Tanto rumore per nulla? Tecnicamente sì, ma bisognerebbe capire se il “rumore” era poi giustificato e giustificabile… Le aspettative sul prodotto di questa superband che metteva assieme uno dei maestri della chitarra moderna più due ex Van Halen ed un ex Red Hot Chili Pepper erano indubbiamente alle stelle, ma, per me, nient’affatto comprensibili. Chi si attendeva una pietra miliare è rimasto deluso, ma lo sbaglio stava proprio nell’aspettarsi una pietra miliare. Le coordinate del disco sono semplici da individuare: i Van Halen (era Hagar, ovviamente), ma senza la chitarra di sua maestà Eddie. Joe Satriani stavolta non è venuto a stupirci con effetti speciali, e chi sperava in architetture ardite e/o futuristiche, in assoli basati sulla scala Enigmatica o abbelliti con il modo Misolidio, può tornare a risentirsi ‘Not of this earth’ o ‘Surfing with the alien’ o anche l’ultimo ‘Professor Satchafunkilus and the Musterion of Rock’. Qui, Joe suona come un ottimo chitarrista qualsiasi, e allora la sua presenza praticamente smette di fare testo. Per quanto riguarda Chad Smith… beh, è un batterista, e nel songwriting di una band i batteristi generalmente contano quanto un due di coppe a briscola, e allora eliminiamo pure lui dal mazzo. Restano Sammy Hagar e Michael Anthony, rimasti orfani dei Van Halen, con i conti da pagare, il mutuo della villa, gli alimenti di qualche ex moglie da versare ogni mese… Insomma, non è poi cattiveria affermare che questa è una band messa assieme per il portafogli, contando sulla vasta legione di fans dei Van Halen che avrebbero comprato il prodotto a scatola chiusa e sarebbero poi corsi ai concerti solo per sentire Sammy cantare “Poundcake” o “Why can’t this be love” (che potete scommetterci saranno nella set list). ‘Chickenfoot’ non è certo un album da gettare nel bidone della spazzatura, ma non è neppure un capodopera. Non possiede neanche un songwriting di particolare distinzione. In certi frangenti, anzi, ha un che di amorfo, dà una sensazione come di incompiuto. Un pugno di riff anni ’70 ed il solito cantato cazzutissimo di Sam The Man. Tutto qui. Che si potesse fare molto di più, che questi quattro personaggi fossero perfettamente in grado di darci qualcosa di più, è scontato. Il problema è che nessuno di loro ha voluto darci veramente dentro, andare oltre una routine competente. Non posso fare a meno di pensare a quel disco strabiliante che è stato l’anno scorso ‘Good to be bad’: in fondo, nessuno chiedeva agli Whitesnake un capolavoro, nessuno se lo aspettava, forse nessuno ci credeva (di sicuro, non ci credevo io). Invece, David Coverdale ci ha dato un album che può guardare negli occhi ‘1987’ e ‘Slip of the tongue’ senza arrossire, anzi. C’è stata la volontà precisa da parte di Coverdale ed i suoi di fare tanto, tantissimo, anche se non ne avevano la necessità. I Chickenfoot, invece, hanno lavorato senza stancarsi, sapendo che potevano contare su un mercato che si sarebbe accontentato della loro semplice presenza, un mercato che in questo momento pare oltretutto piuttosto ricettivo verso proposte in tema hard rock che rimandino agli anni 70 senza esagerare con i revival. Questo potrebbe spiegare il chitarrismo così asciutto di un Joe Satriani che ha preferito tenere per sé (leggi: per i suoi dischi) le cose veramente fuori dal comune, mettendo in campo invece riff e fraseggi di chitarra che sembrano estratti in eguale misura dai cataloghi di AC/DC e Led Zeppelin. “Avenida revolution” apre il disco in un clima sospeso e inquietante: serrata ma anche abbastanza monotona, tra un riff che non muta di una nota dal principio alla fine e le divagazioni in tono minore della chitarra di Joe. Molto meglio “Soap on a rope”, dal bel riff saltellante e bluesy, con chiari riferimenti alle atmosfere swinganti dei Van Halen rielaborate in una chiave più heavy. “Sexy little