recensione

AORARCHIVIA

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LANA LANE

 

 

  • EL DORADO HOTEL (2012)

Etichetta:Think Tank Media / Musicbymail Reperibilità:in commercio

 

Bisognerebbe andare cauti con le etichette. Stare attenti a quello che si associa (in genere, indelebilmente) al nome di una band. Pensiamo ai poveri Prophet, classificati da venti e più anni fra le band di pomp rock… Ogni volta che mi imbattevo in recensioni degli album di Lana Lane, leggevo un’etichetta che mi ha sempre lasciato perplesso e/o sospettoso: rock sinfonico. In sé – come ogni etichetta, beninteso – non significa un beneamato cazzo, e più di altre rischia di dirottare l’immaginazione del lettore a caccia di punti di riferimento in direzioni forse imprevedibili da chi l’ha (incautamente) adottata, ambigua e vaga com'è. Cosa dovrebbe o potrebbe essere questo “rock sinfonico”? Le prime band che mi vengono in mente da associare (in via ipotetica) ad un’etichetta del genere sono Meat Loaf ed Emerson, Lake & Palmer. Oppure cose tipo il “Concert for group and orchestra” dei Deep Purple, quel genere di dischi dove una band suona accanto ad un’orchestra sinfonica. O magari un certo tipo di pomp rock, dove gli arrangiamenti per archi si sprecano. In generale, non mi sono mai sentito stimolato a prendere in considerazione le band che venivano catalogate a quella voce. Poi mi arriva il promo dell’ultimo album di Lana Lane, ed io penso (temo…) di trovarmi alle prese con un mattone indigesto fatto di tonnellate di tastiere classicheggianti ed una voce da soprano impegnata in gorgheggi da operetta. Infilo nello stereo il CD, metto le cuffie con un’espressione di paziente sopportazione, già meditando una recensione breve e molto caustica che dovrebbe culminare con il consiglio di non mettersi all’ascolto senza prima avere a portata di mano una robusta dose di bicarbonato e premo il tasto Play…

La progettata recensione svanisce nel giro di tre minuti.

Rock sinfonico? Lana Lane e la sua band (guidata dal marito, il tastierista Erik Norlander)  fanno “rock sinfonico”? Non voglio dare del sordo o dell’annebbiato a chi ha ritenuto di etichettare così Lana Lane, forse i dischi precedenti rientravano in questo ambito, ma ‘El Dorado Hotel’, di sinfonico (almeno per come intendo io questa etichetta) non ha quasi niente.

Per me, questo è hard rock melodico, per nulla ridondante o oppresso da arrangiamenti adiposi, eppure ricco e denso di idee e spunti, suggestioni e fantasia. È un grande disco che faticherò non poco a descrivervi, tanta è la roba che Erik Norlander è riuscito a metterci dentro, sono sessantadue minuti di musica strepitosa che Lana Lane (la voce come una Ann Wilson più fredda e meno irruente) nobilita con interpretazioni divine.

