AORARCHIVIA

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STARZ

 

 

  • STARZ (1976)

Etichetta:Capitol

Ristampe:Metal Blade, Beat Goes On

Reperibilità:buona

 

Quella del precursore è una vita dura, un’esistenza ingrata, una carriera di bassissimo profilo. I frutti del tuo lavoro, quando e se arrivano, se li godono altri: a te, resta solo il piacere – se è un piacere… – di venire citato da critici e storici; trattato, a seconda della benevolenza di chi ti sta omaggiando, come quello che ha dato l’imbeccata giusta a tipi più fortunati, furbi o opportunisti, oppure da grande incompreso sbucato troppo presto e/o al momento sbagliato. A volte arrivano anche i riconoscimenti – opportunamente tardivi – di quelli che hanno seguito la strada da te tracciata, ma tutto questo serve a poco o nulla. Tu resti quello che è venuto prima, inevitabilmente rimasto fuori dallo splendore: hai steso la miccia ma non sei riuscito a darle fuoco. Merce per i libri di storia.

Tra i precursori del rock melodico, gli Starz sono quelli che con più lucidità hanno tracciato la strada verso il futuro e, come i loro colleghi Legs Diamond ed Angel, non sono mai riusciti a imporre un verbo che si sarebbe affermato clamorosamente quasi cinque anni dopo il loro scioglimento. Tra il 1976 ed il 1978, gli Starz praticamente dettarono le regole di quei generi che anni dopo sarebbero stati etichettati hard rock melodico e class metal, senza riuscire non dico ad affermarsi, ma neppure a riscuotere un successo moderato. Contrariamente ai Legs Diamond – bistrattati dal management e dalla loro stessa casa discografica – ed agli Angel – che investirono male i fondi loro concessi, portando in giro un live show mastodontico che per poco non mandò in fallimento la label che li aveva sotto contratto, la Casablanca – gli Starz ebbero l’appoggio convinto della Capitol, che non lesinò denaro e sforzi promozionali, ma senza ottenere quasi nulla da un pubblico che in quel periodo storico era sicuramente attratto da altri generi musicali, ma non mancava comunque di sostenere hard rock bands come Kiss o Aerosmith, per non parlare dei Boston, che inanellarono 17 dischi di platino con il loro primo album nello stesso anno in cui Ritchie Ranno e compagni esordivano. Insomma, la colpa dell’insuccesso non possiamo darla solo al punk, non furono i Ramones ed i Blondie ad affossare gli Starz. Forse era davvero troppo presto, prima dovevano estinguersi i grigi anni ‘70 e spuntare i gloriosi anni ‘80 perché l’hard melodico facesse rizzare le orecchie agli americani. È un fatto che gli Starz non trascurarono nulla per farsi notare, prima indurendo il loro sound con il secondo album ‘Violation’, poi correggendone leggermente le coordinate in direzione power pop con ‘Attention Shoppers!’, ma senza ottenere alcun risultato, così che l’ultimo ‘Coliseum Rock’ chiudeva il cerchio, tornando pari pari al sound di ‘Starz’ per esaurimento o disperazione. Da quella data ci sono state solo raccolte di demo e bands parallele e dischi live e anche se oggi gli Starz si sono riuniti e suonano dal vivo, di nuovi album non si parla neppure per scherzo.

La bio della band e dei suoi vari membri è lunga e intricata e piuttosto che ricapitolarla per sommi capi preferisco rinviare all’ottima scheda (in italiano) di Wikipedia, concentrandomi invece sulla musica, perché, come spesso accade con le bands “storiche”, gli Starz più che ascoltati vengono citati o nominati, e la scarsa reperibilità del loro materiale durata per molti anni (la prima ristampa su CD arrivò solo nel 1991, quando le edizioni in vinile erano già esaurite da tempo) non è certo stata uno sprone per chi degli Starz aveva solo sentito parlare e desiderava procurarsi i loro dischi.

