I Night Ranger sono un’altra vittima del 1987, una di quelle band che non riuscirono a resistere alla grande onda scatenata dalla triade Whitesnake / Bon Jovi / Def Leppard che mise a soqquadro in quell’anno fatidico le charts americane. Avevano raggranellato fino a quel momento due dischi di platino ed uno d’oro, stazionando con puntualità nei Top 30 di Billboard con tutti gli album pubblicati tra il 1983 ed il 1987 (‘Midnight Madness’, ‘Seven Wishes’ e ‘Big Life’), ma ‘Man in motion’ non ripetè le scalate che i suoi predecessori avevano fatto ai quartieri alti della classifica, finendo con il fiato corto ad un modesto numero 81. Prodotto da Keith Olsen e Brian Foraker, il disco non aveva in sé nulla che non funzionasse, tutt’altro. Chi considerava il suono della band troppo spostato sull’AOR poppeggiante e key oriented non poteva che gradire il generale irrobustimento del telaio, le trame chitarristiche arroventate, l’aggressività più metallica e al passo con i tempi. Naturalmente – e per converso – si può vedere proprio nella scelta della band di buttarsi nella metallurgia pesante il motivo del voltafaccia di tanti fans, che non trovavano più molto di personale in un sound oggettivamente inflazionato. Resta il fatto che ‘Man in motion’ non sbanda nel songwriting, e giustifica finalmente la presenza di due chitarristi in un gruppo che fino ad allora aveva fatto delle tastiere il suo punto di forza (ma il cambio di direzione non avvenne senza contraccolpi, dato che il key player Alan Fitzgerald, vistosi messo in un angolo, lasciò i colleghi a metà delle registrazioni: sbattendo la porta, suppongo). La title track apre l’album chiarendo subito quali sono i nuovi punti di riferimento della band, con un fraseggio geometrico di chitarre e l’andamento anthemico, secco e leppardeggiante, completando il tutto con due lunghi assoli metallici. “Reason to be” parte con un incantevole intreccio elettroacustico aumentando gradualmente il voltaggio ma senza intaccare il grande spettro melodico del refrain. L’AOR dei vecchi tempi torna in “Don’t start thinkin’”, con le tastiere ed un approccio più melodico, ma “Love shot me down” riporta immediatamente sulla nuova rotta metallica mentre “Restless kind” è una big ballad nelle migliori tradizioni della band. “Half way to the sun” anticipa quanto Jack Blades farà di lì a poco con i Damn Yankees: basso pulsante, riffone secco di chitarra ma un andamento lento e sinuoso con un ritornello ancora reminiscente dei Def Leppard, assoli heavy metal ed un bridge d’atmosfera: super. “Here she comes again” fa molto Loverboy, flessuosa, procede con un passo felpato ma sempre decisamente elettrico, con un refrain ultramelodico ed un assolo lento e pesante. “Right on you” ha un riffeggiare martellante alla AC/DC appena alleggerito da un fantasma di keys, “Kiss me where it hurts” è un bel rock’n’roll metallizzato, “I did it for love” una ballad robusta senza essere veramente power, un po’ Journey un po’ Loverboy e chiude “Woman in love”, quasi una summa di passato e presente, tra parti melodiche e d’atmosfera ed altre più metalliche su cui si stampa un refrain che fa tanto primi Ratt. L’insuccesso di ‘Man in motion’ viene imputato più alla MCA che alle nuove scelte della band in fatto di sound, si opina che la label non azzeccò la promozione giusta, scegliendo di puntare per i singoli sulle due ballads dell’album, ma i Night Ranger avevano già un loro pubblico che avrebbe dovuto supportarli indipendentemente dalle strategie poco accorte della label. Purtroppo per loro, quel pubblico, almeno per una buona parte, preferì investire i suoi soldi su altri dischi e lasciare ‘Man in motion’ a far bella mostra di sé negli scaffali dei negozi. La delusione fu tanto cocente da minare la stabilità della band e spaccarla, con Jack Blades che andò a cercare fortuna (trovandola) nei Damn Yankees (il primo album fu sei volte disco di platino), mentre Jeff Watson decise di intraprendere la carriera di solista. Un vero e proprio scioglimento non venne mai ufficializzato, ma la band rimase in naftalina fino al 1995, quando arrivò ‘Feeding off the mojo’, troppo tardi per contare qualcosa in un panorama musicale ormai mutato, e la reunion successiva con Jack Blades, Jeff Watson e Alan Fitzgerald (gli ultimi due di nuovo fuori dalla band dopo qualche tempo) ha prodotto dischi interessanti ma relegati ai margini di un mercato discografico che ormai riserva all’AOR solo le briciole.
