AORARCHIVIA

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BON JOVI

 

 

  • THE CIRCLE (2009)

Etichetta:SONY Reperibilità:in commercio

 

Ogni volta ci caschiamo. Esce un album dei Bon Jovi e speriamo di avere tra le mani un nuovo ‘Slippery when wet’, un altro ‘New Jersey’, perlomeno una specie di ‘Keep the faith’. E con cosa ci ritroviamo, invece? Insipide raccolte di ballatone strappalacrime e rock melodico pseudomoderno tra cui spunta qua e là qualche gemma che ci riporta per pochi attimi al glorioso passato. Con ‘Lost highway’ avevano sicuramente toccato il fondo, proponendosi in una improbabile versione country music: sarebbe un po’ come se, in casa nostra, Vasco Rossi volesse mettersi a fare concorrenza a Raul Casadei o Lando Fiorini cantando “Romagna mia” o “Roma nun fa la stupida stasera”… Ma Sambora, dopo questo esperimento o ruffianata (come vi pare), prometteva con ‘The circle’ un sano ritorno al rock’n’roll. È avvenuto? Uhm... Questo disco parte benino, fa sperare davvero in un ritorno almeno parziale ad atmosfere ottantiane, ma si affloscia e sgonfia lungo la strada, salvo recuperare qualcosa con un colpo di coda all’ultimissimo istante. Perché poi Jon e compagni proprio non vogliano saperne di rimettersi a macinare hard rock nello stile dei loro tre album migliori (che hanno totalizzato nei soli Stati Uniti 19 dischi di platino), insistendo a battere strade ambigue che non gli hanno portato gran fortuna (tutto quello che hanno inciso dopo quella strepitosa triade, messo assieme, non arriva neppure a sei) resta un mistero molto poco glorioso che non mi ritengo capace di risolvere. Resta il fatto che i Bon Jovi non vogliono rinunciare ad inserirsi in un contesto che non gli appartiene ed in cui i vecchi fans faticano a ritrovarsi, e questo nonostante siano proprio i fans e solo i fans a comprare i loro dischi. Jon e Sambora continuano a sperare di riuscire a riprendersi quel pubblico “generico” che gli aveva fruttato i dodici milioni di copie vendute di ‘Slippery…’ attualizzando (disperatamente?) il proprio sound, ma – questo è il vero problema – senza mordente né convinzione autentica. Così, ‘The circle’ tiene fede al suo nome risolvendosi in un girare a vuoto attorno alla domanda che angustia ormai da parecchi anni la band, ovvero quale ricetta adottare per vedere di nuovo moltiplicarsi i dischi di platino (quando diventano di platino, almeno: l’orrido ‘Bounce’ si era fermato all’oro, ed era già tanto). Stavolta c’hanno provato con il più classico degli espedienti cerchiobottistici, recuperando qualcosa dal passato, arrivando addirittura ad autocitarsi in una canzone, inserendo però il tutto in un insieme largamente modernistico: non per caso sono tornati a farsi produrre da John Shanks, uno che ha lavorato per i Backstreet Boys, Alanis Morissette e Sheryl Crow.