thing” soffre anche lei di un arrangiamento troppo lineare, dipanandosi tra una chitarra dai toni vagamente arabeggianti ed un’altra molto secca ed anni 70. “Oh yeah” è un mid tempo alla Purple / Whitesnake ma con refrain molto yankee, bello il bridge con la chitarra funk, le tastiere e l’assolo decisamente alla Blackmoore di Joe. “Runnin’ out” è di nuovo bluesy, con un riff minimale ricalcato su quello della "Sunshine of your love" dei Cream, ma la canzone praticamente non esisterebbe senza il cantato maschio e teso di Sammy: l’assolo veloce e pieno di wah wah non incide più di tanto. Notevole, invece, “Get it out”: movimentata, veloce, vagamente moderna, sculettante e cupa nello stesso tempo con il suo riff alla AC/DC e l’intrecciarsi spettacolare degli assoli. “Down the drain” è la seconda cosa migliore del disco (la migliore in assoluto viene in chiusura), aperta da un fraseggio cristallino che lascia poi spazio ad un riff pachidermico, lento e pesante, ancora di estrazione blues come gli assoli di chitarra, bello il refrain ed il finale sfumato ed in sordina. “My kinda girl”, invece, è un classico hard rock americano, opaco, senza proprio nulla di speciale o personale: canzone superflua, buttata lì per fare mucchio. Altra musica su “Learning to fall”, power ballad molto ispirata, con una chitarra limpida e malinconica sul tappeto discreto di tastiere. “Turning left” è di nuovo tesa e serrata ma anche agile e sinuosa, la cosa più Van Halen del disco, con un Joe funambolico che si inventa fraseggi e assoli molto Eddie-style per una canzone che non avrebbe sfigurato su ‘OU812’ o ‘F.U.C.K’: i die hard fans dei Van Halen incasseranno con piacere. “Future in the past” comincia come una power ballad alla Guns N’ Roses, poi entrano una chitarrona funk ed un pianoforte limpido e martellante che dopo un po’ lasciano il posto ad un riff arabeggiante, percussioni, campanelli, una chitarra liquida, un crescendo elettrico in cui sale l’assolo di Joe, torna il refrain ed il clima alla GNR, il crescendo si fa sempre più imponente, con le keys ed una chitarra scatenata… se tutto il disco fosse stato impostato su coordinate del genere, oggi starei scrivendo di un capolavoro. Così non è andata, purtroppo, ma, al di là di qualche episodio vistosamente sotto tono, ‘Chickenfoot’ resta un album godibile e interessante, non necessariamente riservato ai fans di Sammy o della sua ex band.
Ma chi l’avrebbe mai detto… Chi lo aveva conosciuto nella band di Alice Cooper, quando brandiva quell’assurda chitarra a forma di fucile d’assalto, chi lo aveva ammirato (si fa per dire, naturalmente) sulla copertina del suo primo album solista del 1987 dove si era fatto ritrarre con un look che pareva il crossover perfetto tra Rambo e Terminator, sempre con la chitarra/carabina tra le braccia, non avrebbe puntato un centesimo su questo tizio con il fisico da mister muscolo. Come chitarrista era bravo, d’accordo, ma di supereroi del metallo ne avevano già tutti più o meno le palle piene, alla fine dei Big 80s. Kane Roberts sembrava destinato a restare un’altra di quelle macchiette che tanto male hanno fatto alla reputazione del rock duro, una delle innumerevoli prove viventi che i suoi detrattori esibiscono per sminuire o mettere in ridicolo l’heavy metal. Ma Kane non era solo muscoli, ma anche tanto cervello e non poco talento. Assodato che l’immagine da sopravvissuto del dopobomba ormai non tirava più e le sfuriate dei guitar hero erano passate definitivamente di moda, Kane cambiò look e genere in un solo colpo: nel 1991, si presentava sulla cover di questo ‘Saints & sinners’ con una canottiera alla Marlon Brando, fissando i possibili acquirenti del suo nuovo album con uno sguardo languido che ebbe molta più presa delle pose alla macho ostentate in precedenza. La metamorfosi da guerriero postatomico a stallone sexy era stata