Si comincia con i quasi otto minuti e mezzo di “A Dream Full of Fire”, inizio purpleiano, poi un riff massiccio in crescendo su veli di keys eteree, una chitarra molto Rainbow, un canto soul-jazz, suadente prima del ritornello solenne, grandioso e metallico, un bridge incantato dove sale una chitarra cristallina, poi un violino, infine un mandolino, disegnando ricami spagnoleggianti, quasi un bolero incastonato nel cuore della canzone prima della chiusura affidata ad un solo di chitarra lungo e spettacolare. “Maybe We’ll Meet Again” è fatta di trombe un po’ Asia, chitarre belle toste, una melodia in chiaroscuro che nel refrain si fa un pelo troppo enfatica e teutonica, un bridge pomp di tastiere. I sei minuti della title track sono quasi un omaggio allo Steve Stevens di quel disco stupefacente che fu ‘Flamenco a go-go’, viaggiano su un disegno di tastiere morbide, percussioni ed una chitarra acustica spagnola, anche la linea vocale intonata da Lana profuma di flamenco, le chitarre elettriche entrano gradualmente, spandono un velo dorato, si intrecciano alle acustiche nell’assolo, recedono nel finale per lasciare spazio al Moog di Norlander. “Darkness Falls” è impostata su una melodia di nuovo incantevole, un po’ celtica, che sbocca con fluidità stupefacente in un refrain cupo e tempestoso; bridge e assoli prima acustici, poi elettrici, suggestivi e molto Blackmoore, con la chiusura affidata ad un trepido palpitare di archi. “Hotels” è una semplice ballad per chitarre acustiche e pianoforte, con uno sfondo distante prima di violoncello poi di tromba, mentre “Believe” ci serve armonie vocali di stampo Asia su un riffeggiare galoppante, un drumming militaresco ed assolo di keys sempre decisamente Asia inspired. Cambio di scena con “Life of the Party”: riff di scuola Satriani, chitarra solista tutto wah wah su cui si adagia un’altra melodia ariosa eppure incisiva, splendido il contrasto della chitarra funk sul tappeto di tastiere. Il fantasma dei Rainbow aleggia su “Gone are the Days”: archi palpitanti, un fitto grattare di chitarre, una melodia impagabile, drammatica ed accorata senza enfasi. “Moon God” entra al ritmo di un riff zeppeliniano, si sviluppa su un’altra linea vocale strepitosa rotta da bridge tenebrosi, poi arriva un fascinoso solo elettrico su un veemente tappeto acustico: pura magia. “In Exile” è il sigillo finale, undici minuti e mezzo di musica stratosferica: archi, piano, una chitarra sempre molto Blackmoore, poi irrompe un organo sul fragore dei timpani, il pianoforte, spezza tutto un basso funky, un solo di Moog morbido come il velluto, poi una chitarra elettrica lacerante, un Hammond purpleiano in crescendo, per qualche battuta regna un clima anni ’70 prima che rientrino gli archi ed il piano e quella splendida voce, di nuovo il basso, quella chitarra che si fa largo come una lama luccicante, le tastiere che disegnano una melodia solenne ed un po’ mesta prima di un ultimo, rapido assolo di chitarra e Moog.

Detto che in questa occasione alla band si sono uniti personaggi del calibro di Bruce Bouillet (Racer X, The Scream), Jay Schellen (Hurricane, Unruly Child, Asia), John Payne (Asia), e la qualità audio è assolutamente impeccabile, non c’è molto altro da dire, solo consigliare caldamente di impossessarsi di quello che possiamo senza il minimo dubbio considerare il primo masterpiece dell’anno da poco iniziato.

 

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AINA

 

 

  • LIVING IN A BOY'S WORLD (1988)

Etichetta: Universal Music Norway

Ristampa:MTM

Reperibilità:scarsa

 

La scena rock norvegese non è affollata come quella svedese ma in genere compensa con la qualità quello che le manca in quantità. Oltretutto, le bands locali spesso – sia ieri che oggi – praticano un hard rock solo scarsamente imparentato con quello dei loro confinanti. Non mancano bands che per convinzione o comodità scelgono di esprimersi sul tipico registro dell’AOR scandinavo (i Da Vinci, per esempio), ma in più di una circostanza da questa piccola scena sono venuti fuori lavori eccellenti e poco allineati con quanto si fa più ad est: due ottimi esempi sono i Sons Of Angels ed i Perfect Crime, o, per venire ai nostri giorni, i The Wheel. Aina Olsen è norvegese e ai bei tempi che furono pubblicò tre dischi di cui almeno il terzo risulta veramente interessante. Questo disco è stato oltretutto ristampato dalla ormai defunta MTM nel 2005 con l’aggiunta di ben cinque bonus tracks e si trova ancora in giro a prezzo onesto.

Anche se i musicisti erano tutti norvegesi o tedeschi, il songwriting di ‘Living in a Boy’s World’ vedeva all’opera diverse personalità internazionali: Paul Janz, Judith e Robin Randal con James Christian, Torsten Flakne degli Stage Dolls. Le bonus tracks risultano scritte tutte e cinque da Bob Marlette, dovrebbero essere state incise nel 1991 e potrebbe trattarsi di canzoni opzionate in un primo tempo dagli House of Lords (James Christian e Aina avevano, in quegli anni, una relazione), ma è un'ipotesi che non ha mai avuto conferma. C’è comunque una discreta differenza tra il materiale pubblicato nel 1988 e queste cinque canzoni, che hanno una produzione più sofisticata e di netta marca americana.

