recensione
In più di un’occasione ho avuto modo di esprimere riserve (e la mia scarsa simpatia) per quel materiale sonoro proveniente dalla scena del cosiddetto AOR cristiano. La mia più che discreta conoscenza dell’inglese mi mette (quando il cantante collabora tramite una fonazione almeno decente) in condizione di capire di cosa la canzone parla – se il cantante non è di quelli collaborativi ci sono sempre i testi scritti nei booklet (se non ci sono, mi metto immediatamente a cercarli nel web, come un ossesso…) – e di fronte a quelle lyrics a base di “Il Signore è il mio pastore” e altre litanie/omelie/salmi non di rado prese pari pari dalla Bibbia e dai Vangeli non mi sento a mio agio: per essere più precisi, mi rovinano qualunque piacere possa fornirmi la musica, che non di rado è davvero eccellente. Ogni tanto – nonostante tutto – do una chance a qualche band cristiana e regolarmente me ne pento: è accaduto da poco con un ensemble femminile, le Rachel Rachel: musica davvero ottima, la voce della cantante addirittura sublime, ma tutto questo ben di Dio viene deturpato da testi che il vostro parroco potrebbe usare (adeguatamente tradotti) per ritmare la messa domenicale. Questa ennesima giustificazione della mia idiosincrasia verso i testi in stile predica dell’AOR cristiano è dovuta al fatto che Jay Aaron (al secolo Jay Aaron Podolnick) proprio da quest’area viene: ma, fortunatamente, il nostro si concede solo in un episodio di cantare le lodi al Signore, tutte le altre lyrics vertono su argomenti più mondani: è comunque tale lo spessore della musica di Jay Aaron che varrebbe la pena di sorbirsi un po’ di prediche pur di ascoltarla… E, che delitto ‘Inside out’ sia rimasto solo un episodio nella ricchissima vita professionale di Jay Aaron, da più di quarant’anni impegnato come produttore e ingegnere del suono e organizzatore di complessi progetti multimediali: nonostante fosse pubblicato non da una delle microscopiche label cristiane ma dalla Warner, ‘Inside out’ non fu certo un best seller, anche se consentì a Jay di intraprendere una notevole attività live (quasi tutta concentrata nel natio Texas) con show a supporto di gente come Deep Purple, ZZ Top, Kansas, Triumph e Beach Boys. E veniamo ai contenuti di quest’unico parto sonoro di Jay, prodotto da lui stesso assieme a Eddy Offord (Yes, ELP, Police, John Lennon), un lavoro tra i pochi che possiamo realmente definire “originali” nell’AOR dei Big 80s, nel senso che non si segue una prestabilita traccia sonora pur non scendendo mai nel terreno infido e accidentato dello sperimentalismo: insomma, piuttosto che fare costantemente il verso (come la maggior parte dei suoi colleghi) a questa o quella band più o meno acclamata, Jay preferiva cercare soluzioni proprie ma rimanendo sempre nell’ambito dell’AOR, a partire da “Misery’s Edge”, spettacolare interpretazione sui generis dell’arena rock solcata da continui flash strumentali. “Don’t Let Go” è raffinatamente high tech, dominata da un perfetto impasto tra chitarre acustiche ed elettriche adagiato sul tappeto delle tastiere, con un flavour melodico che potrebbe far pensare a dei Foreigner più sofisticati. Su “Call Me Tonight” l’andamento ritmico cambia continuamente con una vivacità molto prog, ma sotto una trama melodica che non perde mai di vista la freschezza AOR, mentre “Burning High And Bright” sarebbe una power ballad molto classica e ben arrangiata se non fosse per il testo a sfondo religioso che la trasforma in un canto da messa. “I Believe In You” è dura, elettrica, contraddistinta da una splendida scioltezza ritmica e qualche sfumatura prog, soprattutto nel ritornello, ed un bridge jazz/fusion, mentre “Ronda” guarda invece al lato più pop dell’AOR con le sue trame raffinate e fresche stile Loverboy o Glass Tiger. “All Day Long” è un’altra scheggia di AOR sui generis, il talento di Jay qui si esercita sul tema dell’atmospheric power, interpretato in una chiave sempre molto elettrica tramite un arrangiamento denso e policromo e che magnificenza si sprigiona da “Loving You is Like Holding The Wind”, zeppeliniana, potente, sensuale e sinuosa. “Carry The Wheel” è uno strumentale variegato, passa da scanzonato a solenne con una fluidità impagabile, e anche se certe soluzioni melodiche rimandano ai lavori contemporanei di Joe Satriani, qui le vere protagoniste sono, sempre potentissime, le tastiere. “You’re So Far Away” chiude l’album di nuovo nel segno della band di Jimmy Page, dove chitarre (acustiche ed elettriche) e tastiere disegnano una divina tranche di musica esotica fatta di chiaroscuri misteriosi. Senza esagerare, si può definire ‘Inside out’ uno dei capolavori dimenticati dell’AOR: “dimenticati” perché nessuno ricorda di includerlo tra le lost gem e le sue stesse quotazioni sul web (difficile che vi chiedano più di una decina di dollari, considerato anche che non è affatto raro imbattervisi) parlano di un’attenzione al prodotto senza dubbio non proporzionale al suo reale valore.