accompagnata da un “ovvio” cambiamento di sound, così che il Kane Roberts del 1991 si proponeva all’audience dell’hard melodico piuttosto che a quella dell’heavy metal, e con un prodotto dal songwriting a dir poco esaltante, che vedeva affiancati a Kane nella stesura delle canzoni personaggi cardine dell’hard cromato come Desmond Child (anche produttore assieme al fido Arthur Payson), Jon Bon Jovi e Jack Ponti. ‘Saints & Sinners’ andava così a collocarsi al crocevia dell’hard de luxe di Bon Jovi e Baton Rouge, con qualche piacevole nuance Cheap Trick ad aromatizzare una pietanza già appetitosa, anche se, occorre riconoscerlo, dal sapore tutt’altro che originale. Un intro d’effetto (un po’ Whitesnake?) e parte “Wild nights” un grande anthem al crocevia di Dokken, Cheap Trick e Baton Rouge, subito replicato da “Twisted” in un clima appena più glam e con un refrain ancora più Baton Rouge oriented. “Does anybody really fall in love anymore” è una fantastica power ballad che ci porta in pieno New Jersey (niente di strano, dato che questa canzone la scrisse la coppia Bon Jovi / Sambora, e fu incisa anche da Cher) ma è giusto una pausa per tirare il fiato prima che Kane spari un altro anthem da urlo, “Dance little sister”, tra gli Autograph e i Danger Danger. Drammatica si rivela “Rebel heart”, ancora debitrice dei Baton Rouge e imparentata strettamente con i Bon Jovi. “You always want it” è un class metal martellante ma con un refrain agile, il peso massimo del disco. “Fighter” è di nuovo un anthem, travolgente connubio di Bon Jovi e Cheap Trick, “I’m not looking for an angel” inizia con un intro beffardo, un organo ecclesiastico su cui vanno a sovrapporsi gemiti femminili molto poco pii prima che irrompa un hard melodico spettacolare, con squillanti sfumature rhythm and blues nel ritornello avvolto da una sezione fiati. “Too far gone” è un altro refrain divino che si innalza con grande effetto su un tessuto quasi dimesso e chiude “It’s only over for you” chiamando ancora in causa i migliori Bon Jovi. I riscontri da parte del pubblico non furono deprimenti ma comunque inferiori alle attese, e Kane, dopo l’avventura Phoenix Down, appese la chitarra al chiodo per diversi anni, dedicandosi alla grafica e alla creazione di video games, prima di ritornare nel 2006 con l’album fantasma ‘Touched’: fantasma nel senso che nessuno l’ha mai visto, e sul suo sito web è dato “imminente” per il download da tre anni.
P.S. Questa recensione è dedicata a Paolo, per l'ispirazione.
Per una band, trovare un monicker all’altezza non è impresa facile. Nella corsa disperata alla ricerca di un marchio non abusato o meno che ovvio, certe bands si sono inventate obbrobri come Zaza, Tonto Tonto, Los Mas Turbados, Mondo Topless, oppure sono ricorsi a pazzesche agglutinazioni di suoni a prova di scioglilingua, come i TVTV$: bisogna però ammettere che dopo cinquanta e passa anni di rock, tutti gli appellativi più semplici e/o stuzzicanti sono stati opzionati, magari anche più di una volta. Fatevi venire in mente una parola in lingua inglese, una qualunque, poi andate su Google e impostate una ricerca aggiungendo le parole rock band o una cosa del genere e nove su dieci troverete almeno un gruppo che l’ha adottata come marchio. Forse è questo il motivo che spinge certi ensemble a seguire vie traverse che talvolta culminano con una sorta di illuminazione, anziché sedersi a tavolino e scegliere freddamente magari col rischio di ritrovarsi omonimi di qualcuno. Così andò ai Kik Tracee, per esempio. La band, durante le sue prime prove in studio di registrazione, era seguita da un piccolo nugolo di groupies che naturalmente non erano proprio la miglior terapia per trovare la concentrazione e suonare. La più casinista era una certa Tracy e un giorno, il cantante Stephen Shareaux, esasperato dal fracasso, gridò: “Qualcuno butti fuori a calci Tracy dallo studio!”