Prodotto da Jack Douglas, ‘Starz’ è aperto dalla  scanzonata “Detroit Girls”, che può essere considerata il prototipo di certo metal da spiaggia, (anche se l’assolo di Richie Ranno è totalmente anni ‘70) allo stesso modo della strepitosa “Tear It Down”, che possiede un andamento dondolante che fa quasi pensare ai Beach Boys. “Live Wire” ha un inizio roboante, chitarre secche ed heavy sulle strofe ed un refrain “leggero” e melodico (se da questa canzone c’è qualcosa da imparare, sicuramente i Quiet Riot hanno mandato la lezione a memoria…). “Boys in Action” è un macigno, ma con una linea melodica decisa e nette sfumature glam, un finale accelerato e violento: è appena il caso di sottolineare che Nikki Sixx si è più volte dichiarato un fan degli Starz… “(She’s Just a) Fallen Angel” è invece una power ballad che, pur nel suo ordito settantiano, ha tocchi di modernità che alle nostre orecchie possono suonare addirittura stupefacenti. Dopo il glam veloce e beffardo di “Monkey Business” arriva “Night Crawler”, un crescendo dal sapore quasi zeppeliniano, ma addolcito dal tipico gusto melodico yankee, con un refrain avvincente e cromato. Se “Over and Over” è un’altra esemplare scheggia di heavy melodico, “Pull the Plug” è un fantastico mid tempo blues, notturno e scintillante, lento e sensuale. Chiude l’album “Now I Can”, pesante ma agile, a tratti nevrotica, con un gusto glam “maschio” che per l’epoca era un fatto nuovo (il glam britannico che andava per la maggiore negli anni ‘70 anche in America aveva coreografie e sottofondi molto più ambigui) ed un arrangiamento fantasioso e variegato.

“Recuperare” gli Starz non è fare dell’archeologia musicale: chi ama l'AOR semplicemente non può privarsi di una band che è arrivata troppo presto o soltanto non ha avuto quella fortuna che largamente meritava, ed è servita da modello a quanti hanno poi costruito quel gigantesco edificio che nei Big 80s chiamavamo melodic rock. ‘Starz’ ci dice che già nel 1976 Michael Lee Smith (uno dei più grandi cantanti che il nostro genere possa vantare), Richie Ranno, Brendan Harkin, Peter Sweval e Joe Dube avevano gettato le fondamenta di quell’edificio e tirato su almeno un paio di muri maestri mentre tanti altri, più celebri o celebrati, si sono limitati ad aggiungerci un mattone o a dargli una mano di vernice.

 

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SCORPIONS

 

 

  • STING IN THE TAIL (2010)

Etichetta:Sony Reperibilità:in commercio

 

Here I am… Rocking like an hurricane…

Se non è cominciato tutto con queste sette parole, poco ci manca.

Sì, d’accordo, c’erano già stati 'Lovedrive', 'Animal magnetism' e sopratutto 'Blackout' (per non parlare di tutti i dischi degli anni ‘70, su cui però gravava come un macigno la chitarra splendidamente psichedelica e totalmente fuori posto di Uli Roth), ma è con ‘Love at first sting’ che gli Scorpions, letteralmente, esplodono, e portano alla perfezione la loro versione del class metal. Senza Klaus Meine e soci, non ci sarebbero mai potuti essere i Dokken e una buona fetta di tutto il melodic metal americano dei Big 80s. Quel sound ha fatto scuola, è diventato un punto di riferimento: essenziale, quasi spartano nella sua semplicità, diretto come un treno in corsa. Dai migliori Scorpions non abbiamo mai avuto voli pindarici, finezze, invenzioni audaci. Se fossero riusciti a trattenere Michael Shenker forse la storia sarebbe stata diversa, molto diversa, ma il più giovane dei fratelli Shenker non era destinato ad inserirsi felicemente in una band già assestata, quello che accadde con gli UFO probabilmente sarebbe potuto capitare anche con gli Scorpions, Michael aveva bisogno di tutta la libertà che dava un progetto gestito in assoluta autonomia, mentre gli Scorpions erano e restano un organismo compatto, una squadra che non lascia spazio alle veroniche di un solista talentuoso e anarcoide.