Il moniker di questa band sarebbe Seven Hard Years, ma avrete notato che sulla cover dell’album è scritto per esteso solo in piccolo: al centro, campeggia in una versione stile acronimo, ma un po’ particolare, 7HY. Ora, se togliete il sette e al suo posto mettete la corretta lettera “S”, cosa vi risulta? SHY. Già, perché tutti questi giochetti di numeri e lettere sono un sistema (contorto e – diciamolo – un po’ patetico) escogitato dal nome che si cela dietro il moniker per ricordare al popolo dell’AOR in quale band ha militato per parecchi anni. I 7HY sono difatti il nuovo progetto di Alan Kelly, batterista degli Shy ai tempi di ‘Excess all areas’. Qui, Alan si presenta in veste di polistrumentista, suona praticamente tutto lui, lasciando le parti vocali a Shawn Pelata, gli assoli di chitarra a Dave Martin (Marshall Law) e Eliot Kelly e imprecisate parti di basso a vari bassisti (fra cui un altro ex Shy, Roy Davis). Anche del songwriting di questo ‘No place in heaven’ si è occupato da solo, le dodici canzoni che lo compongono sono tutte farina del suo sacco. E questa farina, si staranno chiedendo i miei fedeli lettori, com’è? Uhm… L’inizio, con “Angels Fly”, è decisamente spavaldo, hard rock metallico e furibondo in cui si aprono pause melliflue in cui scivolano frasi chitarristiche d’effetto (e tutte rigorosamente rubate ai Pink Floyd), afflitto però da un suono di chitarra ritmica veramente orrendo. A seguire, “Hold Me Now” e “Live Without You” risultano entrambe moderne, melodiche e molto elettriche, ma anche decisamente lontane dai gusti del sottoscritto in fatto di AOR et similia. Si torna ad arare terreni più convenzionali con “You Lie”, un class metal senza infamia e senza lode e anche del drammatico hard melodico che segue, intitolato “Call Me Tonight”, non è che si possa dire troppo male o troppo bene. A questo punto, arrivato alla quinta canzone di un album che proprio nulla gli aveva detto fino a quel momento (e senza considerare tutti gli altri album ancora da sentire), il vostro webmaster ha provato l’impulso quasi irresistibile di premere il tasto dello stop e dimenticarsi dei 7HY. Il senso comune suggerirebbe che il resto del materiale non poteva essere tanto diverso da quello già ascoltato (sorbito, più che altro…), e allora, perché continuare ad annoiarsi? È che io non riesco a non ascoltare un album dal principio alla fine. Magari, arrivato a metà canzone, una volta capito dove la band vuole (o vorrebbe) arrivare, passo al brano successivo, ma piantare tutto lì, proprio non ci riesco. E allora, avanti… “Never Meant to Hurt You” cambia del tutto registro, trattandosi di una ballad per solo pianoforte e tastiere, con una bella linea melodica che fa tanto Beatles e/o Elton John. Molto buone anche “No More Yesterdays” e la title track, entrambe con un refrain notevole ed un arrangiamento variegato che (finalmente?) ci riporta ai tempi degli Shy, mentre qualche tratto moderno mostra “Say What You Gotta Say”, compensato dalla trama melodica ed il refrain AOR che fa un po’ Boulevard. Gran ritmo su “Say Those Lies”, sinuosa, sexy e notturna, ideale incrocio tra gli Shy ed i Dan Reed Network, ma il top dell’album arriva con “Show Some Emotion”: parte come un AOR d’atmosfera, poi entra un chitarrone enorme che le dona un bel flavour R&B alla FM ed un tessuto ritmico sempre alla DNR. In chiusura, “You Are the One” adotta soluzioni moderne per l’arrangiamento, ma su una linea melodica anni ’80. Non chiedetemi perché Alan Kelly ha piazzato al principio di quest’album proprio le cose meno ispirate e registrate peggio, confinando nella seconda parte tutto il materiale migliore: stranezze dell’era del downloading. Era che non è tutta da esecrare, considerato che ci permette di acquistare gli album anche in parte, a pezzi e bocconi, e di questo ‘No place in heaven’ io posso consigliare solo un acquisto del genere: prendete le ultime sette canzoni e lasciate perdere le prime cinque.
