recensione

AORARCHIVIA

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BURNING RAIN

 

 

  • EPIC OBSESSION (2013)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Mi sono sempre chiesto quale genere di reazione sul piano emotivo abbia avuto Doug Aldrich quando David Coverdale gli chiese (vîs a vîs, per telefono, tramite il proprio manager?) di unirsi agli Whitesnake. Ogni volta che Doug aveva lavorato in proprio (non tanto spesso, infine, durante la sua lunga carriera di mercenario di lusso), la Stella Polare, il riferimento assoluto, il libro di testo da tenere sempre a portata di mano erano stati i dischi del Serpens Albus, ‘1987’ prima di tutto. Quella chiamata, per Doug, deve essere stata una sorta di riconoscimento del suo status di fanatico seguace del sound che David e John Sykes elaborarono e portarono a perfezione sul primo album degli Whitesnake americani, quel sound rielaborato e aggiornato in maniera veramente geniale su ‘Good To Be Bad’ e ‘Forevermore’. Quanto e come, però, Doug abbia contribuito a quella rielaborazione resta poco chiaro. Quando, nella recensione di ‘Good To Be Bad’, ipotizzavo (erroneamente) un coinvolgimento di Reb Beach nel songwriting e nella produzione molto superiore a quanto gli era stato accreditato nelle liner notes, non sminuivo tanto le capacità di Doug Aldrich ma incorrevo piuttosto anch’io nel diffuso errore di non dare sufficiente credito come songwriter ed arrangiatore a David Coverdale, puntando in maniera esagerata l’obiettivo sui suoi chitarristi, ritenuti sempre i principali architetti del suono della band, così che ‘1987’ portava impresso il marchio di John Sykes, la sua irruenza e velocità, il piglio heavy metal, ‘Slip of The Tongue’ era intarsiato delle magistrali invenzioni di Steve Vai, ‘Restless Heart’ era smosciato per colpa dell’insipienza di Adrian Vandemberg... E Mister Coverdale? Lui sta lì forse solo per cantare? No di certo. Questo nuovo album dei Burning Rain diventa allora anche un’occasione di verifica, un modo per capire fino a che punto Doug abbia concorso (dal lato creativo) a fare di ‘Good To Be Bad’ il capolavoro che è. ‘Epic Obsession’ (distante ben dodici anni dall’ultimo ‘Pleasure to Burn’) è simile/diverso/superiore/inferiore agli ultimi due album degli Whitesnake? Le similitudini ci sono, e anche abbastanza marcate. Naturalmente, è difficile dire quanto Doug abbia plagiato se stesso e quanto abbia ripreso dal suo nume tutelare, ma senza dubbio trova qui conferma la solita impressione che i suoi album in proprio ci hanno dato: quando è costretto a lavorare tutto solo, Doug Aldrich difetta alquanto in creatività. ‘Epic Obsession’ fa insomma spesso la figura (non del tutto giustamente) di una versione più rough, diretta ed heavy di ‘Good To Be Bad’, con i soliti, insistiti richiami zeppeliniani, ed un suono a tratti più rauco e meno prodotto. Nel dettaglio, le canzoni che richiamano con più insistenza le atmosfere che ci hanno strabiliato sui due ultimi dischi degli Whitesnake sono “Sweet Little Baby Thing” e “Pray Out Loud” (quel riffing blues convulso e metallizzato, con lyrics inevitabilmente ad alto tasso di testosterone), “Ride The Monkey” (che con la sua ritmica agile e dinamica ricorda anche certe cose dei primi due album dei Burning Rain), e sopratutto “My Lust Your Fate” che ha la stessa, identica ossatura ritmica della “Tell Me How” incisa su ‘Forevermore’. E per rimanere in tema di autocitazioni, Doug non si fa scrupolo di prelevare quasi integralmente il refrain di “One Of These Days” (sempre da ‘Forevermore’) per completare la power ballad “Made For Your Heart”. Le schegge più zeppeliniane sono intitolate “Out In The Cold Again” (che segue le stesure più a là Page di ‘Good To Be Bad’, solenne e sensuale, luminosa e ondeggiante), “Heaven Gets Me By” e “Our Time Is Gonna Come” (dove il filtro sembra piuttosto quello tipico dagli Unruly Child, ma senza alcuna tentazione prog; la prima elettroacustica con uno sfondo lontano di keys, la seconda impostata su un’alternanza di chiaroscuri acustici e sciabolate elettriche che si fanno suadenti e solari nel coro: entrambe, comunque, straordinariamente fascinose). Se “When Can I Believe In Love” è una classica power ballad con qualche tocco Beatles ed un refrain un po’ Def Leppard, “Too Hard To Break” è AOR hard edged elegante con un tema melodico incantevole, mentre la super “The Cure” ha un riffing secco ma imponente ed un andamento lento e sexy, e “Till You Die” porta i più classici Van Halen nel ventunesimo secolo grazie ad un magistrale trattamento chitarristico. Dobbiamo poi aggiungere due bonus tracks, la versione acustica di “Heaven Gets Me By” e sopratutto la cover di “Kashmir”, metallizzata, un pelo più veloce dell’originale, diretta, ruvida, sfrondata quasi del tutto delle parti orchestrali, con un arrangiamento gestito praticamente solo dalla chitarra di Doug.