We Weren't Born to Follow” apre bene il disco, Springsteeneggia che è un piacere e il refrain è arioso, addirittura con una coda anthemica. “When We Were Beautiful” ha qualche sfumatura U2 e Coldplay di troppo ma anche una grande atmosfera, tutto molto radio frendly, come dicono gli yankees. “Work for the Working Man” è l’omaggio (o la forzata concessione) ai bei tempi che furono, ha la stessa (ma proprio la stessa) linea di basso di "You give love a bad name" mentre cerca di recuperare  l’atmosfera d’impegno civile del loro più famoso anthem  - "Livin’ on a prayer” - con un testo che renderebbe questa canzone adatta ad essere cantata in coro da quegli operai della FIAT che picchettano gli stabilimenti di Pomigliano D’Arco e Termini Imerese; ma le manca l’energia di una volta: Jon, piuttosto che urlare, sussurra o declama, e resta comunque l’interrogativo sulla piena riuscita di un anthem con un testo del genere, nobile quanto si vuole, ma indiscutibilmente deprimente: “Livin’ on a prayer” trattava lo stesso argomento ma raccontava una storia e cercava di trasmettere comunque un messaggio positivo (Jon che cantava: “we'll make it - I swear”, oppure “Baby it’s okay, someday”), qui c’è solo disperazione, e con l’entusiasmo che dovrebbe trasmettere un anthem, la disperazione non va ovviamente d’accordo. “Superman Tonight” e “Bullet” tornano più decisamente al moderno, la prima una power ballad, la seconda più hardrockeggiante e con un bell’assolo, stessa musica su “Thorn in My Side”, che ha però una grande atmosfera. “Live Before You Die” è una ballatona per archi e pianoforte, ma Sambora le inietta abbastanza elettricità nelle vene da non renderla stucchevole o pomp. “Brokenpromiseland” potremmo considerarla il fondo: non una brutta canzone, ma neppure il genere di roba che ti aspetteresti di trovare (nonostante tutto!) in un disco dei Bon Jovi, con quei cori quasi-stonati in apertura e chiusura. “Love’s the Only Rule” e “Fast Cars” proseguono il discorso con meno ispirazione e ancora più giù scende “Happy Now”, che cerca sempre di innestare le loro trame melodiche su un ordito di rock contemporaneo ma dice veramente poco, sotto la voce di Jon la chitarra sembra non andare da nessuna parte, ma è dal principio del disco che aspettiamo un bel riffone hard rock, uno qualunque e invece continuiamo a sentire Sambora che cazzeggia senza concludere niente. “Learn to Love” è il colpo di coda di cui dicevo prima, un gran crescendo, addirittura epico come nelle migliori tradizioni della band, acustiche, elettriche e tastiere perfettamente dosate, la cosa migliore del disco.

Insomma: il ritorno al rock c’è stato solo nella testa di Sambora, ‘The circle’ si rivela invece un discreto album dei Bon Jovi versione nuovo millennio, con le chitarre tenute a freno, produzione impeccabile (almeno quella!) ed un flavour moderno. Pare che negli States abbia già ottenuto il platino ma è anche stato protagonista di uno scivolone pauroso su Billboard, dal numero 1 al numero 19 nel giro di una sola settimana, la terza peggior uscita dalla  top ten di tutti i tempi nella classifica americana. Significa qualcosa? Secondo me, che i fans e soltanto i fans sono corsi a comprarlo, convinti dalle chiacchiere (perché chiacchiere si sono rivelate) di Sambora, sperando (proprio come il vostro webmaster) in un album nello stile rovente dei Big 80s, ritrovandosi con la solita raccolta di canzoni alla temperatura di un bagnomaria fra le mani. E, immagino, una parte consistente di quei fans stanno pensando adesso: questa è l’ultima volta che mi fregate… almeno fino al prossimo disco.

 

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THE FIRM

 

 

  • THE FIRM (1985)

  • MEAN BUSINESS (1986)

 

Etichetta:Atlantic Reperibilità:buona

 

Se mai una band è apparsa enigmatica, almeno ai critici, questa band sono stati i Firm. Pareva tutto fumo e nebbia, fin da quel monicker così generico e vago: La Ditta. Vennero fuori senza clamori e svanirono all’improvviso, ritraendosi in un vuoto fatto di indifferenza ed incomprensione. Affermare che non vennero capiti probabilmente è sbagliato. Non erano sicuramente un esempio eclatante di limpidezza, i Firm, ma neppure un punto interrogativo in musica. La loro storia è riassumibile in poche righe: tutti si aspettavano chissà cosa, ma nessuno era in grado di definire con precisione queste aspettative, e quando la “cosa” prese forma, nessuno trovò in essa quanto sperava o vagheggiava. Così, nessuno li ascoltò veramente, limitandosi a fare confronti e paragoni con quanto i membri di quella band avevano realizzato prima. Bisogna riconoscere che i curriculum dei due soci di maggioranza della ditta autorizzavano aspettative gigantesche: Paul Rodgers e Jimmy Page si alleavano in un nuovo sodalizio e tutti immaginavano… cosa? Bene: qualunque cosa sia stata, non ha trovato riscontro in quanto i due ci dettero negli album della loro band. La delusione fu tale e tanta che i Firm, semplicemente, svanirono. In un certo senso, è come se non ci fossero mai stati: cancellati dall’inconscio collettivo del rock come un brutto ricordo, un evento traumatico, uno shock. O, meno drammaticamente, messi da parte come una cosa inutile. Se lo meritavano? Secondo me, no.