Amy Wolter è una delle vittime di Heavyharmonies. Perché? Cosa le ha mai fatto, il sito web principe per chi si interessa di tutto ciò che è AOR e Melodic Rock? Niente, letteralmente. Amy Wolter non vi figura, non è in catalogo, e Heavyharmonies è ormai considerata una sorta di Bibbia, soprattutto dai più giovani fruitori dell’AOR. Ti imbatti in una band di cui sai poco o nulla, e cosa fai? Ti fiondi su HH e cerchi nell’elenco alfabetico o fai una ricerca. E se la band non c’è, finisci magari per supporre che ci siano dei buoni motivi per quella omissione: la band fa schifo, oppure non è una band AOR, e allora passi avanti e ti dimentichi del nome spuntato fuori in qualche angolo meno rinomato del web. Ma Heavyharmonies è un compendio fai-da-te, come Wikipedia: le band, soprattutto le più vecchie, stanno lì perché qualche volenteroso membro del forum le ha iscritte nell’elenco, ma dato che l’onniscienza è una qualità esclusivamente divina, è umanamente impossibile che i pur volenterosi compilatori di HH possano catalogare TUTTE le band di rock melodico comparse sul globo terracqueo, e così molti, tanti, troppi restano fuori dalla Bibbia dell’AOR, e non certo per colpa loro. (Qualcosa del genere accadeva – tanti anni fa – quando le riviste cartacee detenevano ancora il monopolio dell’informazione, e non venire recensiti o almeno citati sulla rivista di fiducia equivaleva a scomparire dall’orizzonte dei lettori più fedeli: l’ho visto accadere spesso fra la mia piccola cerchia di conoscenti nell’ambito della metallurgia pesante che – come me – erano tutti accaniti lettori di Metal Shock: se una band non veniva presa in considerazione da MS, automaticamente diventava una band scadente. A volte, i dischi venivano lasciati negli scaffali del negozio fino a quando su MS non ne era uscita una recensione, e poco importava che il commesso ti lasciasse sentirli quasi interamente o il moniker fosse arcinoto o glorioso: finché Metal Shock non lo aveva passato al setaccio l’album era confinato in un limbo che, nel caso la sospirata recensione non arrivasse, era destinato a tramutarsi in oblio). Venendo a ‘Hit me in the heart’, chi è ben informato ricorderà forse Amy Wolter come cantante di una band di AOR cristiano, i Fighter. Nel 1994, Amy si mise in proprio ma per la sua prima ed unica release evitò (saggiamente) lyrics a tema religioso che avrebbero rovinato (per me, almeno) un album che svetta per il songwriting e viene penalizzato solo da qualche incertezza nella resa fonica (timbriche sempre belle e corpose, produzione di gran classe, ma l’abbondanza di fruscio e distorsione parlano di una registrazione che più analogica non si può). La voce di Amy era poi davvero godibile: di grande estensione, un po’ nasale, espressiva e piena di personalità, un ingrediente certo non secondario nella ricetta di ‘Hit me in the heart’, e che spiccava subito con “There Won't Be A Next Time”, un notevole esempio di big sound, calda e cromata con la sua base un po’ bluesy in cui si insinua il refrain AOR, e ancora più in alto si sale con “Blue Skies”, travolgente e patinata al punto giusto, con un’anima R&B placcata di smalto AOR