Dato il giusto credito a Keith St.John, sempre eccellente e camaleontico nelle interpretazioni, e ricordato che c’è qui all’opera una nuova sezione ritmica formata da Sean McNabb (Great White, House Of Lords) al basso e Matt Starr (quel tipo dalla testa pelata che ostenta uno strano look alla Fu Manchu) alla batteria (ma sono accreditati anche Jimmy D’Anda e Brian Tichy come “additional musicians”), è arrivato il momento di dare un giudizio globale su ‘Epic Obsession’. Ed io, nonostante le riserve espresse circa un paio di prelievi forzati da ‘Forevermore’, do un giudizio non solo positivo, ma molto alto. Insomma: sto sempre a strigliare quest’uomo ma poi mi sparo continuamente e con grande soddisfazione i suoi dischi, e questo ‘Epic Obsession’ so che lo ascolterò sempre con un piacere ancora maggiore rispetto a ‘Burning Rain’ e ‘Pleasure To Burn’. Alla fine, il nuovo sound degli Whitesnake, Doug ha contribuito a crearlo in una misura certo non indifferente e non può fare scandalo che se ne appropri. Senza dubbio, a Doug Aldrich mancherà sempre qualcosa, ma è altrettanto certo che quello che ha è già più che sufficiente a permettergli di incidere degli album derivativi finché vi pare ma dotati di un fascino che pochi altri hanno.

 

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21 GUNS

 

 

  • SALUTE (1992)

Etichetta:BMG

Ristampa: Rock Candy

Reperibilità:in commercio

 

Un altro di quei grandissimi dischi di hard rock melodico usciti troppo tardi. O forse no? ‘Salute’ fa parte di quella schiera di prodotti discografici di cui ho tracciato un identikit esaustivo nella recensione degli Heavy Bones (a cui rimando per i particolari), appartenenti all’ultimissima – e davvero gloriosa – fase dell’AOR. Impossibile impostare un discorso del tipo: se fosse uscito cinque o sei anni prima… Questo disco non poteva uscire prima del ‘91 o del ’92. È il punto finale dell’evoluzione di un certo modo di fare musica. Che poi, a quella certa musica, nel 1992 il pubblico avesse voltato in massa le spalle è solo un dettaglio (per quanto non irrilevante). Come Bad English, Giant, Unruly Child, House of Lords, i citati Heavy Bones e altri, i 21 Guns si facevano interpreti di un sound giunto (forse) al limite estremo della raffinatezza, dopo cui non poteva esserci altro che la ripetizione sterile, la citazione, la celebrazione.

Perno e leader della band era Scott Gorham, che dovunque andasse era ovviamente perseguitato dal ricordo di quel monicker a cui aveva  contribuito maniera fattiva per tanti album: Thin Lizzy. E, diciamolo subito, nella musica dei 21 Guns, dei Thin Lizzy non c’era assolutamente niente: con questa band, difatti, Scott voleva ottenere nelle charts americane un qualche piazzamento che il suo ex gruppo non era mai stato in grado di raggiungere, e puntò risolutamente sull’hard melodico per provarci. C’era stato un primo tentativo con il progetto Western Front, che coinvolse vari personaggi della scena rock di USA e UK, tra cui Moon Calhun, Marty Walsh, Laurie Wisefield, John Fiddler, in un furibondo succedersi di line up che non produssero mai nulla di concreto fino a che Gorham non arruolò il cantante Tommy La Verdi. Mike Sturgis (batteria) e Leif Johansen (basso e tastiere) completarono la band che conquistò un contratto major con la BMG ed entrò in studio con Chris Lord Alge per registrare ‘Salute’ (titolo che, lo specifico per quelli scarsamente edotti nella lingua di Shakespeare, non ha nulla a che vedere con raffreddori e fazzoletti, ma si traduce “salva (di cannone)”, ed è collegato al monicker della band, i ventuno colpi di cannone o di fucile che rappresentano il massimo degli onori militari).

