moderno: voci filtrate, un riffone aspro e ondeggiante, un ritmo guerriero che si spezza in un bridge gentile prima del refrain ultraheavy. “Best Friend” è una ballad per acustiche e tastiere abbastanza anonima, “The Good Or The Bye” chiude con un hard’n’roll diretto e potente. In definitiva: cala un po’ alla distanza, ma ‘Janet Gardner’ è album che chi ama le commistioni tra passato e presente dell’hard rock non dovrebbe ignorare.
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