come nelle canzoni del miglior John Waite (è da sottolineare che il refrain è simile – molto, troppo simile – a quello della “Give me a Sign” che i Foreigner incisero su ‘Can’t slow down’ nel 2009: potremmo fantasticare un improbabile furto di Mick Jones e soci ai danni di Amy, ma ritengo piuttosto che entrambi lo abbiano sgraffignato a qualche classico del rhythm & blues). Ancora John Waite fa capolino fra le note di “Oils On This Canvas”, splendida scheggia di melodia da FM, robusta e vellutata ad un tempo, mentre “Two Worlds” è un classicissimo, delizioso AOR ben bilanciato fra chitarre e keys, con un bell’arrangiamento policromo. “We All Need” è una ballad luminosa, ma sembra curiosamente mancare del refrain (grande atmosfera, però), “Break My Fall” procede su un bel riffone con ombre soul nel ritornello, “New Start” rimanda all’indimenticabile Mitch Malloy del primo album, con la sua sensibile alternanza di strofe sognanti e refrain vigoroso e sulla stessa falsariga (con qualche sfumatura molto Tyketto) procede “The Promise”. Il big sound del miglior FM Rock americano è di nuovo protagonista su “Don’t Seem Right” e “Be That Child” e chiude un’altra ballad (superba, gigantesca), intitolata “Where My Heart Is”. Allora, ‘Hit me in the heart’ è un’altra, l’ennesima lost gem? Direi di sì, e ancora più delle altre è lost, almeno finché qualche benefattore non si deciderà a caricarla sui registri della Bibbia dell’AOR.
Di Stan Meissner, si può ben dire che è un pezzo grosso. Da qualche anno è presidente della SOCAN, l’equivalente canadese della SIAE, è stato staff songwriter per BMG Music Publishing, Warner-Chappell Music e Irving-Almo/Universal Music, le sue canzoni sono state cantate da gente come Celine Dion e Lee Aaron o hanno fatto parte di una quantità spaventosa di colonne sonore per la TV ed il cinema. C’è quasi da stupirsi del fatto che Stan abbia trovato il tempo di pubblicare tre album a proprio nome, fra il 1983 ed il ’92. E che album. Pura perfezione AOR, assolutamente canuck. Punto i riflettori su ‘Windows to Light’, uscito nel 1986 (ristampato con bonus tracks prima nel 1995 dalla Long Island e poi nel 2010 dalla Yesterrock), forse il migliore dei tre: produzione lussuosa, arrangiamenti curatissimi e (c’è bisogno di specificarlo?) songwriting stellare, fin dall’iniziale “I Want Everything”, un po’ Journey, un po’ Bryan Adams, cristallina e potente, e a seguire ci sono il passo felpato e la melodia divina di “One Chance”, mentre “Heart Of Ice” richiama le produzioni di Van Stephenson, con la sua mirabile linea melodica proiettata su un riffing essenziale. “Wild And Blue” è puro canuck AOR (avrebbero potuto firmarla gli Honeymoon Suite), “I Can't Break Away From You” è ancora una splendente, emozionante esercitazione sul sound Journey, “Lifeline” viene tessuta su una trama chitarristica vigorosa e sofisticata, e se “I'll Wait For You” – per quanto di gran classe – è pura pop music (nello stile delle produzioni contemporanee di Bryan Ferry), “Coming Out Of Nowhere” torna subito all’AOR più spavaldo e fascinoso alla John Parr. “Walk The Line” è una scheggia di big sound in chiaroscuro con un bel ritornello diretto, “Endless Ride” sale a vette siderali con una power ballad dal refrain gigantesco, “Counting On Love” richiama in causa Bryan Adams, in una versione più sofisticata ma sempre vigorosa ed elettrica e chiude “Hold Me”, altra power ballad segnata da uno splendido crescendo. Insomma, uno di quegli album che chi ama l’AOR nelle sue forme canoniche non può permettersi di non avere.