L’apertura affidata a “Knee Deep” era un po’ fuorviante circa i contenuti dell’album, un metal californiano molto vigoroso che faceva suonare i 21 Guns come dei Tora Tora più cromati ed anthemici, era piuttosto “These Eyes” ad introdurci nel variegato universo musicale della band: aperta da un disegno esotico di tastiere, suggestiva e ariosa ma con un refrain potente, quasi come il Tommy Shaw di ‘Ambition’ traslato in una dimensione più elettrica. “Walking” proponeva una versione più raffinata e patinata dei Van Halen (anche grazie al filtro della produzione strepitosa), mentre “Marching in Time” era una calda power ballad fatta in parti uguali di Toto e Tall Stories. Ed era sempre la band di Steve Augeri o gli altrettanto grandissimi Neverland ad insinuarsi nell’atmospheric power della immensa “The Rain”, che esplodeva però nel coro con maschia irruenza. Al contrario, “Little Sister”, “Pays off Big” e “No Way Out” risultavano elettriche e veementi nei versi mentre il refrain era impostato su sofisticati impasti melodici: la prima accoppiava la potenza dei Wild Horses ad un coro che arieggiava quelli dei Warp Drive; la seconda metteva in campo gli Whitesnake versione USA; la terza, si basava su un deciso riffing zeppeliniano. Se “Just a Wish” era una divina ballad, calda ed umbratile nello stesso tempo, “Battered and Bruised” sparava uno spettacolare arena rock caratterizzato dai flash di ottoni nel coro. “Jungleland” era un brillante arazzo dove andavano a sovrapporsi panneggi ombrosi di keys ed esplosioni elettriche furibonde e rotolanti prima del refrain solare, ma anche “Tell Me” si risolveva in una eccelsa sintesi di melodia ed elettricità fuori da schemi triti e ritriti. L’edizione giapponese era arricchita da due bonus tracks, “Cold Heart”, quasi una power ballad densa di chiaroscuri molto Foreigner e “Blood Gone Bad”, pesante e gagliarda alla Blue Murder ma con un refrain AOR con forti afrori prog in stile Yes.

Che la BMG nei 21 Guns ci credesse è testimoniato dal gran numero di copie stampate di ‘Salute’ e smaltite poi in Europa sul mercato dei forati, su cui era prezzato a cifre da svendita fallimentare. Stupisce un po’, dunque, la recentissima ristampa della Rock Candy, dato che ‘Salute’ si può trovare con la massima facilità tra gli usati, e sempre a prezzo molto basso. Prendiamo comunque questa nuova edizione (rimasterizzata) come un postumo riconoscimento per il valore di una band che non riuscì a ripetersi sui livelli dell’esordio (nel 1997, ‘Nothing’s Real’ non diceva molto;  ‘Demolition’, pubblicato nel 2002, era solo una raccolta di demo, per quanto pregevoli) ed oggi è per Scott Gorham solo un ricordo, e forse neppure molto bello se consideriamo la filologia Thin Lizzy che Scott ha inaugurato con i Black Star Riders. Una volta, il rock progrediva; oggi, si muove a ritroso, e il più bravo è diventato quello che riesce a far credere alla gente di aver inciso le sue canzoni nel 1970. Se il trend rimane questo, risalendo l’asse temporale torneremo presto all’epoca di Elvis, già vedo schiere di ragazzotti abbandonare il look hippy per passare a quello rockabilly con il ciuffo alla Pompadour, imbracciare Gretch 6120 rosso ciliegia che fanno tanto anni ’50 e rintronarci con ricalchi di “Roll Over Beethoven” o “Johnny B. Goode”. Peccato che il povero Little Tony non abbia fatto in tempo a vedere la probabile nuova tendenza del rock’n’roll: gli avrebbe fatto sicuramente piacere ritrovarsi ad ascoltare le stesse cose che lui e Bobby Solo facevano sessanta anni fa…