Gli Winger, per me, erano solo un bel ricordo, fino a questo disco. Dopo ‘Pull’ non mi ero più curato di questa band, né ero stato tentato dall’oscuro ‘IV’. Poi sono venuti gli Whitesnake, quel disco fenomenale che è stato ‘Good to be bad’, e la mia convinzione che Reb Beach avesse giocato in quel lavoro un ruolo molto più importante di quanto potesse apparire a prima vista. È per verificare questa idea che sono andato a prendere l’ultimo Winger. Non sapevo davvero cosa aspettarmi e mi sono ritrovato tra le mani un disco notevole, una band rigenerata che ha saputo ridisegnare il proprio sound con lucidità e intelligenza. Naturalmente, avrei preferito ascoltare materiale molto più in linea con i primi due dischi, ma si deve dare atto agli Winger di aver assemblato un mosaico sonoro affascinante e abbastanza originale che, ripeto, ne ridefinisce largamente i contorni ma mantiene quel trademark che permette di qualificarlo senza equivoci come parto di una band che era tra le poche a poter vantare nei Big 80s un’identità netta ed un approccio originale alla materia. Miglior apertura per ‘Karma’ di “Deal with the devil” non si poteva trovarla: anthemica, roboante, con un riffing secco ed agile nella stessa misura, le classiche trame della band perfettamente trapiantate nel nuovo millennio. Sulla stessa falsariga procede “Stone cold killer”, più cupa, heavy e martellante ma con preziose rifiniture melodiche. “Big world away” è aperta e condotta da un riff ancora più pesante, ritmata, con Kip che quasi rappa nelle strofe aprendosi però su una suggestiva melodia nel ritornello. “Come a little closer” ha un riffeggiare che fa tanto vecchio thrash, minacciosa, con tanto di voce (appena) filtrata, mentre su “Pull me under” ad un riffone imponente si contrappone una melodia addirittura leggiadra nel coro. Sul telaio zeppeliniano di “Supernova” spuntano ricami Muse, sopratutto nel ritornello, mentre “Always with me” è una power ballad semplicemente favolosa pur con le sue sfumature moderne. “Feeding frenzy” poggia su un riff strepitoso, che si impenna furibondo e precipita di schianto, un class metal massiccio con una classica apertura melodica nel refrain (refrain che è ricalcato in parte, però, da quello della "Once upon a time" degli Shadow King). “After all this time” è uno slow blues con un coro smaltato di soul su cui ha messo mano anche il secondo chitarrista John Roth, che si incarica anche dell’assolo: accademico ma piacevole, comunque c’entra ben poco con tutto il resto. Il finale è addirittura glorioso con “Witness”, una immensa power ballad: pacata nelle strofe, quasi solenne nel ritornello, suggestiva, di grande atmosfera, con uno stupendo, lacerante assolo nel finale che – pur con qualche reminiscenza della “In the hands of time” degli Hardline – ci restituisce i vecchi Winger, con quel turbinare della chitarra, le keys irrequiete, le melodie mai banali. La chiusura è però affidata ad un brano strumentale, “First ending” scritto da Rod Morgenstein e sicuramente più adatto ai suoi Dixie Dreggs, dato che si tratta di un paio di minuti di pianoforte e chitarra acustica molto barocchi che però virano con una fluidità stupefacente in un finale rhythm and blues: come per “After all this time”, gradevole ma non molto in tema. Una band ritrovata, gli Winger, che mi auguro continuino ad illuminare un genere come il nostro che ha un disperato bisogno di act intelligenti, dotati ed originali come loro.