Era troppo facile tracciare per i Firm un identikit sonoro che ne facesse il melange ideale tra i Led Zeppelin ed i Bad Company. Troppo recente la fine delle due band madre per supporre qualcosa del genere e troppo delicato il momento per i due protagonisti. Paul Rodgers veniva dalla tiepida accoglienza che aveva avuto il suo primo album da solista. Jimmy Page stava ancora cercando di superare il trauma per la fine della sua band: per un anno intero non aveva toccato una chitarra, si era riaccostato alla musica componendo la colonna sonora del film “Il giustiziere della notte II”, poi c’era stato quella specie di divertimento fra amici degli Honeydrippers. I Firm furono per lui il ritorno alla dimensione della rock band: ma, quasi sentisse il bisogno di marcare in qualche maniera la distanza tra questa nuova esperienza ed il suo straordinario passato, rinunciò alla beneamata Gibson Les Paul, tornando alla Fender Telecaster che lo aveva accompagnato fino a tutto il primo album dei Led Zeppelin. Pure, non c’era una distanza abissale tra ‘The firm’ e quanto avevamo ascoltato negli ultimi album del dirigibile: si intravedeva una sottile, quasi impercettibile continuità fra ‘In through the out door’ e questo disco che testimonia se non una linea diretta nel sound, quanto meno una volontà da parte di Jimmy e del suo nuovo socio di esplorare quei territori che ‘In through the out door’ aveva fatto intravedere. Ma il nono ed ultimo disco dei Led Zeppelin è stato e resta ancora oggi il loro lavoro meno amato e meno ascoltato. D’accordo, non è il loro album migliore di sempre, ma il punto è che i Led Zeppelin non erano né volevano essere una band come le altre: andare avanti era la loro parola d’ordine, stare sempre un paio di passi oltre rappresentava un imperativo categorico che Zoso, Percy, Bonzo e Jonesy perseguivano con coerenza e, sopratutto, senza paura di perdere fans e consensi. Dopo cinque anni dalla sua fine, però, la band era già stata traslata in una dimensione mitologica che ne condensava l’operato solo con un pugno di canzoni: come dire, che per la gran massa della gente (e dei critici) i Led Zeppelin erano quelli di “Black Dog”, “Whole lotta love”, “Kashmir”, “Stairway to heaven”, non certo quelli di “Carouselambra”, “In the evening”, “Down by the seaside” o “The crunge”. In un certo senso, gli auspici si realizzeranno solo parecchi anni dopo, nel 1993, quando Jimmy Page farà squadra con David Coverdale: ‘Coverdale/Pageera la perfetta fusione Zeppelin / Whitesnake (gli Whitesnake americani, naturalmente), tutto quello che critica e fans potevano desiderare. Ma nel 1985, Jimmy e Paul spiazzarono tutti con qualcosa che non seguiva la rotta prevista ed i risultati a livello di vendite furono sicuramente deprimenti (il primo album raggiunse solo il numero 17 della classifica di Billboard e nel 1986, ‘Mean business’ tocco appena il 22° posto). I tours andarono molto meglio, nonostante i due si rifiutassero di suonare materiale prelevato dai repertori dei Led Zeppelin e dei Bad Company (Paul propose diverse canzoni del suo album solo, ‘Cut loose’; Jimmy suonò alcune cose prelevate dalla colonna sonora di 'Il giustiziere della notte II'), ma fu chiaro per entrambi che l’accoglienza che il nuovo progetto aveva ricevuto era troppo tiepida per insistere. Così, dopo un ultimo tour all’indomani dell’uscita di ‘Mean Business’ (curiosità: come support band c’erano i Virginia Wolf di Jason Bonham), nell’aprile del 1986 i Firm tennero il loro ultimo concerto (a Seattle) e si sciolsero tra l’indifferenza generale.