Primi a infilare precise seppure essenziali linee melodiche nel tessuto dell’heavy metal e primi a proporre vere ballads tra un assalto elettrico e l’altro, gli Scorpions hanno conosciuto la notorietà fuori dagli steccati del genere nei primi anni ‘90, quando la loro fischiettante “Winds of change” divenne una sorta di inno per la Germania finalmente non più divisa tra est ed ovest. Arrivarono allora un pugno di album controversi, che culminarono con quell’ ‘Eye II eye’ che vedeva la band tentare una conversione pop più comica che improbabile. Tralasciando anche le indecifrabili (per me, almeno) riscritture per orchestra di ‘Moment of glory’, si arriva al 2004 con l’ottimo ‘Unbreakable’ e poi al 2007 con l’altrettanto buono ‘Humanity – Hour I’. Ma questo ‘Sting in the tail’ straccia tutto quanto la band ha fatto negli ultimi quindici anni, e se è davvero un addio, come pare, è un addio che ci lascia l’amaro in bocca pensando a quanto ancora questa band potrebbe dare. Questi sono gli Scorpions al loro meglio, quelli di ‘Love at first sting’ o ‘Savage amusement’, perfettamente bilanciati tra aggressività e melodia, asciutti e lineari, gli avvicendamenti nella sezione ritmica non hanno cambiato di una virgola il loro sound classico, le chitarre di Rudolf Schenker e Matthias Jabs continuano a tessere trame geometriche con precisione chirurgica e la voce di Klaus Meine è rimasta quasi miracolosamente integra, con il suo stile inconfondibile e quell’accento da crucco che neppure quarantacinque anni di familiarità con l’inglese sono riusciti a domare…

Di ‘Sting in the tail’ bisogna però sottolineare gli apporti esterni al songwriting, mai prima così abbondanti in un disco della band, con Eric Bazilian, Thomas Wikström ed i produttori svedesi Mikael Andersson e Martin Hansen che compongono il grosso del materiale. Poco male, dato che l’abum, come già accennato è eccellente e privo di qualsivoglia sbavatura e potrebbe essere usato come manuale da chi vuole acculturarsi su quel tema che nel nostro genere viene comunemente definito “anthem”. Gli Scorpions ed i loro collaboratori qui ne danno tutte e sei le declinazioni classiche. Quali sono? Per ordine di scaletta sul disco:

1) l’anthem dal riff secco alla AC/DC (“Raised on Rock”, con quel refrain inconfondibile, heavy e melodico)

2) l’anthem dal riff secco, ma veloce ed heavy (“Sting in the tail”, col suo ritornello un po’ Ratt)

3) l’anthem lento e cadenzato, mosso da un riff stile macigno (“Slave me”)

4) l’anthem dal riffing geometrico, fatto di rock’n’roll metallizzato, con cori e chitarre martellanti (“Rock Zone”)

5) il party anthem, cromatissimo e sfacciato ( “Turn You On”)

6) l’anthem da stadio, con il refrain da scandire in coro (“Let’s Rock”, col suo riff rotolante).

Le altre sei canzoni (sette per chi ha preso l’edizione giapponese) comprendono due scintillanti esempi di class metal teutonico (la galoppante “No Limit” e “Spirit of Rock”), quel genere che gli Scorpions hanno inventato e – pare – soltanto loro e pochissimi altri sono in grado di declinare senza risultare tronfi, e quattro power ballads: “The Good Die Young”, tosta, epica e malinconica; la leggiadra “Lorelei”; “Sly”, dal gran crescendo; e “The Best Is Yet to Come”, che conclude il disco, l’ultima canzone (ma l’ultima per davvero?), che suona proprio come un addio, dato però senza rimpianti o malinconia.

Noi, invece, abbiamo tutte le ragioni di essere malinconici e provare un grande rimpianto per gli Scorpions che se ne vanno in pensione, sopratutto considerando a chi lasciano il testimone…

 

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W.A.S.P.