. Il succo della richiesta, in inglese, fa: Kick Tracy. Con una trascrizione più cool, quel “buttate Tracy fuori a calci”, diventò il monicker della band. E i Roxy Blue? Dunque: pare che i quattro componenti della band una sera stessero collazionando le proprie conoscenze femminili, in particolare quelle che in tempi più pudichi dei nostri venivano definite “bibliche”, e saltò fuori che tutti loro erano stati con una di quelle professioniste celebrate dai Great White nella loro indimenticabile “Lady red light”. Il nome d’arte (o di battaglia?) della suddetta era appunto Roxy Blue. Questo aneddoto un po’ sordido introduce alla perfezione l’atmosfera che regna su ‘Want some?’, unica testimonianza discografica di una band defunta troppo presto. Si parte con “Too hot to handle”, un party anthem da urlo dove i ragazzi si presentano come una versione più heavy dei Warrant, salvo cambiare subito pelle con “Sister sister”, una ruvida stesura elettroacustica al crocevia tra Guns N’ Roses e Tesla, ricetta riproposta anche su “Luv on me”, mentre i soli Tesla, nei loro momenti più melodici, fanno da padrini a “Times are changin’”, una power ballad in cui spunta anche un fantasma di tastiere. “It’s so easy” è un metal californiano dal refrain vincente, sporcato di glam, tra i Faster Pussycat ed i W.A.S.P. meno trucidi. “Rob the cradle” sembra quasi una alternative version della “Hot for teacher” di Vanhaleniana memoria (divertente, però), “Squeeze box” è una cover di Pete Townshend, cadenzata e allegra, “Talk of the town” un’agile stesura street metal, un po’ Jetboy, con un bel bridge percussivo. I Van Halen tornano di prepotenza in “Rock-A-Bye baby”, arricchita da un assolo pirotecnico (tanto per rimanere in tema…). “Nobody knows” mi fa pensare a dei Tyketto più ruvidi ed essenziali, “Love’s got a hold on me” è ancora sfacciato party metal, e chiude “Main attraction”, serratissima, con qualche sprazzo funky ed un bridge lento ed ipnotico. Prodotto nientemeno che da Mike Clink, ‘Want some?’ avrebbe meritato più fortuna di quanta gliene toccò in quel 1992 che vedeva l’America già avvelenata dei miasmi del Grunge. Oggi si può reperire abbastanza agevolmente e senza doverlo pagare una fortuna: non fondamentale, ma sicuramente gradevole.
I Saints & Sinners appartengono a quella categoria di bands di cui ho riassunto i tratti fondamentali nella recensione degli Heavy Bones: songwriting strepitoso, produzione perfetta, scarsa originalità nel sound per una scelta precisa e consapevole. Il paragone con l’ensemble di Frankie Banali calza quasi a pennello, anche se i Saints & Sinners avevano un suono diverso, meno eclettico, molto più orientato al class metal ed all’hard melodico californiano: scelta controcorrente se consideriamo che la band era canadese quasi al cento per cento, e proveniva per di più dall’area francofona, quella che aveva prodotto favolosi act di puro AOR come i Boulevard ed i Beau Geste (che cantavano in francese). Gli unici elementi con un passato conosciuto alle spalle erano il key player Jess Bradman (Con Killerwatt, Keel e Nightranger) ed il cantante Rick Hughes (era negli Sword, band di epic metal non proprio fortunatissima; a beneficio dei pignoli, specifico che il nome va pronunciato alla francese, con l’accento sulla “e”), niente invece si sa di Stephane Dufour (chitarre), Martin Bolduc (basso) e Jeff Salem (batteria). La Savage non lesinò quattrini per questo disco, dato che per sovrintendere il tutto (produzione e songwriting) fu chiamato sua eccellenza Aldo Nova, mentre le canzoni vedevano accanto alla band e ad Aldo come autori Jon Bon Jovi, Rachel Bolan, David Sykes e Andre Pessis. Di tutto questo ben di Dio messo in campo non andava sprecato neppure una goccia, ‘Saints & Sinners’ è uno di quegli album che se dovessero pesare fisicamente in proporzione diretta