Da quando innalzarono bandiera bianca sono passati ventiquattro anni e in tutto questo tempo non c’è stato il minimo tentativo di “riabilitarli” o, quanto meno, di ascoltarli senza pregiudizi. I Firm sono sempre l’oggetto misterioso che Jimmy Page e Paul Rodgers offrirono senza successo: indecifrabile, trascurabile, da chiudere in un cassetto e dimenticarlo. Più di una volta ho ribadito che lo scopo di questo sito web non è tanto passare al setaccio i lavori dei nomi più importanti del genere hard rock melodico, quanto segnalare tutti quegli artisti che per una ragione o per l’altra non hanno goduto di una fama commisurata al proprio valore. Mi rendo conto che, consigliando ai miei lettori di investire i loro soldi nei Firm, probabilmente sto per imbarcarmi in un’impresa titanica, tanta è la disistima che circonda questa band. Non cercherò di farli passare come una pietra miliare nella storia del rock: non lo sono. Ma valgono sicuramente un ascolto.

 

* * *

 

Il primo album omonimo esce nel Febbraio del 1985. Accanto a Jimmy e Paul ci sono Chris Slade (Uriah Heep, Manfred Mann's Earth Band) alla batteria e Tony Franklyn al basso (rigorosamente fretless) ed alle tastiere. Quaranta minuti appena di musica, nove canzoni. L’inizio è affidato a “Closer”, fatta di un riff geometrico, interventi di una sezione fiati e sinuosi flash di chitarre, un breve assolo di sax, quasi un rhythm & blues mutante su cui Jimmy spalma un assolo fatto di note lunghe, calde, riverberanti, una scelta in fatto di timbriche che si conferma praticamente lungo tutto l’arco del disco. “Make or break” somiglia alle ultime cose dei Bad Company con il plus della chitarra slide; assolo lento e sporco, crescendo elettrico e martellante. “Someone to love” è ritmata, il fraseggio della chitarra è semplice ma affascinante, molto anni ’70 ma con i suoni e la produzione degli anni ’80, cavalcato con impetuosità dalla voce di Paul: anche qui abbondanza di slide, pure nell’assolo. “Together” è una ballad elettroacustica priva di mordente, sopratutto perché la melodia è blanda, appena accennata, si apprezza però il lavoro alla chitarra di Jimmy, con le solite note lunghe, il suono dilatato ed effettato della Telecaster. “Radioactive” (l’unico singolo ad ottenere un certo successo), ha lo stesso flavour country & western di certe cose dei Bad Company, ma con un chitarrismo più vivace ed a tratti davvero non convenzionale. “You’ve Lost That Lovin’ Feeling” è l’unica canzone non scritta dalla ditta, poteva essere una classica soul ballad (ci sono anche cori femminili), ma sotto la voce di Paul, Jimmy stende un tappeto di note a tratti ispido, nervoso, addirittura con qualche suggestione reggae. “Money can’t buy” è notturna, fascinosa e intensa, con un bell’assolo, “Satisfaction guaranteed” si sviluppa come uno slow leggero e solenne nello stesso tempo, con un bellissimo refrain, qualche spruzzo di tastiere, letteralmente ricamato di luce dalla chitarra di Jimmy. In chiusura, “Midnight moonlight”, oltre nove minuti di musica venuti dal passato, dato che questa canzone è largamente basata su un pezzo intitolato “Swan Song” che Jimmy compose, senza mai registrarlo, ai tempi di ‘Physical graffiti’: elettroacustica, un mosaico di luci ed ombre, misteriosa e solare, con una fragorosa parte finale che mi ricorda vagamente “Rock ‘n’ roll”.

The firm’ non è un disco esattamente tutto fuoco & fiamme: in certi momenti, si potrebbe addirittura definirlo “rarefatto”. L’elettricità non manca, ma è modulata in maniera insolita, come diluita. Il chitarrismo di Jimmy Page solo di rado sale di tono e pur rimanendo sempre inconfondibilmente originale non ci regala riff memorabili. Insomma: questo non è un album che si fa largo a spallate. Non grida: sussurra. Quanto sia realmente efficace questo mormorio, dipende ovviamente dai gusti dell’ascoltatore. La sensazione che si può avere al primo impatto è di vaghezza, come se ci fosse qualcosa che manca o non è stato messo a fuoco. Le ultime tre canzoni stanno un palmo sopra le sei che le precedono, ma perfino la più debole, “Together”, non è completamente da buttare via.