La scarsissima simpatia che il webmaster nutre per la scena AOR germanica è ormai – ritengo – un fatto arcinoto per coloro che frequentano d’abitudine questo sito. Non c’è niente di ideologico o istintivo dietro questa mancanza di stima, ma solo la prova dell’ascolto. Il modo in cui i tedeschi fanno l’hard melodico mi ispira pochissimo. E non parliamo del modo in cui cantano… Tutti (con l’eccezione di Lenny Wolf, pare) sembra siano impegnati in un privato, personalissimo contest per imitatori di Klaus Meine, e ben pochi di loro dispongono del volume e delle tonalità indispensabili per cimentarsi in una gara del genere, per non parlare del fatto che Klaus è il cantante di una band heavy metal, e l’importazione del suo stile in un contesto più “leggero” produce risultati solitamente infelici. Tra marcette tirolesi, canti goliardici da intonare tra un sorso di birra e l’altro durante l’Oktoberfest, tronfie volgarizzazioni wagneriane, epicità da osteria o da cartone animato, c’è ben poco da salvare in una scena che si fa interessante quasi solo quando si mette (molto saggiamente) a seguire stili non autoctoni. Naturalmente, ci si può chiedere per quale motivo si dovrebbe perdere tempo ad ascoltare i tedeschi che imitano gli americani quando si possono ascoltare direttamente gli americani… Io, un motivo veramente buono per farlo non l’ho mai trovato, ma non posso negare che in certi casi le band tedesche hanno offerto prove convincenti, quantomeno a livello di songwriting e interpretazione: i Laos ne sono un ottimo esempio. Questo secondo album di Zeno Roth (fratello minore di Uli John Roth, che transitò brevemente negli Scorpions prima di consacrarsi alla memoria di Jimi Hendrix, buttandosi a capofitto nella psichedelia) è una delle cose migliori venute fuori dalla scena germanica, grazie anche alle performances vocali di Michael Flexig, un cantante che evidentemente non ambiva a classificarsi ai primi posti nel contest di cui sopra (non sempre, almeno), che andavano a completare un affresco sonoro di grande efficacia su cui spiccava – anche in grazia di una produzione assolutamente perfetta – il notevole lavoro alle tastiere dei vari key player. Non che qui dentro tutto sia oro: “Is It Love” e “Together”, pur con una trama strumentale piacevole, sono impostate su quelle linee vocali tipiche dell’hard melodico teutonico, con Flexig che canta come se stesse cercando di imitare nello stesso tempo e con pari impegno un tenore da operetta viennese e Claudio Villa buonanima (ma come è possibile che a qualcuno che non sia nato a Stoccarda o a Colonia piaccia sinceramente questa roba?). Molto più stimolanti risultano le altre canzoni, che svariano con grande eleganza fra i generi. “Heat of Emotion”, “Surviving the Night” e “Out in the Night” sono splendidi esempi di class metal, la prima basata un riff Bonjoviano con refrain alla Dokken, le altre due più californiane, con un riffing stratosferico e refrain potenti e anthemici ispirati ai migliori Scorpions. Con quale facilità la band passa poi all’AOR bluesy, fascinoso e raffinato, intitolato “In the Dark”, col suo bell’intreccio di acustiche, elettriche e pianoforte, mentre gli FM fanno capolino su “Let There Be Heaven”, soul ed elettrica, dominata da un organo Hammond caldissimo. “Man on the Run” (scritta da Zeno per i Victory, che la incisero sul loro 'You Bought It - You Name It' del 1992) è addirittura superlativa: drammatica, intensa, una grande atmosfera western ancora molto FM, ma con un arrangiamento che riesce ad essere nello stesso tempo rarefatto e sfarzoso. Si cambia ancora registro con “You Got Me Down”, che suona come la fusione perfetta di Autograph, Kix e Black N’ Blue, un metal da spiaggia davvero efficace. Gli FM sono il punto di riferimento, sopratutto negli arrangiamenti dei cori, anche per “Ticket to Nowhere”, swing e scanzonata. Se “In Love With an Angel” è una ballad convenzionale ma gradevole, con un imponente spiegamento di keys che non scade però mai nel pomp, lo strumentale “Crystal Dreams” è una vera apoteosi, maestoso e solenne senza tracimare nel tronfio (o, male comune a tanto melodic rock germanico, nel pacchiano), fatto di un tappeto epico e malinconico di tastiere su cui ricama la chitarra di Zeno. Non ho seguito la successiva carriera di Zeno Roth, (altri tre dischi, l’ultimo uscito nel 2008) le mie incursioni nella terra dei wurstel sono sempre state limitate e circoscritte, ma questa che mi ha portato a ‘Zenology’ si è rivelata tutt’altro che spiacevole: consigliato a tutti, senza riserve.