Rocks Off” ci fa entrare nel disco con un gran riff, percussioni sintetiche, ritmo ancheggiante, rifiniture di chitarra preziose e cromate, tutto decisamente Headpins con il plus di una melodia ariosa e molto scandinava ma abbastanza aggressiva: travolgente. Non è da meno “I Must Be in Love”, dove spicca il dialogo tra una chitarra lacerante e keys misteriose, con vocals sexy che sfociano in un refrain molto pop. Dopo la power ballad dai tocchi pomp “Believe in Me”, c’è “Shot Down in Flames” con un chitarrone al calor bianco che si fa strada tra le solite percussioni quasi techno e arrangiamenti di tastiere molto primi anni ’80, per un risultato finale che richiama Surgin’ e Autograph. “You Babe You” è lenta ma molto elettrica, notturna e sensuale, vagamente Bon Jovi: le strofe somigliano molto a quelle della “It Ain’t Love” che gli House of Lords registreranno nel 1990 su ‘Sahara’. La title track era già stata incisa due anni prima da Fiona su ‘Beyond the Pale’ e la versione di Aina segue l’arrangiamento che Beau Hill mise a punto per quel disco, senza sfigurare, sopratutto dal punto di vista vocale (Aina aveva una voce sexy e potente, come una Gudrun Laos più vellutata, niente a che vedere con i toni opachi di Fiona), il resto è okay, AOR hard edged, molto tecnologico ma sempre elettrico: certo, il confronto si fa duro se ricordiamo che le parti di chitarra erano state eseguite nella prima versione della canzone da Reb Beach e Mike Slamer… “Love Forever Story” è una grandiosa tranche di big sound, “I Need to Know” una soave ballad elettroacustica. “Pleasure & Pain” lasciava spazio ad un bollente organo Hammond fra il solito ancheggiare di marca Headpins: divertente, ma quel bridge classicheggiante cosa c’entra col resto?

Le bonus tracks, dicevamo, hanno un sound abbastanza diverso, certo non si tratta di semplici demo, forse sono tracce estrapolate da un intero album mai edito? Resta il fatto che siamo al cospetto di cinque perle che rendono l’acquisto della ristampa molto più allettante rispetto all’originale (sempre che riusciate a trovare l’edizione originale, pubblicata solo in Norvegia). “Save Me Father” è apocalittica eppure cromata sul riff portante zeppeliniano, con un clima heavy blues, spettacolare, a tratti un po’ western grazie alle rifiniture di chitarra slide: super. E ancora più in alto si va con “It’s Raining It’s Pouring”, un coacervo di riff a là Page: tempestosa, elettrica, maestosa, un po’ esotica, sexy e provocante. “Too Good to Be True” è invece un’altra divina esercitazione di big sound, tra Giant e Beggars & Thieves, “If I Can’t Have You” una melodia robusta ma sempre ariosa, a metà strada tra gli Heart e Robin Beck e conclude “Shake You Good”, un divertente anthem da camera da letto ad alto tasso erotico, rovente e sofisticato.

Dopo questo disco, Aina si ritirò dalle scene (s’era trasferita negli USA, dove aveva intrapreso la carriera di fotografa), riapparendo solo nel 2008 con ‘Little Escapades’, album completamente fuori dai territori del rock melodico, dunque la sua storia, per quanto ci riguarda, termina con ‘Living in a Boy’s World’, disco che chiunque ami l’AOR dei bei tempi che furono non può permettersi di ignorare.

 

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VAN HALEN

 

 

  • A DIFFERENT KIND OF TRUTH (2012)

Etichetta:Interscope Reperibilità:in commercio

 

Tanto tuonò che piovve.

I Van Halen sono tornati, e più Van Halen che mai, dato che ormai in tre su quattro portano quel cognome. È di nuovo tutto praticamente come una volta: c’è una sezione ritmica fragorosa, la chitarra galattica di Eddie e la voce sguaiata di Diamond Dave che racconta storielle sconce. Certo, a guardare le ultime foto del patriarca della famiglia, si resta intristiti e magari raggelati (i capelli grigi, la faccia incartapecorita, i denti marci, e non mi riferisco certo alla press conference durante cui è stato presentato il nuovo album, per quell’occasione il nostro era stato stuccato, tinto e lucidato a dovere), e solo allora ci ricordiamo che sono passati la bellezza di trentaquattro anni dal primo, storico album e che questo ‘A Different Kind of Truth’ è figlio più di necessità finanziarie che della voglia di tornare a far musica assieme all’odiato, aborrito, disprezzato David Lee Roth.