Mean business’ venne affrontato dalla ditta con un piglio deciso, almeno nelle dichiarazioni rese alla stampa. Il titolo del disco, in effetti, dovrebbe leggersi: The firm mean business. Ovvero: la ditta significa business, termine che non si traduce compiutamente con la parola “affari”, ma ha un senso più ampio, e comprende tutto il complesso di attività connesse al commercio, ed ha un che di dinamico, quasi di frenetico; oppure, anziché leggerlo letteralmente, si può prenderlo secondo il senso tradizionale dell'inglese parlato e suona: la ditta fa sul serio. Quale business la ditta volesse però sviluppare, dal contenuto disco non risulta poi chiarissimo, considerato che quanto viene fuori non si discosta molto dal materiale registrato su ‘The firm’. “Fortune hunter” è basata su un riff blues mutante e stranito su cui Paul Rodgers spalma una melodia molto Bad Company, “Cadillac” è segnata dal passo lento e grave del basso e da una chitarra lontana e distorta: una sorta di slow blues allucinato e molto anni ’70, tirato troppo per le lunghe. “All the king’s horses” sconfina in territori pomp AOR, è tutta impostata sulle tastiere e Jimmy spunta con la sua chitarra solo nel finale: bella canzone, ma suona come un corpo estraneo nel complesso dell’album. “Live in peace” (già registrata da Paul su ‘Cut loose’) è cupa, solenne: pianoforte, tastiere, sciabolate di chitarra nel refrain e lungo assolo di Jimmy. “Tear down the walls” è un altro riff bluesy, essenziale e diretto, tutto molto Bad Company salvo per le tipiche svisate di chitarra di Jimmy: monotona. ”Dreaming”, invece, è una ballad elettroacustica favolosa: sognante, arcana, misteriosa. Anche “Free to live” spicca, fascinosa e solare, con il suo riff geometrico e avvolgente e la melodia anni ’70. Chiude “Spirit of love”, ariosa, intarsiata di pianoforte, tastiere, backing vocals femminili, con qualcosa dei Journey. In definitiva, ‘Mean business’ eredita per intero i pregi ed i difetti del suo predecessore: la stessa impressione di nebulosità ed indecisione, la discontinuità nel songwriting, una certa mancanza di mordente compensata dalla grande atmosfera.

Jimmy, dopo la chiusura della Ditta, dichiarò alla stampa che non era nei suoi piani né in quelli di Paul che la società dovesse durare più di un paio di dischi. Non so quanto gli si può credere: se una band funziona e vende bene, e non ci sono problemi interni a rompere l’armonia del gruppo, nessuno si ferma per principio. La verità è che i Firm furono un sonoro fiasco, vendettero malissimo e né Jimmy né Paul se la sentirono di insistere a portare avanti un discorso che evidentemente non era stato capito o apprezzato.

In seguito, Jimmy Page pubblicò quello che ad oggi resta il suo unico album solista, un lavoro che riprendeva in qualche modo il discorso del primo album dei Firm, ma ad un volume molto più alto, combinandolo con un blues quintessenziale e fascinoso. Paul sparì nuovamente dalle scene prima di associarsi a Kenney Jones per il progetto AOR The Law. Poi cominciarono le celebrazioni e le reunion per entrambi, che ci hanno dato cose più o meno belle, ma niente di veramente nuovo. Perché i Firm volevano essere sopratutto questo: qualcosa di nuovo. Probabilmente non ci sono riusciti del tutto, ma almeno c’hanno provato: anche solo per questo meritano rispetto e, come minimo, qualche minuto del vostro tempo.

 

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ROBIN BECK

 

 

  • TROUBLE OR NOTHIN' (1989)

  • TROUBLE OR NOTHIN' - 20TH ANN. ED. (2009)

Etichetta:Mercury - HMHR Reperibilità:in commercio

 

Mentre scrivevo e poi rivedevo il pezzo sui Saraya, così denso di confronti non proprio galanti tra la voce di Sandy e quella di parecchie sue colleghe, mi succedeva continuamente di ritrovarmi a ripetere fra me la fatidica frase: sto dimenticando qualcosa. Ma non era un “qualcosa”: era “qualcuno”. Mancava un nome nell’elenco delle principesse: quello di Robin Beck. Ho gia fatto doverosa ammenda, ma la riparazione non sarebbe completa senza una trattazione del materiale cantato da questa signora che ancora oggi, alla rispettabile età di 55 anni, continua a offrirci performances da far arrossire tante più giovani colleghe.