L’inventore del rock’n’roll (Chuck Berry) era nero, il più grande chitarrista rock di tutti i tempi (Jimi Hendrix) era nero: e allora, perché finiamo sempre per accogliere con meraviglia oppure con diffidenza band o interpreti di colore nel rock? E, soprattutto, perché ci aspettiamo sempre che vi sia nella musica rock delle band formate in tutto o in parte da neri una componente di black music (r&b, soul, funk o quant’altro), come se solo questo potesse rendere significativa la proposta? Sorry, non ho una risposta. E ammetto di ricadere puntualmente nel pregiudizio (come altro possiamo definirlo?) quando mi trovo alle prese con il rock degli artisti di colore: l’eventuale mancanza di quella certa matrice sonora sconcerta sempre un po’, ti fa chiedere se non c’è qualcosa di sbagliato in questi neri che forse cercano solo di somigliare ai bianchi… come se qualunque bianco che suoni il rock o il blues non stia in realtà cercando (disperatamente) di farlo come lo farebbe un nero. Tutta questa premessa riguarda, ovviamente, la band in esame, i Total Eclipse. Che erano neri per tre quarti (il bianco era il batterista) e facevano un hard rock metallico, a volte melodico, che di nerezza ne aveva in abbondanza. Per definire la loro proposta musicale, potrei dire che i Total Eclipse stavano per gran parte di questa loro unica testimonianza discografica al crocevia di Dan Reed Network, Living Colour e Mother’s Finest, tre band che hanno sposato (ciascuna a modo proprio) la black music all’hard rock. Procedendo per negazioni, potrei aggiungere: non erano cromati, melodici e sofisticati come i Dan Reed Network, non duri come i Living Colour, non erano rabbiosi come i Mother’s Finest. A volte, sembravano addirittura dimenticarsi di essere neri, come su “Fire in the Rain”, sei minuti di class metal che procedono dritti sulla scia dei Dokken, oppure in “Hurricane Lies” e “Freedom (Star)”, sempre class metal, stavolta con una forte ascendenza XYZ, su cui il cantante Bernie K non rinuncia a qualche vocalizzo da black singer, la seconda con belle marezzature melodiche ed un pizzico di tastiere. In “Somethin’ About You” gli manca solo un sontuoso spiegamento di keys per diventare i Dan Reed Network: la melodia calda, il riffeggiare saltellante, le ritmiche cromate… Ma anche “Get Outta Yo’ Body” chiama in causa gli autori di ‘Slam’, sia pure su una base dura e agile di metal californiano, mentre su “Time’s a Changin’” e “Slippery When Wet” impera quel funk nero e pesante che praticavano i Mother’s Finest, un funk che si fa meno monolitico in “(Don’t Be) Afraid of the Dark” (dopo un intro di keys d’atmosfera), solcato da parti notturne e suadenti e con un refrain ancora molto DNR. Se “Long As It Feels Right” era un metal ringhioso con parti vocali molto class (qui, anche se alla lontana, il paragone con i Living Colour regge benissimo), con “Tears Keep Fallin’” i Total Eclipse ci davano l’unica ballad dell’album, un bel soul blues dalla grande atmosfera con appena una bava di tastiere. Il top, per me, era rappresentato da “Check Me Out”, track anthemica in un suo modo speciale, riuscendo a unire sullo stesso telaio Autograph e Dan Reed Network. Sembra pleonastico specificare che nessuno si accorse di loro, condannando questo disco ad un oblio immeritato.