alla quantità di classe contenuta sfonderebbero i piatti di qualunque bilancia… Apre “Shake”, dal bel riffone avvolgente, atmosfera e potenza con un refrain anthemico in bilico tra Firehouse ed i Motley Crue. “Rip it up” è un fantastico party metal, dove i ragazzi suonano come dei Kix meno trucidi o gli Steelheart più glam. “Walk that walk” è già un apoteosi: impossibile, travolgente melange di Van Halen, Baton Rouge e Kix spalmato di rhythm and blues, vicino nelle atmosfere alla “Doin’ the dance” dei Bangalore Choir, e non per caso, dato che anche su quella canzone aveva posto il suo sigillo come compositore e produttore Aldo Nova. Si tira un po’ il fiato con “Takin’ my chances”, power ballad vigorosa e suggestiva, prima di venire catapultati in un altro grandissimo anthem, “Kiss the bastards”, che impasta Skid Row, Whitesnake ed Hurricane tra riff taglienti e pesanti, sprazzi fascinosi di keys, arpeggi nello stesso tempo rugginosi e splendenti, rullate militaresche ed un refrain secco ed urlato. “Wheels of fire” è un episodio di serratissimo heavy metal americano, “Lesson of love” allenta la tensione e torna alle cromature sfavillanti, un class metal sopraffino, pesante eppure arioso, su cui la produzione di Aldo Nova incide ancora in maniera determinante, ricordando certi episodi del suo ultimo album solo, ‘Blood on the bricks’. Se “We belong” è un’altra pregevole tranche di melodia robusta, con un refrain di ampio respiro, “Frankenstein” è la piece de resistence, quasi dieci minuti scanditi da un riff zeppeliniano in cui convergono i Kingdome Come di ‘Hands of time’, gli House Of Lords, e ancora gli Hurricane, con un testo maniacale degno del miglior Ozzy. “Slippin’ into darkness” chiude (troppo presto!) l’album, un altro notevole episodio di class metal che ricorda certe cose del Ronnie James Dio più commerciale, ma trasposte in un telaio decisamente cromato. Basta la data di pubblicazione a spiegare l’insuccesso di un disco che avrebbe meritato ben altra fortuna ed oggi è un articolo abbastanza raro su eBay, dove passa di mano per cifre intorno ai trenta dollari. Auspicarne la ristampa non è certo uno sproposito.
Chi per il nostro genere nutre un interesse un po’ più che casuale ha a disposizione una vera e propria miniera di informazioni nel sito di Jim Vallance. Songwriter e produttore, Vallance ha lavorato con una fetta tutt’altro che trascurabile di protagonisti dell’AOR e dell’hard rock negli anni ’80, e nel suo sito annota e commenta (una per una!) ogni canzone scritta con o per bands che hanno fatto (anche grazie a lui, of course) la storia del rock melodico. Un rapporto speciale ha legato Vallance a Bryan Adams, soprattutto nella prima metà dei Big 80s, prima che il cantante canadese decidesse di rivolgersi a Mutt Lange per la produzione dei suoi dischi, imboccando una strada più soft rispetto a quella che lo aveva portato al successo. Gran parte dei dettagli sulle canzoni di questo album (tutte scritte e coprodotte da Vallance) li ho ripresi dal suo sito web, www.jimvallance.com, che invito naturalmente tutti a visitare, anche perché è una delle poche fonti realmente di prima mano sul “dietro le quinte” di album che, ripeto, spesso hanno fatto la storia dell’AOR. È il caso di questo disco, che nel 1984 creò un vero e proprio standard ed ebbe uno strepitoso successo arrivando al numero 1 di Billboard e rimanendo in classifica per la bellezza di 83 settimane, superando ad oggi i 5 milioni di copie vendute in USA ed i 12 milioni nel mondo. ‘Reckless’ era il quarto disco di Bryan Adams, Jim Vallance aveva lavorato con lui fin dal debutto autointitolato del 1980, una lenta, inesorabile progressione, già ‘Cut like a knife’ aveva fruttato l’anno precedente un paio di singoli ed un numero 18 su Billboard, ma ‘Reckless’ fu un vero e proprio ciclone, la sua ascesa fu favorita forse anche