È uscito il nuovo album dei Ratt. Ed io sono qui a scriverne. Ma per chi? Il problema, diciamo così, è che questo disco non potete apprezzarlo davvero se non avete più di quarant’anni, come il vostro webmaster. Può piacervi, entusiasmarvi, ma vi mancherà qualcosa per poterlo godere tutto se siete nati, diciamo, dopo il 1975 o giù di lì. Nel fetido ventunesimo secolo, i Ratt sono sempre tra noi, con un nuovo disco che, questa è la paradossale novità, non propone niente di nuovo: è composto e suonato come quelli degli anni ’80. Contrariamente ai Bon Jovi, che tentano con una musica solo lontana parente di quella che li innalzò agli altari della gloria di accattivarsi le simpatie di un pubblico troppo giovane per averli conosciuti negli anni d’oro, i Ratt, dopo gli orrori di ‘Collage’ e il tentativo di allargare un po’ il discorso con ‘Ratt’, tornano al punto di partenza con ‘Infestation’. Non è una resa, né una ruffianata, solo la presa d’atto di una situazione evidente per chiunque non abbia gli occhi e le orecchie fasciati di mortadella (come Jon Bon Jovi e parecchi altri), ossia: le bands degli anni ’80 vengono seguite da chi ama la musica degli anni ’80, spesso da quegli stessi che nei Big 80s compravano i loro dischi. I Ratt lo hanno capito. Hanno compreso che i ventenni con l’iPod sempre in tasca non erano il loro mercato, che non avevano speranza di catturare l’attenzione e le simpatie dei ragazzini che si affollano ai concerti dei Linkin Park o degli Shinedown, che non aveva senso voltare le spalle al loro pubblico – per quanto striminzito possa essere – e mettersi a scimmiottare i generi alla moda. Eppure, secondo me, in tutto questo non c’è davvero molto di strategico e calcolato. Loro sono tornati per fare quello che hanno sempre saputo fare meglio degli altri, con il giusto orgoglio ed una facilità che la concorrenza può solo invidiargli. Ma c’è ancora altro, ed è proprio questo “altro” che rende ‘Infestation’ tanto speciale per noi ultraquarantenni. I Ratt non sono una band qualunque, ma il metal californiano in carne e sangue. Assieme ai Motley Crue hanno davvero rappresentato un’epoca, l’hanno dominata, vi hanno apposto sopra il loro marchio. La Los Angeles dei Big 80s era i Ratt, quella terra dei sogni fatta di sole e metallo cromato, divertimento e sfacciataggine, occasioni ed ottimismo, belle donne e night club scintillanti. Rappresentavano una way of life che non ha avuto uguali, non solo per i loro conterranei, ma anche – sopratutto, forse – per chi li seguiva da migliaia e migliaia di chilometri di distanza. Naturalmente sapevamo che quella California era nel senso letterale del termine una terra dei sogni, ma aveva poi importanza? Come scrisse Paul Suter: “lo sappiamo che la vita fa schifo: voi fateci divertire, cazzo!”. Nessuno ha mai esposto meglio il concetto, mi pare. E nessuno lo ha tradotto in musica meglio dei Ratt, probabilmente per un motivo semplicissimo: ci credevano anche loro. È adeguato, assolutamente adeguato che questo disco sia dedicato affettuosamente dalla band a Robbin Crosby, morto di OD nel 2002 dopo una vita di stravizi che gli aveva portato tossicodipendenza e AIDS. Non era certo uno stinco di santo, Robbin, ma i santi li veneri, magari li ammiri a rispettosa distanza, non puoi certo divertirti assieme a loro, e Robbin Crosby ci ha portato divertimento a camionate con la sua chitarra e le sue canzoni e allora, al diavolo tutto il resto e, sì, ci mancherai Robbin, questo disco è per te, e per noi che nei Big 80s quegli stravizi non potevano permetterceli ma, magari deprecandoli in pubblico, te li invidiavamo in privato. Sì, i Ratt ci hanno fatto divertire come nessun altro, e lo hanno fatto con quella leggerezza, quella malizia che è in genere mancata