 

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FIONA

 

 

  • BEYOND THE PALE (1986)

Etichetta:Atlantic

Ristampa:Wounded Bird

Reperibilità:discreta

 

Quanto possono essere bugiardi i monickers…  Questo disco porta quello di Fiona (al secolo, Fiona Flanagan), ma quanta responsabilità ha Fiona circa il suo contenuto? Ben poca. Come tanti, tantissimi altri casi, anche in questo il moniker è bugiardo. Fiona è solo la voce di un lavoro che deve essere accreditato ad una schiera di performers prestigiosi e concepito, coordinato ed assemblato da Beau Hill in veste di produttore. Il contributo di Fiona è stato minimo: le parole di qualche testo e la sua voce. Non che la voce sia un elemento trascurabile nel contesto di un album, ma certo quella di Fiona non sembra spiccare particolarmente, anche se ha caratteristiche sue proprie, dà quasi l’impressione di essere flebile e incerta mentre ha invece tutta la potenza, l’espressività e la tecnica che occorrono per affrontare bene l’hard rock. È una voce, insomma, fatta per amalgamarsi nell’arrangiamento delle canzoni, inserendovisi come parte integrante, senza dominarlo: la musica non è scritta attorno o per essa, quella voce va piuttosto ad adagiarsi fra le note come un semplice elemento del quadro, favorendo senza dubbio una coesione che altre interpreti invece spezzano con una vocalità straripante o troppo personale perché possa semplicemente scivolare attraverso il tappeto sonoro imbastito dalla band. Questo ha consentito a Beau Hill di dare una straordinaria compattezza alle canzoni, giocando su arrangiamenti densi, pieni di fantasia, che disegnano un quadro incantevole e rendono ‘Beyond the pale’ non semplicemente un bel disco, ma uno dei grandi album nella storia dell’AOR. I suoi artefici componevano – come già detto – un cast davvero stellare, considerato che alle chitarre si alternavano Reb Beach, Mike Slamer e Bobby Messano, alla batteria Joe Franco e David Rosemberg, al basso Donnie Kisselbach e Kip Winger (anche ai cori), con Beau Hill a fare anche da tastierista (il suo ruolo negli Shanghai), mentre fra i songwriters troviamo Bob Halligan Jr. e Billy Steimberg.

Tragedy” apre il disco con un AOR funky high tech dal ritmo irresistibile su un riff bello sodo, un refrain avvincente ed un variegato arrangiamento di tastiere, ma anche “Hopelessly Love You”  si regge tutta su un gioco di chitarre funky in cui scivolano i tappeti policromi di keys e ottoni: grandissimo l’assolo funk di Reb Beach. “Living in a Boy’s World” dimostra come un arrangiamento sofisticato (tutto impostato sul disegno delle percussioni sintetiche e le tastiere) possa nobilitare un tema melodico molto semplice e già ampiamente sfruttato, mentre la cover della hit di Chi Coltrane “Thunder and Lightning” diventa un R&B mutante, vivace e dinamica, con le evoluzioni della sezione fiati in evidenza. “Tender is the Heart” è di nuovo AOR high tech, in questa circostanza davvero sui generis, con qualche riflesso prog ed un intreccio policromo di tastiere davvero magistrale. “Running Out of Night" è quasi una power ballad, un crescendo che si snoda fra tastiere pulsanti, chitarre che calano sciabolate luminose, una melodia che anche qui si tinge vagamente di prog, mentre “In My Blood” ridisegna l’arena rock, sofisticata e travolgente, gelida e fisica, fascinosa e notturna. Se “He's on My Side” è una deliziosa power ballad, “You Better Wait” stupisce ancora: veloce, ancheggiante, chitarre che pulsano e sferrano armoniosi fendenti elettrici, il martellare delle keys: semplicemente immensa. Chiude “Keeper of the Flame”: un morbido intreccio di tastiere ci porta in un magistrale anthem fatto di chitarre potenti e keys scoppiettanti che sembra partorito da una versione ipersofisticata degli Autograph.