 

 

  • INSIDE THE ELECTRIC CIRCUS (1986)

Etichetta:Capitol

Ristampa: Snapper, Recall

Reperibilità:in commercio

 

Parlare solo dei dischi dei W.A.S.P. è raccontare appena metà della storia. Perché questa band, tra tutte quelle proiettate sulla ribalta della scena metal losangelena, era la più attenta al concetto di show. “W.A.S.P. è un vaudeville elettrico” dichiarò una volta il suo leader e dominatore unico Blackie Lawless: le canzoni avevano vita propria ma acquistavano un’identità precisa quando Blackie ed i suoi ragazzi le eseguivano e le ambientavano su un palcoscenico: come se non bastasse la loro presenza assolutamente inquietante sullo stage, comparivano tra il fumo ed i fuochi artificiali scenografie da film horror di serie B e scenette a base di giochi sadomaso, ragazze seminude incatenate, il tutto condito di lanci di carne cruda e sangue sul pubblico. Naturale ricordare gli spettacoli analoghi offerti da Alice Cooper. Ma Alice, ispiratore e nume tutelare di Blackie, lavorava su un registro meno trucido, eccessivo e sanguinolento rispetto a quello scelto dal suo figlioccio. Sì, proprio “scelto”: in quegli show, nell’immagine della band non c’era assolutamente nulla di casuale. Era tutto calcolato con cinica lucidità, anche (sopratutto) l’immagine da maniaco che Blackie dava di sé. Forse come nessun altro, Blackie Lawless aveva compreso cosa gli anni 80 chiedevano all’industria dello spettacolo: basta con i toni dimessi, il grigiore. Il punk aveva dato la scossa, ma la sua anarchia, la tendenza autodistruttiva non gli consentivano di sviluppare alcunché, solo di estinguersi e risorgere periodicamente, girando in tondo come un serpente che si morde la coda. Blackie aveva saputo indovinare i tempi nuovi un pelo prima della concorrenza, e offrire al pubblico ciò che il pubblico chiedeva: lo shock sensorio, trasgressivo, violento, catartico. Naturalmente, puntare in questa maniera così violenta sull’immagine finì per danneggiare la musica. Perché i W.A.S.P. non erano mestieranti rozzi o arruffoni, Blackie, oltre che un eccellente songwriter, si dimostrò anche un ottimo strumentista, capace di passare con disinvoltura dal ruolo di bassista a quello di chitarrista ritmico, ma quanti se ne accorsero, travolti da quella sua voce impossibile, nello stesso tempo acuta e gelatinosa, e da scenografie da mattatoio? Nonostante la pochezza della belva Chris Holmes come lead guitar (i suoi assoli si sono sempre sviluppati lungo elementari sequenze di scale), c’era sostanza nella musica dei W.A.S.P., e integrarla in quegli show truculenti in un certo senso non le rendeva giustizia, avrebbe potuto camminare con le proprie gambe, ma Blackie non glielo permise, almeno al principio, perché, naturalmente, l’immagine finì per travolgere tutto, e quando Blackie decise di metterla più o meno da parte per qualche tempo, nessuno fu disposto ad ascoltare i W.A.S.P. e basta, e così due album splendidi come ‘The headless children’ e ‘The crimson idol’ vennero ignorati da un pubblico che ormai dalla truppa di Blackie si aspettava solo ettolitri di sangue, fruste e donne incatenate: e, insomma, da una band che aveva scelto come monicker un acronimo che si doveva leggere: We Are Sexual Perverts (Noi Siamo Pervertiti Sessuali), cosa potevi o dovevi aspettarti?