dalla scarsa concorrenza, Journey, Aldo Nova e Foreigner non avevano nuovi album in uscita e quel 1984 fu tutto di Bryan e Jim e delle loro canzoni. “Ci volle qualche anno” scrive Jim Vallance a proposito di questo disco, “ma infine capimmo come scrivere canzoni pop adatte ad essere trasmesse alla radio e per gran parte del 1984 questo fu esattamente ciò che facemmo, 12 ore al giorno, 7 giorni la settimana. Il risultato fu ‘Reckless’”. Ma ‘Reckless’ non è per niente un disco “pop”. Rocka e rolla che è un piacere, dal principio alla fine. Niente ballads lente e una montagna di chitarre. L’unica ballad, e molto power, è “Heaven”, che Jim e Bryan avevano scritto per la colonna sonora di un film che si era rivelato un flop al botteghino, e Bryan non voleva neppure includerla nel nuovo disco, gli sembrava troppo leggera, poco adatta all’atmosfera dell’album… Ci ripensò, per fortuna sua e nostra, e “Heaven” è diventata la sua canzone di maggior successo prima di “Everything I do”, suonata più di un milione di volte dalle radio americane (equivale più o meno a sei anni di programmazione ininterrotta), una hit che è risuonata per mezzo mondo e perfino in Italia (magari piazzata da qualche DJ fra Toto Cutugno ed i Pooh…). “Heaven” rimane probabilmente la più significativa espressione di quel genere un po’ nebuloso etichettato “FM rock”, la musica tosta da sparare alla radio, di certo la pietra di paragone per chi si è avventurato lungo questi sentieri. Jim e Bryan la scrissero prendendo a riferimento la “Faithfully” dei Journey, ma il risultato finale fu molto meno leggiadro, più fisico, scabro, diretto. Strana coincidenza: mentre la registravano, Mickey Curry fu costretto ad andarsene perché aveva già un impegno per un tour con Hall & Oates, e Bryan dovette cercare in fretta e furia un batterista e per caso in quel momento era di passaggio a New York proprio Steve Smith, che completò il lavoro lasciato a mezzo da Curry. Ma il capolavoro del disco, per me, è “Run to you”, con quell’arpeggio di chitarra misterioso e notturno, il tappeto di keys su cui va ad adagiarsi il ritornello dalla sconfinata estensione melodica, una consistente frazione dell’AOR ottantiano è cominciata da questa canzone che ha una storia singolare dietro le spalle. Bryan e Jim l’avevano scritta per i Blue Oyster Cult, in seguito ad una precisa richiesta di Bruce Fairbairn, che stava producendo un loro disco. In cerca di ispirazione, ascoltarono parecchie cose vecchie dei BOC, incluso il loro maggior hit di sempre “Don’t fear the reaper”, da cui trassero proprio l’arpeggio di chitarra che apre la canzone, poi lavorarono sul riff, cambiandone successivamente per tre volte la tonalità (da La minore a Mi minore a Fa minore) per meglio adattarla alla voce di Bryan. Ottenuto il riff, in pochi giorni scrissero il testo e fecero l’arrangiamento, incisero il demo, spedirono la canzone a Bruce Fairbairn che la fece ascoltare ai Blue Oyster Cult… i quali non la trovarono di loro gusto! Consci del suo valore, Bryan e Jim cercarono di venderla, facendola ascoltare a diverse bands (tra cui, i 38 Special), ma senza successo (un caso clamoroso di sordità collettiva…). Ma neppure Bryan Adams era convinto che quella benedetta canzone facesse per lui, sopratutto perché nella versione originale c’erano dei backing vocals che andavano a contrappuntare nel ritornello, risultando troppo “invasivi” e così, quando infine la registrò per ‘Reckless’, quel coro sparì, sostituito dall’organo e “Run to you” diventò il primo singolo estratto dal disco e il resto è storia. “One night love affair” è un riff essenziale, su cui va ad adagiarsi una melodia squisita, con un assolo limpido e fascinoso di Keith Scott. Jim si era ispirato stavolta alla “Working for the weekend” dei Loverboy, sfruttando l’effetto del cambio di tonalità fra i versi ed il ritornello (ma lo