L’ingresso della futura signora Christian nell’arena dell’hard rock avviene piuttosto tardi, nel 1989, quando Robin ha già più di trent’anni, con il superbo ‘Trouble or nothin’’, ma il suo esordio discografico datava dieci anni prima: intitolato ‘Sweet talk’, era un lavoro di pura disco music, avvolto per di più in una copertina di dubbio gusto (Robin che occultava un mezzo topless in una posa puttanescamente pudica). Poco si sa di quello che accadde durante la decade che separa ‘Sweet talk’ da ‘Trouble or nothin’’, salvo che Robin lavorò intensamente nel campo dei jingle pubblicitari, e fu proprio la colonna sonora di uno spot per la Coca Cola a fare la sua fortuna, dato che questa canzone, “First time”, divenne un hit in UK (tre settimane al primo posto nella classifica dei 45 giri più venduti), e convinse i discografici a darle la chance di incidere un altro disco, stavolta di musica rock. E che disco… ‘Trouble or nothin’’ non era solo la rivelazione di una voce strepitosa ma anche un concentrato di grandissimo songwriting, per non parlare della backing band (la sezione ritmica della band di Billy Squier – Bobby Chouinard e Hugh McDonald – , Guy Mann Dude, Steve Lukather e John McCurry alle chitarre, Alan St. Jon e Greg Mangiafico alle tastiere e il resto ve lo risparmio…). Prodotto da Desmond Child, che era autore della maggior parte della canzoni, il disco si apre con “Hide your heart”, (scritta da Desmond con Paul Stanley e Holly Knight) dal refrain strepitoso (questa canzone fu probabilmente la più incisa del 1989, considerato che la ritroviamo su dischi di Kiss, Ace Frehley, Molly Hatchet e Bonnie Rait!). Le più vellutate “Don’t lose any sleep” (la cantò anche John Waite su 'Rover's Return') e “Tears in the rain” – firmate da Diane Warren – portano Robin negli stessi territori battuti dagli Heart e non per caso, considerato che la Warren ha più volte collaborato con le sorelle Wilson (per non parlare dello stile di canto di Robin, ispirato per sua ammissione proprio a quello di Ann Wilson). “If you were a woman and I was a man” sembra una pregevole alternate version della bonjoviana “You give love a bad name”, ma – secondo Robin – è vero il contrario: “If you were a woman and I was a man” venne scritta da Desmond Child prima di “You give love a bad name”, in cui trapiantò melodie e andamento ritmico prelevati da questa canzone che venne incisa per la prima volta proprio da Robin. “Hold Back the Night” è un’altra gloriosa scorreria in territori Heart, “Save up all your tears” un AOR ritmato e robusto dalla grande atmosfera, “In a crazy world like this” (della premiata ditta Kelly/Steinberg con l’ausilio di Neil Geraldo, chitarrista/produttore di Pat Benatar, che la incise su 'Tropico' nel 1984) è tenera senza sentimentalismi, drammatica e intensa (e decisamente superiore alla versione cantata da Pat Benatar, afflitta da un brutto arrangiamento dai toni danzerecci). Consistenti echi Journey risuonano lungo “A heart for you”, “Sleeping with the enemy” è un’altra tranche appassionata ed elettrica (come la precedente, scritta da Robin assieme a Jeff Kent) e conclude la super romantica “First time”.

Robin Beck tornò a farsi sentire nel 1992 con il quasi altrettanto splendido ‘Human instinct’. Non si può parlare ugualmente bene, invece, di ‘Can’t get off’, che nel 1994 ce la riportò in versione pop/soul e lo stesso vale per ‘Wanderland’, il suo ritorno sulla scena dopo dieci anni di assenza. Ma con ‘Do you miss me’ e ‘Livin’ on a dream’ Robin tornò sulle piste dell’hard rock con due lavori apprezzabili, mentre nel 2009 addirittura celebra il ventennale di ‘Trouble or nothin’’ registrando di nuovo il disco con la sua band attuale. Le differenze tra le due versioni sono minime, la voce di Robin non solo non è sfiorita, ma ha guadagnato in tecnica e spessore, potrei sbilanciarmi fino al punto di dire che questa nuova versione è nettamente superiore alla prima per la pura performance vocale, così, anziché vagare disperati su eBay alla ricerca dell’originale potete tranquillamente rivolgervi alla 20th anniversary edition che offre oltretutto il plus di quattro bonus tracks.