Inside the electric circus’ non è, a giudizio di Blackie, il miglior album dei W.A.S.P. : troppo melodico, troppo orientato sul metal californiano. Di sicuro, è il disco più “commerciale” dei W.A.S.P., quello dove si calca meno sull’aspetto maniacale che tanta fortuna aveva portato a Blackie e soci, musica senza emergenze sul piano compositivo e degli arrangiamenti, che punta sempre e comunque sull’intensità dell’interpretazione, in particolare delle tracce vocali che la voce incredibile di Blackie Lawless rende di volta in volta agghiaccianti o trucide, urticanti o semplicemente inquietanti. ‘Inside the electric circus’ propone infine una versione allucinata e ruvida del metal di Los Angeles, perfettamente in linea innanzitutto con quel titolo che evoca la meraviglia fiammeggiante e colorata degli spettacoli circensi corretta però da una cruda luce al neon, e poi – naturalmente – con una cover che vede Blackie dietro le sbarre di una gabbia, inguainato in una tuta tigrata nella miglior tradizione del glam ottantiano. Dopo “The Big Welcome”, intro a tema con il vocione di un imbonitore che magnifica lo spettacolo a cui stiamo per assistere mentre in sottofondo scorre una musica d’organetto nello stesso tempo rassicurante e sinistra, la title track spara subito un anthem fragoroso. Ma anche “I Don’t Need No Doctor” – cover violentata di un successo di Ray Charles – e “King of Sodom and Gomorrah” sono anthem, la versione stravolta che i W.A.S.P. ci danno del party anthem (e non oso immaginare che genere di party potrebbe essere quello che eleggesse queste due canzoni a propria colonna sonora). Il sound metallico della California la band lo rilegge in maniera più che mai raunchy su “9.5. - N.A.S.T.Y.”, “Mantronic” e “The Rock Rolls On”, ripiegando sul più classico heavy americano con “Restless Gypsy” (aperta da un bell’arpeggio, ariosa nonostante la voce di Blackie) e la galoppante “I’m Alive” (dall’andamento quasi epico, roba da headbanging a torcicollo). “Shoot From the Hip” è serrata e incalzante, con un  testo fatto di doppi sensi a dir poco osceni, “Sweet Cheetah” si sviluppa come un anthem metallico nello stesso tempo melodico e selvatico, “Easy Living” è proprio quella degli Uriah Heep, il trattamento che la band le riserva è decisamente più riguardoso di quello a cui era stata sottoposta “I Don’t Need No Doctor” (c’è perfino l’organo Hammond), una cover inferocita ma coinvolgente. Nell’edizione ristampata dalla Snapper in USA (esiste anche una edizione dell’inglese Recall, in abbinamento con ‘The headless children’, venduta a prezzo di singolo CD) vennero aggiunte due bonus tracks, “Flesh and Fire”, molto californiana e scanzonata e “Douche Bag Blues”, un divertente blues acustico, sguaiato e ubriaco, che Blackie annuncia con queste testuali parole (la traduzione, ovviamente, è mia): «Non è il genere di roba che noi facciamo di solito per voi che comprate questi dischi: ecco quello che succede quando si consumano quantità esagerate di droghe e alcool…».  E noi che pensavamo i Mötley Crüe fossero degli sfacciati…

I W.A.S.P. sono sempre sulla breccia, l’ultimo album, l’ottimo ‘Babylon’, è uscito l’anno passato per la Demolition, tra i tanti survivors dei Big 80s loro continuano a distinguersi per vivacità, e anche se Blackie ha giurato di non suonare mai più dal vivo la storica “Animal (fuck like a beast)” perché non va d’accordo con la fede religiosa che dice di aver ritrovato, la sua voce è più esagerata che mai e gli show sempre truci e violenti, e forse questa storia di rinunciare ad “Animal…” è solo l’ennesimo coup de théâtre di quell’imbonitore che nell’intro di ‘Inside…’ sta cercando con modi accattivanti e sornioni di convincerci ad entrare nel suo circo elettrico…

 

AORARCHIVIA

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VALENTINE

 

 

  • VALENTINE (1990)

Etichetta:Giant Reperibilità:scarsa

 

Spero tanto che non abbiate sentito parlare dei Valentine solo perché sono stati la prima band di Hugo, l’uomo che è stato scartato dai Journey come cantante perché aveva una voce troppo simile a quella di Steve Perry… O perché sono stati la prima incarnazione degli Open Skyz. I Valentine stavano un palmo sopra tutto quello che Hugo ha fatto poi, e risultavano (a me, almeno) molto più convincenti degli Open Skyz.