spostamento, in realtà non c’è, è solo un’illusione acustica: per i dettagli, andate sul sito di Jim Vallance). “She’s Only Happy When She’s Dancin’” è ruvida e melodica, parte da un riff secco alla AC/DC ed ha qualche ombra bluesy. “Somebody” è tessuta su una trama di funk lento e cromato, ritmato ed ancheggiante, su cui va a posarsi un refrain semplice e diretto, la nostalgica “Summer of ‘69” palesa influenze springsteeniane, sia a livello musicale che nel testo, ma il break centrale con la chitarra elettrica a 12 corde è un omaggio a Beatles e Byrds, Jim e Bryan lavorarono moltissimo sul testo, arrangiarono la canzone in tre o quattro modi diversi prima di trovare quello definitivo. “Kids wanna rock” è l’anthem del disco, un formidabile rock’n’roll metallizzato. Tina Turner duetta con Bryan su “It’s only love”, un hard melodico in cui io ho sempre sentito un certo smalto alla Billy Squier, ma che Jim afferma era basato come feeling e progressione degli accordi su una canzone di Lee Michaels, “Do You Know What I Mean”, che fu un grosso hit nel 1971 (della serie: per quanto si pensa di saperne, non se ne sa mai abbastanza…). “Long gone” è un rock’n’roll dalla melodia “facile”, impostato su quelle stesse coordinate che fecero la contemporanea fortuna di Huey Lewis. Della conclusiva “Ain’t gonna cry”, Jim scrive: “Volevamo solo scrivere una canzone rock veloce e cattiva, niente di più”… e ci riuscirono benissimo, naturalmente. “Ain’t gonna cry” è il peso massimo dell’album, pur non rinunciando alla melodia, e si conclude con una tempesta assordante di rumore bianco. Purtroppo, dopo questo disco i rapporti tra Bryan Adams e Jim Vallance iniziano a guastarsi, sopratutto perché Bryan comincia a sentirsi una personalità del mainstream rock, vuol far pesare meno le chitarre e sempre più i sintetizzatori e scrivere testi seriosi. Il risultato sarà ‘Into the fire’, che vendera appena 2 milioni di copie, un quasi-flop rispetto a ‘Reckless’. ‘Waking Up The Neighbours’ manderà in frantumi la società. Durante la tormentatissima realizzazione di quest’album si era creata una situazione di tensione tra i due, con Bryan in fregola per gli scarsi risultati di ‘Into the fire’. Ci furono canzoni registrate più e più volte e scartate, materiale per un intero album semplicemente gettato via, due produttori, (prima il solito Bob Clearmountain, poi Mutt Lange) ed una pressione sui due che fece a pezzi il loro rapporto. Bryan Adams in un paio di interviste ammise di essere il responsabile principale della fine di quel magnifico sodalizio artistico durato undici anni, che fu di fondamentale importanza per la definizione ed il successo del nostro genere. Jim Vallance continuerà ad illuminare con il suo lavoro di songwriter e produttore i dischi di tanti altri artisti (Aerosmith, Alice Cooper, Ozzy Osbourne tanto per fare tre nomi), mentre Bryan Adams continuerà a fare dischi interessanti ma molto lontani dallo splendore di ‘Reckless’. Se in questa recensione mi sono dilungato su aspetti prettamente “tecnici”, non è per caso. ‘Reckless’ può apparire se non la quintessenza della semplicità, certo un disco molto diretto, buona la prima e andiamocene a casa. Jim Vallance ci spiega che quei trentotto minuti di musica furono invece il frutto di un lavoro intenso, estenuante, di giorni e giorni passati in studio, di prove e tentativi e passi falsi, che certi risultati non vengono per caso o improvvisando, Dio sa quante volte ho letto interviste in cui le bands si vantavano di aver registrato album senza fronzoli, tutti assieme in studio, ampli a manetta e giù a pedalare, per avere il feeling da live performance… Pura propaganda, o una strana forma di pudore del lavoro, perché i dischi non si registrano in questo modo già dai tempi di Elvis, si prova e si riprova e poi si prova un’altra volta magari passando una settimana a girare attorno ad un riff per trovare la successione migliore degli accordi oppure registrando dieci versioni di una canzone per trovare quella giusta. Almeno, si faceva così una volta, quando le bands potevano permettersi di passare sei mesi chiuse in uno studio con un produttore, e i risultati sono ancora qui a ronzarci nelle orecchie, mentre al giorno d’oggi…