Jack Douglas, che produsse il loro album d’esordio, nel 1983, raccontò durante un’intervista che quando andò a vederli suonare per la prima volta, pensò: “Dio mio, sono come una cover band dei Led Zeppelin”. Naturalmente, gli Zebra erano molto più di questo, esattamente come tutte le altre band che negli anni ‘80 potevano, ad un ascolto superficiale e maligno, passare per cover band dei Led Zeppelin: Kingdom Come, Bonham, i Cult di ‘Sonic Temple’, i Crimson Glory di ‘Strange and Beautiful’ eccetera. Be’, non è cambiato poi molto, no? Anche oggi siamo pieni, fino al mento, di band del genere, ma con una differenza capitale: quelle che fanno furore ai nostri giorni, sono davvero cover band. Quelle dei Big 80s si ispiravano al suono del dirigibile più famoso della musica rock, trasponendone temi e stilemi in un contesto differente, e traevano quasi sempre la loro ispirazione dalla musica più sofisticata della band di Page, diciamo da ‘IV’ in giù. Insisto su quel verbo al passato: si ispiravano. Vi sfido a trovare nel primo album della band più esecrata di tutte, i Kingdom Come, un riff o una melodia campionata pari pari da un album dei Led Zeppelin. Quando ci mettiamo all’ascolto degli album di The Answer, Wolfmother, Graveyard o dei più osceni di tutti, i defunti (vivaddio!) Black County Communion, i campionamenti, le citazioni ed i trapianti ci saltano addosso da tutte le parti. Lo scopo di queste band, dunque, non è traslare, non c’è alcuna ispirazione a guidarli, nessun desiderio di usare quanto è stato fatto come un humus per far crescere qualcosa di nuovo, tutte non fanno altro che continuare a ripetere quei tre o quattro riff, all’infinito. Ecco perché gran parte del retro rock mi dà la nausea. È un vicolo cieco, una morta gora, lo sa ed è fiero di esserlo. E, questa è forse la cosa più oscena di tutte, i critici fanno a gara a sbavare addosso alle band citate, a incensarle, a lodarne la purezza e la genuinità, e alcuni di questi critici sono gli stessi che nei Big 80s sputavano sulle band citate più sopra, accusandole di immaginarie appropriazioni indebite, rapine e furti assortiti da ‘Phisical Graffiti’ o ‘Houses of the Holy’. I veri Led Clones di cui cantava Gary Moore non agivano negli anni ‘80, ma sono fra noi oggi, col loro sampling rock (ho inventato una nuova etichetta!) archeologico e maniacale nel ricalcare senza variazioni quanto si faceva quarant’anni fa, replicando con perfezione sinistra anche il suono fangoso e rancido dei primi ‘70. E questo copia & incolla, con cosa è fatto, oltretutto? I primi due album degli Zep, da cui viene prelevato ossessivamente tutto il prelevabile. Pare che nessuno di questi maniaci abbia mai riflettuto sul fatto che, dopo aver inciso quella roba, i Led Zeppelin sono andati avanti, che dopo “Communication Breakdown” e “Whole Lotta Love”, ci sono state “Black Dog”, “Kashmir”, “Stairway to Heaven”, “Ten Years Gone” o “Achille’s Last Stand”, tutto un percorso creativo, un evoluzione, un cammino che i maniaci di cui sopra non sono assolutamente in grado di intraprendere, il loro percorso è un girotondo senza capo né coda (in senso letterale ed in quello lato dell’espressione), acclamato da un pubblico sempre più stordito e ignorante. Quanta differenza con le band degli anni ‘80, quanta differenza con gli Zebra. Band che con il primo album omonimo fece un botto notevole negli USA nel 1983, totalizzando mezzo milione di copie vendute, botto non ripetuto dai successori ‘No Tellin’ Lies’ (1984) e questo ‘3.V’, pubblicato nel 1986 e che rappresenta per me il miglior prodotto discografico della creatura di Randy Jackson, un intrepido, fresco melange di stili che dalla ortodossia zeppeliniana si faceva sempre più lontano e difatti la prima track in scaletta, “Can’t Live Without” presentava i nostri come una versione più melodica ed AOR dei Rush e sulla stessa falsariga si incamminava “He’s Making