Prodotto per nostalgici? Parrebbe così, dato che le concessioni al nuovo sono ridotte ai minimi termini, in tutti i sensi: sound, produzione, musica, testi. È talmente primi Van Halen, questo disco, che in certi momenti sembra quasi un album dei Bulletboys… Il fatto che per metterlo assieme siano stati costretti a raschiare il fondo del barile, riciclando la bellezza di sette vecchissimi demo ed un pezzo già edito, dice chiaramente che non c’era la voglia o la capacità di riprendere il discorso interrotto nel 1984. ‘A Different Kind of Truth’ conta su appena cinque canzoni nuove di zecca, il resto è fatto da (chiamiamoli pure con il loro nome) scarti di vecchie sessions pre-debutto. Eppure tutti sono corsi a comprarlo e scaricarlo, almeno negli USA. È schizzato al numero due della classifica di Billboard vendendo 188.000 copie nella sola prima settimana. Se ci aggiungiamo il downloading legale e sopratutto illegale, possiamo azzardare che almeno mezzo milione di americani in questo momento se lo stanno sparando a tutto volume: e ciò stimola qualche riflessione.

Tanto per cominciare, è inutile che mi metta a descrivervi queste tredici canzoni nota per nota (o riff per riff), perché: a) se siete fans dei vecchi Van Halen sarete già corsi a comprarvele e probabilmente ve le state godendo un mondo, e continuerete a godervele un mondo qualunque cosa io possa mai dirne, in bene o in male; b) se non sapete di cosa stiamo parlando, allora non ha molto senso che compriate questo disco, meglio andare a prendere ‘Van Halen’, o ‘Women and children first’ o ‘1984’ per avere le idee chiare su quello che erano i Van Halen era Roth.

E con questo abbiamo chiuso il discorso per la nostra italietta melodica e festivaliera, dove l’interesse per la musica rock, in qualunque forma, è blando e ristretto ad un numero infimo di aficionados (infimo se paragonato agli aficionados della musica pop cantata nell’idioma nazionale, naturalmente). Ma come la mettiamo con quel mezzo milione di yankees che si sono buttati su ‘A Different Kind of Truth’ come un branco di affamati davanti ad una tavola imbandita di cosciotti di tacchino? Pare che questa operazione nostalgia stia andando oltre le previsioni più rosee di chi l’aveva architettata e non venitemi a raccontare che sono stati solo gli over trentacinque ad acquistare questo nuovo disco. Allora, cosa ha reso di colpo tanto attraente questa band per gli under venti, cioè per quella fascia di pubblico che muove materialmente il mercato discografico (o ciò che ne resta)?

È una questione di “mito”. Non dei soli Van Halen, ma di quel magico periodo della storia occidentale chiamato “anni ‘80”. Perché i Van Halen, anche se il loro debutto uscì nel 1978, i Big 80s li hanno ufficialmente aperti e battezzati: hanno creato un’estetica a cui tutte le altre bands si sono adeguate senza discutere. Il metal californiano lo hanno inventato loro. La figura del frontman sfacciato e allupato, l’hanno inventata loro. La figura del guitar hero, l’hanno inventata loro. Questa band (anche solo riunita per tre quarti… ma quando mai i bassisti hanno fatto numero, come si suol dire?) è puro mito incarnato, come i Rolling Stones. Ma se i Rolling Stones sono “soltanto” un dei tanti simboli degli anni ’60, i Van Halen rappresentano non una piccola scheggia ma una parte molto consistente del mito dei Big 80s. Un mito che, è evidente, deve in questi tempi così calamitosi e tragici esercitare un fascino straordinario sull’americano medio, con il suo flavour di El Dorado che, nonostante tutto il lavoro infaticabile dell’intellighenzia per demolirlo, persiste e resiste. Che qualcuno possa sfruttare questo momento psicologicamente e materialmente difficile per riportare alla corte delle majors band dedite al nostro genere, è possibile, ma io non ci credo. Pensiamo al destino dei poveri Bad City, con il loro ottimo ‘Welcome to the Wasteland’ pubblicato da una major e snobbato da tutti. Cosa non funzionava in quel disco? Solo le facce imberbi dei suoi esecutori. Erano troppo giovani, quei ragazzi. Non erano loro che potevano riportare quel certo sound nella top ten di Billboard. Forse nessuna band nuova può, almeno finché ci saranno in giro artefici di quell’epoca come i Van Halen. E comunque, la musica, in questa faccenda, conta solo fino ad un certo punto: è quel clima, quell’umore, quell’atmosfera che mezzo milione di americani hanno cercato in ‘A Different Kind of Truth’, dato che non c’è altro luogo in questo mondo sconvolto e in preda a mutamenti che neppure il più inguaribile ottimista può vedere per il meglio, in cui possono trovarli.