Stranamente, i Valentine erano una band della costa est degli USA, avevano come base operativa New York. Stranamente, perché la loro proposta musicale era una sorta di apoteosi dell’hard melodico californiano, del tipico sound alla Bon Jovi della est coast non aveva proprio nulla. Band dalla vita molto tormentata, una di quelle di cui si è parlato, chiacchierato, che hanno inciso tanto ma pubblicato e suonato pochissimo, sopratutto a causa di frenetici cambi di label. Vennero inizialmente scritturati dalla Columbia, che però non sembrava tanto ansiosa di fargli registrare qualcosa, al punto che dopo mesi di attesa inutile ruppero il contratto con la CBS e vennero assunti dalla Giant (tramite lo stesso promoter, anche lui transfuga dalla Columbia). Arrivò il primo album omonimo nel 1990, molto ben accolto dalla critica (anche dal solitamente acidissimo Kerrang), ma l’attività live fu ridotta a qualche esibizione nei club e ad uno show al Fondation Forum di Los Angeles, il convegno annuale dell’industria discografica dell’hard rock: un concerto, dunque, riservato ai soli addetti ai lavori. Venne registrato un secondo album per la Giant (mai uscito), la band contribuì poi con una canzone alla colonna sonora del film “Non dite a mamma che la babysitter è morta”, lasciò la Giant (forse perché il nuovo album non era stato pubblicato?) per passare alla RCA. Entrarono in studio con Richie Zito per incidere il terzo album ma la separazione dal batterista Neil Christopher portò al cambio di monicker, così che questo disco divenne il primo degli Open Skyz.

Valentine’ spiccava per il perfetto equilibrio tra le componenti del sound (chitarre taglienti, la bella voce di Hugo, cori sempre ottimamente orchestrati, tastiere ben presenti e significative), e la produzione impeccabile di Neil Kernon: l’iniziale “Runnin’ on Luck Again”, col suo riff martellante, smaltata in eguale misura di suggestioni provenienti dalle costellazioni Dokken / Malice / Autograph, catapultava senza incertezze l’ascoltatore fra le luci del Sunset Strip, mentre la successiva “No Way” è un delizioso esercizio di sound Autograph, metal da spiaggia di strepitosa caratura. La band di Steve Plunkett veniva presa a modello anche su “Where Are You Now”, con il plus di un refrain molto Journey e nel sensuale mid tempo “Naughty Girl” (qualche ombra Keel?). “Tears in the Night” era una ballad dal tessuto molto Foreigner ma con un refrain dalla solennità vagamente teutonica, “Too Much is Never Enough” svariava tra i Ratt più raffinati (epoca ‘Detonator’) e gli Steelheart, mentre “We Run” si configurava come un class metal notturno, melodico, avvincente. “Someday” erano i Journey innestati su un robusto telaio Van Halen era Roth (nella sua declinazione più pop, quella di “Jump”), mentre la band di Steve Perry, in una versione più elettrica e dinamica e con un refrain un po’ Toto, occhieggiava nuovamente su “Once in a Lifetime” e sulle due big ballads: l’elettroacustica “Never Said It Was Gonna Be Easy”, e “You’ll Always Have Me”, condotta dal pianoforte lungo un crescendo splendente che deve qualcosa anche agli Heart.

Nel 2008, inaspettatamente, il monicker ricomparve per l’album ‘Soul salvation’, una release privata che vedeva all’opera il nuovo batterista Mike Morales, episodio destinato a restare tale, dato che nel 2009 Hugo salutava i compagni, lasciando la band ad un futuro quanto mai incerto.