You The Fool”, con qualche sfumatura degli Zep più bucolici. Il richiamo verso le atmosfere codificate da Page e compagni era però troppo forte per Randy Jackson, così "Time" viaggiava sulla sublime alternanza di una dodici corde acustica sensuale e arcana ed un riff rotolante, elettrico, solenne, alternanza spezzata da un bridge luminoso per un risultato finale perfettamente bilanciato fra “Ten Years Gone” e “Kashmir”. Cambio di scena per “Your Mind’s Open” e “You’ll Never Know”, melodia leggiadra e tante tastiere, impostate su una vena pomp/prog leggera, più Asia che Yes, mentre “Better Not Call” risultava un hard melodico dalla bella tessitura, lontano da qualunque ovvietà e percorso da tempestosi assoli di chitarra. Si torna a navigare sul dirigibile più famoso della storia del rock con “About to Make the Time”, che ha un flavour esotico ed una certa vena prog nelle vocals. Finale nel segno del più leggero sound dell’hard melodico californiano, quello degli Autograph, a partire da “You’re Only Losing Your Heart”, in cui sembra che Randy e compagnia siano diventati una versione sofisticata della band di Steve Plunket, proseguendo con la più metallica “Hard Living Without You” e chiudendo l’album con la melodia policroma, deliziosa e avvincente di “Isn’t That The Way”. Sciolti, riformati, con un ulteriore album di studio all’attivo e in giro a suonare ancora oggi, gli Zebra meritavano molto più di quanto hanno avuto da un pubblico che si faceva distrarre troppo facilmente dall’ultima sensazione strombazzata dai magazine ed etichette discografiche ansiose solo di incassare. I loro album sono stati fuori catalogo per molti anni, le ristampe sono datate, e ‘3.V’ non è in vendita neppure in download (su Amazon USA ci sarebbero i primi due dischi, e ho usato il condizionale perché da qualche tempo la filiale yankee non vende più gli mp3 ai clienti non americani, Dio sa perché) e gira a cifre sempre superiori ai venti dollari (il CD, naturalmente: vinili e cassette hanno prezzi più ragionevoli, come sempre). La spesa vale sicuramente l’impresa.
Voglio cominciare con una citazione, stavolta. Doug Stone, che ha recensito ‘The Big Prize’ per Allmusic, così conclude il suo pezzo (la traduzione, ovviamente, è mia): “ ‘Big Prize’ possiede tutti gli incanti perduti delle nostre estati di adolescenti”. Adolescenti Nordamericani dei Big 80s, naturalmente. Incanti perduti, perché – cazzo… – quei tempi sono passati, finiti, sepolti, andati. Le giacche alla Armani con le spalline imbottite, le permanenti, Miami Vice, Reagan che tuona contro l’Impero del Male, il lusso ostentato, gli yuppies, il boom economico e sopratutto quel clima di ottimismo terminale da cui ci svegliammo bruscamente nel ’91. Per una decina d’anni sembrò davvero che tutti stessimo vivendo nella suite “luna di miele” di un albergo di lusso, di cui qualche benefattore sconosciuto pagava il conto. Ma nel mondo reale i benefattori sconosciuti non esistono (forse non esistono i benefattori, tout court), e alla fine non solo da quella suite venimmo (per la maggior parte) buttati fuori a calci, ma ci ritrovammo anche con il problema di saldare il salatissimo conto dell’hotel: lo stiamo ancora facendo, e forse non ci basterà tutta la vita per pagare quei dieci anni di pensiero positivo, di benessere, di fiducia in un domani dorato: in sostanza, dieci anni di illusioni. Dunque, potremmo dire che ‘The Big Prize’ è la colonna sonora di un sogno? Probabilmente sì, ma solo perché, alla fine, ci siamo dovuti arrendere tutti (anche gli stessi Honeymoon Suite) di fonte a quella bolla che è scoppiata lasciandoci con nulla in mano. Tutti i Big 80s sono stati una lunga estate di adolescenti: ci crogiolavamo sotto il sole, e poi arrivò la pioggia da Seattle a inzupparci fino alle ossa. La musica, che l’idea ci piaccia o no, rispecchia sempre in qualche modo l’epoca in cui è stata concepita, composta