E poiché non voglio che qualcuno pensi che ho buttato lì tutta questa lunga divagazione socio-psicologica per scantonare ed evitare di dire ciò che penso di ‘A Different Kind of Truth’, puntualizzo che il disco mi è piaciuto. Ci sono diversi acuti: “China Town” (veloce, intricata, con un notevole lavoro di Eddie sul pedale wah wah ed un assolo spettacolare); “Blood and Fire” (un canto quasi pop su un bellissimo intreccio di accordi ed un assolo superbo, veloce e rabbioso); la trama agile e furibonda di “Honeybabysweetiedoll”, che ha un guitar work travolgente; lo swing di “The Trouble with Never”; il folle, strepitoso boogie elettroacustico “Stay Frosty”. Sul resto aleggia una discreta sensazione di “già sentito”, ma il punto è che anche gli scarti dei Van Halen valgono molto più della gran parte del rock in circolazione, ed Eddie è ancora il re dei chitarristi e Diamond Dave l’entertainer numero uno dell’hard rock e passare quasi un'ora con loro sarà sempre e comunque un piacere.

 

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ARCADE

 

 

  • ARCADE (1993)

Etichetta:Epic Reperibilità:scarsa

 

All’interno di una recensione scritta diverso tempo fa, ironizzavo sui tentativi (patetici) che Stephen Percy fece nei primi anni ’90 per farsi accettare dalla grunge generation con la sua nuova band, gli Arcade. Avrei dovuto però specificare che quei tentativi iniziarono con il secondo album della band, 'A/2', uscito nel 1994. L’esordio autointitolato dell’anno precedente, invece, era disco formidabile e non riservato in esclusiva ai novelli orfani dei Ratt.

Per mettere assieme la sua nuova band, Stephen raccattò un bel numero di gloriosi perdenti del Sunset Boulevard, a cominciare da Fred Coury, fuori dai Cinderella dopo ‘Heartbreak Station’, e poi il chitarrista dei randagi Sea Hags (provate ad immaginare un misto di primi Motley Crue, Jetboy e Dogs D’Amour virati al nero) Frankie Wilsey (o ‘Wilsex’, come preferiva farsi chiamare), l’altro chitarrista Johnny Angel veniva dalla band di Michael Monroe ma fu sostituito prima di entrare in studio da Donny Syracuse, mentre nulla si sa riguardo il bassista Michael Andrews. Il primo moniker scelto fu Taboo, mutato poi in Arcade per le solite questioni di omonimia.