ai Motley Crue, sempre troppo impegnati ad alimentare la loro immagine delinquenziale per abbandonarsi con serenità ad un gioco che Nikki e compagni prendevano troppo sul serio. Vince Neil non ha mai avuto una tasca segreta nella patta dei suoi spandex da riempire di ovatta come Stephen Percy, ed i Ratt non si sono mai sognati di cantare di serial killer, spacciatori e cose del genere. La loro musica non era fatta davvero per provocare, ma solo per divertire, mandare su di giri, ballare. Perché nei Big 80s, questo era l’imperativo: fun, fun, fun. E chi non li ha vissuti, quegli anni magici, non può comprendere davvero l’atmosfera spensierata e allegra che tutti noi fans dell’hard melodico condividevamo in quel periodo, passando serenamente tra torme di metallari ingrugnati con i dischi degli Iron Maiden, degli Slayer o dei Metallica sotto il braccio, sempre adorni di borchie e magliette con loghi truculenti. Ma i metallari dallo sguardo minaccioso sono sempre qui, mentre i fans dell’hard melodico (chic rockers, come ci piaceva chiamarci una volta) sono ormai così pochi da passare inosservati, e per la gran parte, temo, sono sempre gli stessi di venticinque anni fa. Perché se l’heavy metal, in tutte le sue diramazioni, si è del tutto slegato da qualsiasi periodo storico e non fa capo che a se stesso, l’hard melodico resta un prodotto squisitamente legato ai Big 80s, a quel clima, a quell’epoca dorata e sopratutto alla scena nordamericana (le bands non americane potevano – possono – magari proporre buoni esercizi di quel particolare sound, ma troppo spesso la loro musica è vuota, senz’anima: troppo lontane dal centro di gravità, distanti dai luoghi di nascita di quei generi, da quel clima: la California potevano solo sognarla, e niente riusciva a cancellare il fatto che vivessero a Manchester, Colonia o Malmoe). E allora, diciamola: i Ratt sono tornati, ma non per tutti. Sono di nuovo qui sopratutto per quelli come il vostro webmaster, i reduci, quelli che con la testa dai Big 80s non sono mai veramente usciti. È un discorso, il loro, che solo noi possiamo capire fino in fondo, perché parliamo la stessa lingua. Non si tratta di una rimpatriata e neppure di una scusa per abbandonarsi a patetiche caterve di “ti ricordi?”. Sono cambiate tante di quelle cose dai tempi di ‘Out of cellar’ che sembra siano passati non venticinque anni ma venticinque secoli: e non parlo solo di vestiti e pettinature, naturalmente. Che cosa è rimasto di quel mondo? Macerie: e nessuna voglia di ricostruirle. Gli anni sessanta continuano ad essere divinizzati, i settanta sono sempre di gran moda, ma dei Big 80s persiste l’immagine negativa, la condanna, come se di quell’epoca non ci fosse assolutamente nulla da salvare e tramandare ai posteri. E se fosse vero? No, non lo è. Perché, se fosse vero, non saremmo qui a parlare di questo disco, di quanto ascoltarlo ci faccia star bene. Di quanto le sue vibrazioni siano positive. Perché gli anni ’80 possono anche essere stati un pozzo di iniquità, come tanti continuano a ripetere, ma sono stati innanzitutto un periodo storico in cui gli stati d’animo positivi prevalevano – di poco, magari – su quelli negativi. Era la qualità di questi stati d’animo a indisporre quanti oggi guardano a quel decennio come ad un buco nero nella storia della cultura occidentale. Tutti gli orrori dei ’90 e degli anni zero appena conclusi appaiono salutari e “sani” nella visione di questi censori, sia in generale che nell’ambito ristretto della musica rock. Secondo questa prospettiva, Bon Jovi non era un rocker “sano”, mentre Kurt Cobain lo era in maniera assoluta… Questa modo di considerare la musica rock a me pare indecente e malsano, e non a me soltanto, ma anche a Stephen Percy e compagni, che con ‘Infestation’ sono tornati per ricordarci anche che non solo oggi il vero rock alternativo è l’hard melodico, in tutte le sue sfaccettature, ma lo è sempre stato, almeno “alternativo” a quanto la critica mainstream ritiene il rock debba essere: disturbante, alienante e irredimibilmente “contro”. Un “contro”, però, non così astratto come quelle virgolette potrebbero suggerire, ma ideologicamente (e commercialmente!) ben definito, accuratamente incasellato e diretto verso obiettivi precisi. Ma io non vedo niente di più “contro” dell’allegra strafottenza del metal californiano, quella strafottenza che i Ratt hanno tradotto in musica meglio di chiunque altro. I signori che esercitano le loro pretese di superiorità intellettuale sui supplementi dei quotidiani e sulle riviste di tendenza possono continuare a farsi venire mal di testa con i Sonic Youth, i Nirvana o i Radiohead, io continuerò a ballare con i Ratt, una band oggi doppiamente “contro”: per quello che è sempre stata e per quello che rappresenta attualmente, in questo nuovo millennio in cui l’approssimazione e la rozzezza sono tornate a dominare la scena musicale, in cui il puro e semplice rumore è tornato a coprire un vuoto di idee, di capacità e di emozioni che probabilmente rappresenta meglio di ogni altra cosa lo spirito dei nostri sciagurati tempi (musicali e non). Conclusa la filippica introduttiva, eccoci a ‘Infestation’. Che è un gran bel disco, ma poteva essere ancora più grande e bello se solo i Ratt si fossero fatti guidare da un produttore dei bei tempi andati invece di ricorrere a Michael Baskette, che gli ha dato un suono – a mio parere – una punta troppo aspro, almeno in qualche frangente. Non si può negare, oltretutto, che la band più di una volta sia ricorsa al comodo espediente dell’autocitazione, senza comunque arrivare al punto di coverizzarsi e con un risultato finale sempre stratosferico, fin dall’iniziale “Eat Me Up Alive”, che avrà pure quasi lo stesso riffing di “You’re in love” ma esplode con un refrain semplicemente fa-vo-lo-so, e la stessa ricetta viene riproposta su “Lost Weekend” (che inizia con un “Are you ready for big fun?” che alle mie orecchie suona molto più provocatorio di qualunque urlo di battaglia punkalternativo…), un altro anthem come solo i Ratt sanno e possono scrivere. Se “Best of Me” possiamo considerarla la nuova “Round And Round” (corretta con una punta di Van Halen d’annata), “As Good As It Gets” è la nuova “Back For More” con il plus di una leggera vena bluesy. Il sound di ‘Out of cellar’ e ‘Invasion of your privacy’ continua ad essere omaggiato tramite “A Little Too Much”, un’altra formidabile scheggia glam metal arricchita da un notevole assolo, mentre il riffeggiare più massiccio e cadenzato di “Look Out Below” ci porta invece ai tempi di ‘Detonator’. “Last Call” è veloce ed anthemica, mentre nelle sciabolate di chitarra di “Garden of Eden” si sentono echi zeppeliniani che vanno a infrangersi sul ritornello glam. “Take a Big Bite” è rapida, serrata, incalzante, con un assolo heavy metal; “Take Me Home” è l’unico omaggio a quel disco comunque interessante che fu ‘Ratt’, una sorta di power ballad dal refrain cupo, con un fantasma di tastiere che prende consistenza nel bridge dilatandosi in un bello sfondo di organo ed archi per l’assolo. Tastiere che tornano a farsi sentire nella conclusiva “Don't Let Go”, turbinosa e scatenata, con un assolo innescato da una chitarra slide veloce e ringhiosa. Chiudendo il pezzo sui loro primi cinque dischi pubblicato parecchi mesi fa, mi domandavo se il nuovo album arrivava per rinnovare la leggenda, celebrarla o farla a pezzi. Senza alcun dubbio, ‘Infestation’ è una celebrazione, ma consapevole e molto convinta. Stephen e soci non debbono dimostrare più nulla, né a se stessi né agli altri, e la maggior novità di ‘Infestation’ sta proprio nel fatto che non contiene niente di “nuovo”… grazie a Dio. Un ultimo (per ordine, non certo per importanza) dettaglio. Ho comprato il CD su eBay da un grossista americato per l’equivalente di dodici euro, spese postali incluse. Qualcuno è in grado di spiegarmi perché nel nostro paese ‘Infestation’ viene venduto a cifre variabili tra i sedici ed i venti euro? Per chi sostiene il fronte del libero downloading, questi prezzi sono tutto grasso che cola.
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