Il successivo ‘Heart like a gun’ (prodotto da Keith Olsen assieme a Beau Hill) nel 1989 pure si manterrà su livelli stellari, poi il sodalizio artistico e umano di Fiona con Beau Hill si rompe (per un po’, furono marito e moglie), e anche se ‘Squeeze’, nel 1992, sarà un buon disco di hard rock melodico, non riuscirà a replicare la magnificenza degli album che lo avevano preceduto (dimenticavo l’esordio autointitolato del 1985), tutti ristampati qualche anno fa dalla Wounded Bird e indispensabili in qualunque discoteca AOR che si rispetti.

 

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SILENT RAGE

 

 

  • DON'T TOUCH ME THERE (1989)

Etichetta:Simmons Record

Ristampa: Z Records

Reperibilità:scarsa

 

Silent Rage. Furore silenzioso. Non è un ossimoro, ma poco ci manca. Non so se quel monicker aveva un senso ed un significato precisi nella testa di coloro che lo avevano scelto, ma di sicuro faceva pensare ad un tentativo di conciliare opposti, una mediazione fra posizioni contrastanti. Ed è un fatto che la musica di questa band, almeno nel suo capolavoro, quel ‘Don’t touch me there’ che li portò ad un passo dalla consacrazione, media in maniera straordinaria fra opposti che appaiono inconciliabili ma tra cui i Silent Rage dimostravano non vi era affatto incompatibilità, perché nelle loro canzoni convivono rudezza e raffinatezza, melodia ed elettricità, forza e delicatezza. Ed una buona parte del merito di questa che appare una sorta di quadratura sul cerchio che racchiude l’ambito del rock melodico va a chi produsse il disco, il grande Paul Sabu. Ignorate il nome di Gene Simmons, accreditato anche lui alla produzione, Sabu ha dichiarato (e non si può non credergli) che il bassista dei Kiss non dette alcun input creativo (per la verità, Paul usò un linguaggio meno asettico per definire l’agire di Gene Simmons, e se avete letto la retrospettiva sui Silent Rage pubblicata nel numero 18 di Classix Metal sapete cosa intendo), del resto basta ascoltare i dischi di Sabu, da ‘Heartbreak’ al primo Only Child per ritrovare quasi integralmente la ricetta produttiva che ha reso ‘Don’t touch me there’ il masterpiece che è. Il bilanciamento accuratissimo fra chitarre e tastiere in cui andava ad incastrarsi la voce rude e vigorosa di Jesse Damon (immaginate un incrocio fra David Lee Roth e David Coverdale) generava un sound mai ispido eppure per nulla “addomesticato”, diretto ma nient’affatto scontato, a partire dall’iniziale “Runnin’ On Love”, in cui la freschezza melodica del refrain inconfondibilmente Sabu si contrappone ad un riffing elementare e serrato. “I Wanna Feel It Again” porta la firma della premiata ditta Held, Greenwood e Turner, un hard melodico convenzionale ma gradevole, dove spiccano gli impasti vocali e l’assolo di chitarra slide, ma con “Tonight You’re Mine” torniamo nell’universo melodico di Sabu, per una piece morbida e fascinosa. L’impasto chitarre/tastiere domina “Rebel With a Cause”, impetuosa e cromata, con un ritornello sempre impostato sulle coordinate care al jungle boy dell’AOR. Brusca virata verso le regioni pubiche con “Touch Me”: lenta, melliflua, avvolgente, tutta impostata su una straordinaria linea di basso: semplicemente, una delle canzoni con il più alto tasso erotico incise nella L.A. metallica dei Big 80s, ma scansando sia le atmosfere pseudo raffinate da B movie softcore di tanto AOR di maniera come quelle forzature in stile pornografico che scatenarono le ire di Tipper Gore e del suo PMRC. “Tear Up the Night” è invece diretta e metallica ma sempre raffinata e policroma, con un refrain morbidamente anthemico, “Shake Me Up” propone una versione patinata dei Van Halen, ancora con un testo sexy ed allusivo ed un bellissimo assolo, mentre la title track esplode energica ed impetuosa alla maniera degli Whitesnake versione USA. Si tira il fiato con la cover della Electric Light Orchestra “Can’t Get Her Out of my Head”, dove l’atmosfera incantata si scioglie in un refrain semplice e diretto, ma la temperatura risale immediatamente con “All Night Long” (scritta da Bruce Kulik), che segue (ovviamente) le tracce del più melodico sound dei Kiss e chiude “I’m on Fire”, class metal dinamico ed agile tra Dokken e Van Halen.