Prodotto da David Prater, con Jim Vallance a dare una mano nel songwriting, ‘Arcade’ non si rivelava, come detto, un album diretto ai soli Ratt maniacs, ma certo il timbro della voce di Stephen Pearcy, quel suo modo di cantare e sopratutto le sue inconfondibili linee vocali situavano il parto della nuova band in territori molto vicini a quelli battuti dal cantante in compagnia di Robbin Crosby e soci. Insomma: se i Ratt proprio non vi vanno a genio, allora state lontani da questa band… Ma se avete sempre pensato che gli autori di ‘Out of Cellar’ avrebbero avuto tutto da guadagnare da un approccio più heavy, meno cromato e pop, ‘Arcade’ è il disco che fa per voi. “Dancin’ With The Angels” e “Nothin’ To Lose” già dicono tutto: aperte entrambe da un basso rotolante, la prima con una chitarra slide graffiante ed un riff essenziale, la seconda più ancheggiante, marchiate da quelle linee melodiche che hanno fatto scuola. “Calm Before The Storm” evidenzia un riffing serrato, qualche soluzione L.A. Guns ma sopratutto una sfacciata somiglianza con la “Sweet Emotion” di Aerosmithiana memoria, mentre “Cry No More” è un’eccellente power ballad elettroacustica dilatata da un bello sfondo di tastiere, “Screamin’ S.O.S.”  un class metal cadenzato e potente. Un riff di scuola Montrose regge “Never Goin’ Home”, che si apre alla solita, irresistibile melodia nel refrain, “Messed Up World” invece è immersa in accordi notturni ed insinuanti ma con un ritornello molto glam. Totalmente Ratt “All Shook Up”, veloce e con un riffing geometrico, “So Good... So Bad...” è la ballad di rigore: chitarre acustiche e pianoforte, tutto abbastanza Cinderella. Riff zeppeliniano e refrain assolutamente Ratt steso su un tappeto di chitarre scintillanti per “Livin’ Dangerously” prima dell’intermezzo “Sons And Daughters” che fa quasi da intro alla conclusiva “Mother Blues”, suggestiva piece acustica con sfumature country folk.

I riscontri di pubblico avuti da ‘Arcade’ furono abbastanza buoni, ma Stephen Percy ritenne di doversi allineare alle mode vigenti svoltando repentinamente sul punkalternativo per il successivo album ‘A/2’, con risultati stavolta molto meno soddisfacenti. E ci sono voluti un bel po’ di anni perché Stephen realizzasse che il suo pubblico non voleva certo quel genere di merda da lui o dagli altri reduci dei Big 80s. Meglio tardi…

 

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HYDROGYN

 

 

  • PRIVATE SESSIONS (2012)

Etichetta:Rapid Fire Entertainment Reperibilità:in commercio

 

Finalmente (finalmente?) arriva un disco degli Hydrogyn con una copertina non impostata su un’immagine più o meno panoramica delle protuberanze toraciche della cantante Julie. Non che lo styling mammellare di queste cover fosse criticabile in sé, è solo che dal primo al terzo album vi era stato un inesorabile crescendo nelle proporzioni occupate dal decolletè di Julie nelle fotografie, al punto che si poteva ragionevolmente supporre il nuovo album venisse adornato con nient’altro che un primissimo piano di quelle alture gemelle di più che rispettabili proporzioni. Un tale genere di impostazione grafica, come ho già sottolineato in precedenti occasioni, strideva abbastanza con musica e testi della band, tutt’altro che bollenti o piccanti, e forse qualcuno ha infine realizzato che questo pervicace schiaffare le poppe – “i seni” non rende adeguatamente il concetto – della cantante sulla cover non produceva altro che un’aspettativa di carattere erotico riguardo il contenuto che però finiva sempre frustrata, ingenerando possibili stati d’animo negativi nell’ascoltatore. Non che questa cover con un occhio verde smeraldo stile zombie che scruta dal buco di una serratura arrugginita manchi di sfumature allusive: a noi recensori è stata inviata una foto diciamo “completa” che ci mostra cosa lo zombie vede attraverso quel buco e si tratta (indovinate…) di una Julie in lingerie!

Archiviato l’aspetto grafico, veniamo a quello musicale di ‘Private Sessions’. L’inizio è all’insegna del moderno, prima con “Something To Say” (riffing incalzante ma refrain piacevolmente melodico) poi con “Forbidden Kind” (drammatica e cupa, totalmente Evanescence) e “Scream” (che però apre nel ritornello ad una linea melodica classica e coinvolgente). “I Don’t Know How” alterna strofe rarefatte ad un refrain ruggente, ma con “Heated Nights” e “Creeper” sbarchiamo finalmente in California, sulla sponda metallica di L.A.: notevole l’arrangiamento della prima, che avvicenda sapientemente parti elettriche ed altre più suadenti, mentre sulla seconda spiccano le sfumature street rock. “Don’t cha Walk Away”, preceduta da un intro di tastiere e pianoforte, si pone a metà strada tra l’hard melodico più classico e quello contemporaneo, mentre “Roseline’s Song” è una deliziosa power ballad che deve tutto o quasi agli Heart dei Big 80s. Nuova incursione dalle parti del Sunset Boulevard con “Feeling”, class metal al crocevia di Whitesnake e Quiet Riot a cui fa seguito un’altra sterzata nei territori del moderno contaminato di suggestioni teutoniche, “Un Monde Perdu”, che per Dio solo sa quale motivo ha il canto in francese ed è interpretata in duetto con una persona di cui nella bio si tace il nome. Anche “It Doesn’t Matter” mescola con buon gusto e ritmo sostenuto elementi classici ed attuali e chiude (presentata come bonus track) “Alone”, ripescata dal precedente ‘Judgement’ e reincisa con un arrangiamento più melodico.