e suonata, e ‘The Big Prize’ non fa eccezione: è un album di rock melodico sontuoso, brillante, cromato. Al giorno d’oggi, un album del genere potrebbero metterlo assieme solo reduci dei Big 80s, nessun under 30 sarebbe in grado di dare uno smalto simile alla propria musica, di immergerla in quell’atmosfera di spensierata fiducia (per non parlare del denaro occorrente per inciderla). La produzione era nelle mani sante di Bruce Fairbairn (e mani altrettanto benedette, quelle di Bob Rock, erano addette al sound engineering), e si sente: definirla “policroma” è dire niente. Ciascuna delle dieci tessere che compongono l’album viene scolpita e modellata con squisita grazia, e forse è proprio da quelle sante mani che vengono i ripetuti richiami ai Loverboy, di cui Fairbairn buonanima forgiò ripetutamente il suono. Johnnie Dee e compagni erano però meno interessati alle alchimie pop/rock rispetto alla band di Mike Reno: “Lost and Found”, “Words in the Wind” e “Wounded” hanno quel ritmo svelto e le classiche tastiere programmate col sequencer che dei Loverboy erano un vero e proprio trade mark, ma l’estensione melodica era senz’altro superiore e sempre rock senza equivoci. Ma il terreno prediletto dalla band era quello del big sound, del suono maestoso senza mai essere pomposo, di una freschezza incomparabile e cristallina: “Bad Attitude”, con una chitarra potente che regge tutto il peso della canzone, i veli di tastiere che le orbitano attorno e quell’assolo… “Feel It Again” era meravigliosamente bilanciata fra le strofe tessute da una chitarra limpida e le keys vellutate ed il refrain pieno d’energia, maschio, spavaldo, elettrico, con il plus di un bridge molto Toto. E i Toto si sentono distintamente anche nel piano martellante di “One By One” che sottolinea un ritornello irresistibile incuneato in un'altra strepitosa miscela di potenza ed atmosfera. “Once the Feeling” potrebbe far pensare invece a John Parr, quell’hard rock da FM che ti porta come d’incanto su un’highway che corre dritta sotto un cielo immenso verso la fine dell’arcobaleno (e tu sai che laggiù la pentola d’oro la troverai davvero…). “What Does It Take” è la power ballad di rigore, sapiente impasto di Bryan Adams e John Waite, con uno di quegli arrangiamenti multilayered che solo Bruce Fairbairn sapeva gestire con tanta grazia, mentre la ballad (altrettanto inevitabile, of course) si intitola “Take My Hand” ed è interpretata in chiave di atmospheric power mediante morbidi panneggi di keys e qualche nota limpida e tinnante di chitarra. Ma il top assoluto è quella scheggia sui generis intitolata “All Along You Knew”: i ragazzi sembrano qui di nuovo dei Loverboy molto sofisticati non fosse per gli interventi di flauto dell’ospite Ian Anderson che danno un volto inedito ad una canzone dal ritmo trascinante. Nel 1988, ‘Racing After Midnight’ non mantenne lo standard altissimo del suo predecessore, forse perché dietro il banco del mixer c’era adesso Ted Templeman, forse perché l’ispirazione era in calando, forse perché registrarono ad L.A. anziché in Canada: non era un brutto disco, ‘Racing…’, ma certo non risplendeva come ‘The Big Prize’, che pure non ottenne un riscontro faraonico nelle charts (numero 6 in Canada, tecnicamente una miseria) ma fornì canzoni a diverse colonne sonore di film e telefilm perfettamente rappresentativi di quel periodo dorato della storia dell’occidente, a conferma di quanto fosse ben sintonizzato con l’atmosfera che nei Big 80s regnava nel Nordamerica. Un’atmosfera che noi abbiamo gustato solo di riflesso (i nostri Big 80s di cosa sono stati fatti? Craxi e la sua Milano da bere, l’alta moda, i paninari, l’industria del lusso targata made in Italy, robaccia del genere) ma resta comunque l’ultimo periodo di splendore prima della caduta in quel pozzo che più passa il tempo, più appare un budello senza fondo destinato ad inghiottirci tutti.
|