Il successore di ‘Don’t touch me there’ venne inciso con una squadra di produttori da urlo (Bob Ezrin, Pat Reagan e Kevin Beamish) ma pubblicato solo nel 2002, causa il licenziamento mai motivato dei Silent Rage da parte della loro label, la RCA (che li aveva presi in carico dopo la chiusura della Simmons Records). Intitolato ‘Still alive’, era senza dubbio un signor disco, ma non replicava quella ricetta magica che aveva dato un gusto se non unico di certo molto particolare a ‘Don’t touch me there’: qui, gli opposti non si toccano quasi mai, e c’è una divisione abbastanza netta fra quelle atmosfere che prima convivevano all’interno di uno stesso brano e su ‘Still alive’ viaggiano invece rigorosamente separate. Di ‘Four Letter Word’ è poi meglio non parlare, uno di quegli album che sembrano pubblicati solo per intristire o far incazzare come bestie tutti i vecchi fan di una band di cui su questa release è rimasto solo il monicker. Molto più interessanti gli album solisti di Jesse Damon, in particolare ‘Rebel Within’, che fu prodotto da Sabu ed in più di un frangente ripropone quel sound straordinario che i Silent Rage al completo non seppero o non vollero più darci.

 

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BRIGHTON ROCK

 

 

  • TAKE A DEEP BREATH (1988)

Etichetta:WEA Reperibilità:scarsa

 

Questo album rappresenta un altro di quei grandi esempi di AOR hard edged che nei tardi anni ‘80 la scena Nordamericana sputava fuori a ritmo incessante, ed è anche il miglior prodotto del monicker canadese Brighton Rock, gli album che precedono e seguono questo ‘Take A Deep Breath’ non possono vantare la medesima qualità nel songwriting, in particolare ‘Love Machine’ nel 1991 sposterà l’equilibrio del sound verso l’universo glam/sleaze ma con una dose di ispirazione minore rispetto al disco in esame. Disco che viene aperto dalla canzone più debole fra le undici che lo compongono (e c’è da chiedersi chi è stato a decidere di piazzarla davanti a tutte nella scaletta e perché), “Can’t Stop the Earth From Shakin’”, un classico AOR, ruvido quanto basta, su cui risalta la voce scabra e incisiva del singer Jerry McGhee: non una track da scartare in assoluto, ma di fronte al resto fa sicuramente la figura della parente povera… Già con “Outlaw” il livello sale e non di poco, tra parti d’atmosfera ed altre più tempestose abilmente miscelate in un bel crescendo con un refrain su base Journey, e più su ancora si va con “Hangin’ High ‘N’ Dry”, dove la lezione degli Yes di ‘90125’ viene riletta in chiave AOR tramite un suggestivo intreccio di tastiere ed un refrain delizioso nella sua (apparente) semplicità. “One More Try” viaggia attraverso un divino ordito di melodie in un clima al limite del pomp, mentre “Ride the Rainbow” filtra il big sound alla Bryan Adams nel setaccio della tipica melodia canuck, con un ritornello che parla di nuovo la lingua dei Journey. Piombiamo di botto in California per “Rebels With a Cause”, con il suo lento martellare metallico che si apre nel refrain ad una melodia (ovviamente) Autograph per un grande anthem da spiaggia, ed a L.A. rimaniamo ma spostandoci in qualche club del Sunset Strip per “Power Overload”, un grandissimo party anthem molto Black n’ Blue (quelle sezioni fiati distanti eppure così incisive…). “Who’s Foolin’ Who” si apre in un clima di atmospheric power con il suo ricamo di keys, chitarra e basso spezzato da un riff potente che va e viene sfociando in un refrain che potrebbe appartenere a dei Boulevard più ruvidi ed elettrici, “Love Slips Away” è una splendida power ballad in chiaroscuro magnificamente tessuta dall’incrociarsi delle melodie vocali, “Shootin’ For Love” ci catapulta di nuovo sulle spiagge di Venice per un altro formidabile omaggio agli Autograph (l’impasto tra vocals, keys e chitarre è semplicemente magistrale) e chiude impetuosamente “Unleash the Rage”, class metal veloce ed avvincente con efficaci punteggiature di tastiere ed un finale glorioso.

Take A Deep Breath’ mi pare che non sia mai stato ristampato, ma è reperibile senza patemi a prezzo onesto (dai dieci dollari in su) tra eBay ed Amazon: non fatevelo mancare.