Dunque, gli Hydrogyn proseguono nella loro politica: stare con un piede di qua ed uno di là della barricata che divide il rock melodico tradizionale da quello di nuovo conio. Opportunismo, indecisione, sincera volontà di riunire i fronti opposti? Quale che sia la molla che li muove, ‘Private Sessions’ si presenta come il loro album meglio prodotto e quello che più si presta a stuzzicare l’interesse dei conservatori senza scontentare o deludere gli amanti del new breed.

 

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WARP DRIVE

 

 

  • GIMME GIMME (1989)

Etichetta:MFN Reperibilità:scarsa

 

L’originalità in musica è merce rara. I cambiamenti procedono ad un ritmo lento, lentissimo e l’attività prevalente fra chi suona è copiarsi a vicenda, riciclando all’infinito riff, melodie, pattern ritmici. Ma l’Originalità (prego notare la maiuscola) quanti la vogliono davvero? Se dobbiamo giudicare dalle vendite dei dischi di personaggi che hanno fatto un punto d’onore del proporre qualcosa di veramente nuovo e mai sentito prima, sono pochini. Quanta gente ascoltava i dischi di Captain Beefheart? E quelli di Frank Zappa? Oppure le primissime cose dei Sonic Youth o dei Butthole Surfers? O certi lavori di Robert Fripp? E poi, nove volte su dieci, “originale” significa soltanto “strano”. Magari assurdo. Oppure, semplicemente, indecifrabile. Puro rumore, che forse avrà un senso nella testa di chi lo ha generato ma alle orecchie di chi lo ascolta è nient’altro che questo: rumore. Ma anche senza arrivare agli estremi dei lavori di gente come Naked City o il Lou Reed di ‘Metal Machine Music’, spesso e volentieri uscire fuori dagli schemi non genera nulla tranne lo stupore, come accade quando ci si mette all’ascolto di certi dischi di Steve Vai che si risolvono in una serie interminabile di bizzarrie e trucchi da baraccone. Eppure, si può essere originali senza uscire dal seminato, si può fare del nuovo senza entrare nei territori del puro suono. Uno degli esempi migliori che mi viene in mente, per quanto riguarda l’hard rock, sono i lavori di Steve Stevens, in particolare ‘Memory Crash’. Oppure, in ambito blues, gli album della blues band di Scott Henderson. E per l’AOR? Qui l’approccio deve necessariamente diventare più soft, perché il rock melodico vive di schemi abbastanza rigidi: se li rompi del tutto, non puoi più parlare di Adult Oriented Rock. Ma neppure si può continuare in eterno a riciclare le solite cose prelevate dei dischi dei soliti nomi, Journey in testa. E questo era ben chiaro anche nei Big 80s, quando però l’originalità non premiava nessuno. Se volevi sperare di vendere i tuoi dischi, dovevi stare nel branco, fare quello che facevano gli altri, senza abbandonarti a veroniche o “stranezze”. Tanti hanno fatto le spese di questo orientamento al grigio di un mercato che pareva non si stancasse mai di proposte che spesso avevano il solo merito di clonare musica di act più celebri o fortunati. La colpa non era dunque tutta delle case discografiche, artisti che provavano a dire qualcosa di nuovo nel nostro ambito venivano messi sotto contratto, ma i loro dischi restavano a prendere polvere negli scaffali, nessuno premiava o dava quanto meno una chance a chi – coraggiosamente, considerato l’andazzo – tentava la carta della novità. Come i Warp Drive. I quali, più che “originali” possiamo definirli “anticonvenzionali”, nel senso letterale della parola, ossia che non seguivano le convenzioni del genere, almeno non del tutto. Difatti, il punto di riferimento che il leader Mark Woerpel si era dato – e ben