 

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NEVERLAND

 

 

  • NEVERLAND (1990)

Etichetta:Interscope Reperibilità:scarsa

 

Ecco un’altra band su cui i discografici puntavano molto, e con ragione, che il grunge ha ammazzato. Gli venne data la chance di partecipare con una canzone alla colonna sonora nel film del 1991 “Bill & Ted’s Bogus Journey” ma per il loro primo album, uscito in quello stesso anno (anche se portava la data del 1990, fu pubblicato in effetti nei primi mesi del ’91), non ci furono speranze, travolto come innumerevoli altri dalla marea venuta da Seattle. Si sfasciarono in poco tempo, due di loro finirono negli Holy Barbarians di Ian Atsbury, tornarono in formazione molto rimaneggiata nel 1996 per un secondo disco che aveva poco a che spartire con quanto suonato cinque anni prima, poi scomparvero nella nebbia.

Il loro primo, omonimo album è un lavoro dalla bellezza senza mezzi termini accecante, che ci porta negli stessi territori battuti dai Beggars & Thieves dell’esordio e dai Diving For Pearls nel loro primo disco, tramite un sound cresciuto nello stesso humus: il rock mainstream, la New Wave sul versante U2 e Simple Minds, una certa vena bluesy. Ma non si può circoscrivere con sicurezza questa musica così emozionante che risulta nello stesso tempo familiare ed imprevedibile, pilotata oltretutto da una band esordiente e giovanissima con una sicurezza da vecchie volpi del rock. Alla riuscita di ‘Neverland’ pure non doveva essere estraneo il lavoro alla produzione di Tim Palmer, che non a caso aveva lavorato con bands New Wave come The Mission (produsse ‘Carved in sand’), Gene Loves Jezebel, House of Love (per non parlare del Robert Plant di ‘Now and Zen’ e dei Tin Machine dell’altrettanto strepitoso esordio).

Running On” era una precisa dichiarazione d’intenti, con quel suo riffing e le atmosfere a metà strada tra U2 e Diving For Pearls, mentre “Cry All Night” e “Take Me Higher” andavano più in direzione Beggars & Thieves, la prima ruvida e elettroacustica, la seconda più elettrica e ritmata, un po’ soul, con un bel piano boogie nel coro e qualche riverbero Cinderella. “Drinking Again” sono chitarre che pulsano e sfarfallano ed un rullante militaresco che ci portano attraverso un’altra grande scheggia di big sound, nello stesso tempo suadente, sinuosa e lacerante. “10,000 Years” è una ballad crepuscolare e intensa dal crescendo sublime, “Lean On Me” aggiunge sfumature Simple Minds al cocktail: una chitarra palpitante, chiaroscuri, improvvise impennate, i veli dorati dell’Hammond, nello stesso tempo dinamica, soul e funk. “Mama Said” è semplicemente una grande canzone, pure fatta di chiaroscuri teneri e insinuanti che scivolano su un tappeto d’archi, spezzata da un assolo struggente, con uno strepitoso refrain di rhythm and blues mutante. “My Opinion” è root e bluesy alla manieri dei Tangier era ‘Stranded’, mentre “Time to Let Go” è fatta di luci e ombre, chitarre acustiche ed elettriche che si intrecciano e fondono, un tappeto da cui sboccia un refrain che è pura magia. La band mostra tutta l’ampiezza del proprio spettro espressivo componendo un voodoo blues dalla raffinatezza strepitosa con “Talking to You”, in cui va ad incunearsi un refrain ritmato da una chitarra guerriera ed un assolo tutto wah wah, notturno, carezzevole e minaccioso, e concludendo il disco con “For the Love”, esercizio tutt’altro che accademico di hard rock zeppeliniano sull’asse voce/riff, adorna di preziosi innesti funky, un coro quasi glam ed un assolo lungo e splendidamente variegato.

Un’altra lost gem, dunque? Si, ma venduta generalmente a prezzo vile su eBay e Amazon (quattro, cinque dollari), e non chiedetemi perché. L’importante è che ‘Neverland’ è reperibile abbastanza facilmente ed a basso costo. Dunque, non avete scuse per non mettervi a cercare questo disco fantastico…