Ecco un altro caso di iella nera, di sfortuna, chiamatela come volete. Forse non clamoroso come quello dei Legs Diamond, ma sicuramente da ricordare per i posteri. Per tutti, gli Y&T erano una grande band, ma quando si trattava di aprire il portafogli per comprare i loro dischi… Il miglior risultato ottenuto dalla band su Billboard è stato il numero 48 per ‘In rock we trust’, nel 1984 (è stato ristampato nel 2007 dalla Majestic). Poi un altro paio di dischi piazzati intorno al numero 70. Fine della storia. ‘Ten’ fu l’ultimo album inciso per una major, la Geffen, che li aveva presi dopo la fine del tumultuoso rapporto con la A&M. Un flop, mentre il precedente ‘Contagious’ aveva raggiunto comunque solo un mediocre numero 78 nelle classifiche americane. Perché? Forse giocò a loro sfavore il fatto di non aver mai compiuto una scelta di campo chiara e netta, sempre indecisi tra il metal puro e duro ed un approccio più melodico. Forse. Magari gli è mancato un front man dall’immagine trainante, o un singolo di successo. Non gli si può certo negare l’impegno, né la capacità di inserirsi con autorità nel nuovo contesto sonoro della seconda metà degli anni 80. Insomma: sfortuna, nient’altro. Anche perché questo ‘Ten’ sembrava davvero possedere tutte le carte vincenti per imporli all’attenzione del pubblico: più roccioso di ‘Contagious’, più heavy e metallico senza perdere di vista la melodia, perfettamente allineato, dunque, a quanto nel 1990 faceva furore. Con la produzione de luxe di Mike Stone e qualche aiuto per il songwriting da parte di Jeff Paris (anche dietro le tastiere), Taylor Rhodes, Robert White Johnson e Al Pitrelli, gli Y&T aprivano il disco con la anthemica e scaramantica “Hard times”, dove Dave Meniketti affermava con ottimismo “hard times ain’t gonna last forever…”, quando per lui ed i suoi compagni – Phil Kennemore al basso, Jimmy DeGrasso dietro i tamburi (ma le parti di batteria di ‘Ten’ vennero incise da Steve Smith) e Stef Burns come seconda chitarra – erano in agguato tempi non duri ma durissimi. Dopo la hardrockeggiante “Lucy” c’è un masterpiece di melodia & potenza, “Don’t be afraid of the dark”, refrain struggente su un luccicante telaio metallico, poi le tentazioni Aerosmithiane della ritmata, solare ed un po’ funky “Girl crazy” ed il martellare bluesy tra AC/DC e Great White di “City”. “Come in from the rain” è un altro drammatico class metal d’atmosfera, “Red hot & ready” ci riporta – almeno nel riffing – agli anni ’70 di Ted Nugent ed AC/DC, “She’s gone” parla ancora la lingua dei migliori Aerosmith, “Let it out” è scritta da Jeff Paris e porta il suo inconfondibile sigillo nel refrain, l’episodio più melodico del disco dopo la tempestosa ballad “Ten lovers”, arricchita da un bellissimo arrangiamento d’archi. Ma il finale è all’insegna dell’ heavy metal, prima con “Goin’ off the deep end” poi con la velocissima “Surrender”. A tanto impegno, dicevo, non corrisposero purtroppo dei riscontri adeguati, ‘Ten’ fu per diversi anni il principe dei forati e gli Y&T, dopo la pubblicazione di un live, vennero licenziati dalla Geffen, trovando casa presso la MFN per cui pubblicarono altri due buoni dischi, ‘Musically incorrect’ nel ’95 e ‘Endangered species’ nel ’97 prima di sparire per qualche anno, rifacendosi vivi dal 2001, sempre con le storiche colonne Dave Meniketti e Phil Kennemore, limitandosi però, come tanti act resuscitati nel ventunesimo secolo, a suonare dal vivo.
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