fermo, anche – erano gli Autograph, il suo modo di cantare era palesemente glam; eppure, ‘Gimme Gimme’ suona tutt’altro che derivativo o scontato, appena pensi di aver circoscritto una canzone tutto cambia e muta, ma con una fluidità stupefacente, non si avvertono mai fratture, iati, vuoti. Questa voglia di rimodellare senza farli a pezzi schemi che appaiono infrangibili e inossidabili si avverte fin dall’iniziale “Bang The Drum”, un grandissimo anthem che secondo la miglior tradizione del genere è stato piazzato in prima fila per aprire l’album: ma contrariamente alla tradizione che vuole l’anthem sia breve, compatto, privo di fronzoli, “Bang The Drum” dura la bellezza di sei minuti, fra un intro d’atmosfera, il crescendo, i sensazionali impasti vocali, il bridge percussivo ed una fase solista fatta di note tirate dove si alternano la chitarra elettrica ed un guitar synth indiavolato. “Moments Away” ha un inizio purpleiano, poi strofe scandite da un drumming potente e agile prima del refrain melodico, mentre nell’assolo si ripete il dialogo tra chitarra e guitar synth. “I4U” è introdotta da un fraseggio di chitarra morbido e caldo sotto cui sboccia un lontano palpitare di tastiere ed il refrain sussurrato mentre parte il crescendo, un’immensa power ballad tramata di lunghe, trascinanti parti soliste. “Crying Girl” ha un tempo veloce, parti di chitarra suonate velocissime, quasi un party metal, divertito e californiano, con un refrain classicamente Autograph. Per “Words” possiamo usare la parola “capolavoro”: inizio all’insegna dell’atmospheric power con una chitarra acustica misteriosa sul tappeto di keys, poi un crescendo che richiama il Tommy Shaw di ‘Ambition’, solenne, suadente e graffiante rotto da un assolo lacerante, l’accelerazione finale. “Eyes On You” ci riporta a L.A. con uno strepitoso intreccio chitarra / tastiere introdotto da un fraseggio molto Whitesnake, “Take, Take Me Now” è impostata su soluzioni vocali magistrali, un hard melodico in chiaroscuro di ampio respiro, pieno di invenzioni, con un arrangiamento variegato e imprevedibile, nello spazio di poche battute si passa dall’heavy metal all’AOR d’atmosfera ed al soul… “Rock ‘N The Boat”, dopo un intro incantato, viaggia su una cassa martellante, qui i Warp Drive sembrano davvero degli Autograph OGM, sempre accessibili ma per nulla banali. “Stay On, Stay On” è un refrain secco e anthemico incastrato fra le strofe melodiche, un telaio di classico metal californiano, ma ricamato con squisita raffinatezza, adorno di ficcanti intarsi di chitarra e tastiere. “Making Time Stand Still” inizia in maniera quasi dimessa, impostata su un altro bellissimo crescendo che porta con sé un refrain molto Journey, e chiude la lenta “Cover Me”, vagamente Def Leppard, fatta di accordi che in certi momenti suonano un po’ straniati ma con una linea melodica deliziosa.

Strepitosamente prodotto da Mark Woerpel assieme a Rick Medlocke, Ben Grosse e Al Nalli, mixato da Rick Medlocke e Eddie Offord, ‘Gimme Gimme’ non ottenne il minimo riscontro da parte di un pubblico distratto e stordito. Mark incise un secondo album prima di unirsi ai Blackfoot (degli album AOR della band di Rick Medlocke parleremo – mi auguro – a breve), rimasto inedito fino al 2011 e pubblicato finalmente dalla Nalli Records, ‘Something to Believe In’, un altro disco eccellente, più aggressivo e un po’ meno avventuroso di ‘Gimme Gimme’, ma che riconferma la statura di quel musicista (e splendido chitarrista) che fu Marl Woerpel, dotato di un talento inversamente proporzionale alla fama conquistata.