 

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SHINING LINE

 

 

  • SHINING LINE (2010)

Etichetta:Avenues Of Allies Music Reperibilità:in commercio

 

Da diversi anni, l’AOR europeo propone lavori che si possono definire frutto di cooperative, album messi assieme magari da un produttore che si rivolge a personaggi più o meno noti per le parti vocali o strumentali. AOR, Deacon Street, Radioactive sono monickers noti al pubblico sopratutto per la gran quantità di musicisti e/o cantanti coinvolti nell’assemblaggio di album che talvolta si limitano ad essere raccolte celebrative, in altri casi hanno maggiori ambizioni. Uno di questi casi è rappresentato proprio dal progetto Shining Line, di cui è promotore il batterista italiano Pierpaolo Monti, che per registrare questo disco ha messo assieme una pattuglia di cantanti e chitarristi di notevole caratura e davvero internazionale, dato che compaiono qui musicisti statunitensi, svedesi, canadesi, inglesi e tedeschi, quasi tutti ben conosciuti. Dato che elencarli tutti è una faccenda abbastanza lunga, rimando alla pagina del gruppo su myspace (www.myspace.com/shiningline) per chi vuole consultare la lista completa. Prodotto da Alessandro Del Vecchio (già dietro il banco del mixer per Glenn Hughes, Axe, Edge Of Forever ed altri), con una backing band formata da Pierpaolo e Amos Monti come sezione ritmica, lo stesso Alessandro Del vecchio alle tastiere ed i chitarristi Marco D’Andrea e Mario Percudani, il disco si apre con “Highway Of Love” dal bel refrain vagamente Snakes In Paradise, mentre “Amy” è una power ballad che impasta sapientemente Journey, Dare e Winger. “Strong Enough” suona più californiana, “Heaven’s Paths” è un delizioso strumentale, quasi un intro a “Heat Of The Light”, che Robin Beck fa totalmente propria con un’interpretazione strepitosa. “Can't Stop The Rock” è un bell’anthem che precede “The Meaning Of My Lonely Words”, una ballad robusta, un po’ soul, cantata veramente alla grande da Michael Shotton (a proposito, il nuovo Von Groove dovrebbe essere finalmente alle porte). “The Infinity In Us” suona come dei Toto più heavy (assolo di chitarra di Vinnie Burns). “Still In Your Heart” è un hard melodico molto teutonico, ben giostrato, con un notevole duetto fra Bob Harris (Axe) e Sue Willets (Dante Fox). “Homeless’ Lullaby” prosegue lungo il sentiero del rock melodico tedesco ma è più quadrata e metallica, notturna. “Follow the stars” ricorda invece molto i Boulevard epoca primo album. Con “Unbreakable Wire” torniamo dritto in Germania e conclude la suite in tre parti “Under Silent Walls”: la prima tranche è uno strumentale variegato, suadente ed elettrico; nella seconda, d’atmosfera ma nient’affatto eterea, le parti vocali sono affidate a Michael Bormann e c’è un assolo molto Gary Moore di Mario Percudani; la terza, di nuovo strumentale, parte morbida e si fa via via più veemente, con un notevole lavoro di chitarre.

L’intento celebrativo del disco, esplicitamente dichiarato nelle presentazioni, si deve leggere unicamente come devozione al genere, dato che Monti ed i suoi riescono nell’impresa tutt’altro che facile di scrivere notevoli canzoni senza far ricorso a citazioni e trapianti: da questo punto di vista, i Ten erano molto più celebrativi di loro… Non si può non sottolineare la produzione perfetta, una qualità audio strepitosa ed il lavoro alle chitarre di Percudani e D’Andrea, che niente hanno da invidiare ai loro colleghi stranieri. Se qualcuno nutre ancora prevenzioni riguardo il rock melodico suonato da italiani, questo disco è arrivato per cancellarle tutte.