Entrando
di nuovo in tema di band “minori”... Forse a questo aggettivo si
dovrebbe sostituirne un altro: superflue. Bands che, se pure non fossero
mai esistite, non avrebbero cambiato di una virgola la storia del rock.
Ma la storia del rock non è fatta solo di capostipiti: c’è chi ha
tracciato un sentiero e chi si è limitato a batterlo. E in tutte le
cose, non conta tanto quello che fai, ma come riesci a farlo. I
McQueen Street non erano sperimentatori, non cercavano nuove vie, si
esprimevano su tematiche familiari a chi ha anche solo un’infarinatura
di hard rock ottantiano. Quello che importa è il modo in cui lo
facevano: il songwriting
che erano capaci di sviluppare, il feeling che mettevano nelle loro
interpretazioni. Il feeling, i McQueen Street ce lo mettevano senza
risparmio. Il songwriting, era interessante, ma mancava della più
piccola goccia di personalità. Una band può saccheggiare a man bassa
fra i repertori di interpreti più o meno famosi, oppure adagiarsi
comodamente nella scia di qualche superstar e nello stesso tempo avere
un proprio sound che la fa riconoscere al primo ascolto (alla prima
categoria appartengono, ad esempio, i Ten, alla seconda i Kix). I
McQueen Street, complice anche un cantante dalla voce incisiva ma
un po’ anonima, finivano sempre per suonare come qualcun altro, anche
se pure qualche timido – molto
timido – tentativo di ritagliarsi un proprio spazio veniva abbozzato
lungo l’arco delle dieci canzoni che componevano questo loro esordio
autointitolato. Il
disco si rivela infatti tutt’altro che monocorde, svariando dalle
atmosfere street rock sull’asse Faster Pussycat – Jetboy (“When
I’m in the mood”, afflitta da un cantato urlato e stridulo
che per fortuna non verrà più replicato dal singer Derek Welsh sul
resto del disco, “Stick it”) a
riletture powerhouse dei sempiterni AC/DC (“Woman
in love”, “Money”); da una
power ballad dall’atmosfera western (“Time”,
come dei Tangier molto più ruvidi) alla ballad elettroacustica
(l’intensa “Only the wind”). “Going
back to mexico” parte con un intro percussivo dall’atmosfera
spagnoleggiante poi entra una raffica di riff convulsi per un hard rock
massiccio ma ben strutturato sulla scia di Bulletboys e Junkyard, “Two
worlds” è scritta da Steve Stevens, metal californiano ancora
con qualcosa dei Bulletboys nel DNA (bello l’assolo: di Steve,
naturalmente). “My religion” si rivela
un anthem abrasivo e Kisseggiante, con un coro che ruba tre secondi alla
“Walks like a woman” dei Baton Rouge, mentre “In
heaven” è una magnifica power ballad metallica: per me, il top
dell’album. Detto che la produzione di Tom Werman è, come al solito, precisa e tagliente, non c’è proprio altro da aggiungere. La band durò due anni appena, nel 1993 Derek Welsh ed il bassista Richard Hatcher misero su i Rat Race, che durarono un po’ più dei McQueen Street, tre album pubblicati tra il ‘93 ed il ‘96. Poi, nel 2003, il ritorno della band (con un nuovo solista alla chitarra) per un disco autoprodotto e siglato da un semplice ‘2’ che ha gli stessi pregi e difetti del loro lavoro di debutto: grande feeling, buon songwriting, personalità zero. Non una band superflua, i McQueen Street, ma sicuramente una band minore.
Okay, lo ammetto: sono un debole. Dopo tutto quanto ho
scritto nella recensione del ‘Live… in the
heart of the city’ riguardo lo stato attuale della voce di
David Coverdale, eccomi qui a parlarvi del nuovo disco degli Whitesnake…
Mentre ordinavo il disco su eBay (la versione doppia, acquistata in USA
per 16 dollari, proprio la stessa che in Italia viene venduta a 35 euro:
l’esosità predatoria dei rivenditori nostrani l’ho già
stigmatizzata una volta e non ho proprio più voglia di tornare
sull’argomento) era tutto un va’ e vieni di pensieri che oscillavano
tra il pessimismo più nero ed un’ansietà speranzosa. Il problema di
fondo di ‘Restless heart’, l’ultimo
album di studio, uscito nel 1997, era non tanto la voce disastrata di
David, ma il songwriting molto poco ispirato. Adrian Vandemberg si era
dimostrato lì uno sparring partner veramente modesto, solo tre o
quattro canzoni si salvavano da un grigiore dovuto forse anche alla
fretta di David di chiudere l’avventura del Serpens
Albus per avviare quella carriera solista che si è interrotta prematuramente di fronte alle
vendite insignificanti di ‘Into the light’.
Ma oggi, David Coverdale ha una band che vede alle chitarre un mostro di
tecnica come Reb Beach e uno dei più assatanati seguaci del suono nato
con ‘1987’: Doug Aldrich. Tutte le
bands messe su da Doug (Lion, Bad Moon Rising e Burning Rain) hanno
parlato la lingua degli Whitesnake, dimostrandosi - come si suol dire -
sempre più realiste del re. Rivolgendosi a lui, David Coverdale
lanciava un messaggio chiaro, eloquente: gli Whitesnake non diventavano
“moderni”, non si mettevano al vano inseguimento del grande pubblico
che oggi idolatra altre forme di hard rock/metal. L’ingresso di Doug
Aldrich nella band poteva apparire una sorta di feedback, un ripiegarsi
in se stessi, ma il suo
pubblico, David Coverdale aveva ormai capito benissimo cosa voleva, e
con questo disco ha deciso di darglielo. Non il rock sospeso tra passato
e presente di ‘Into the light’, non il blues del periodo britannico della
band, ma l’hard rock, quello metallizzato di ‘1987’
(sopratutto) e quello zeppeliniano del solitario disco con Jimmy Page. Partiamo dal principio, ovviamente: la voce di David
Coverdale. Che non è più quella di una volta. Tutte le armoniche più
basse sono andate, le sfumature vellutate e morbidone sono solo un
ricordo e quando David prova a cantare su quello che una volta era il
suo tono naturale, dalla sua gola viene fuori un borbottio rauco e
vagamente asmatico. Rispetto a ‘Restless heart’,
però, qui David gestisce la sua laringe zoppicante con molta più
intelligenza, giocando abilmente anche sul mixaggio. Paradossalmente, è
proprio quando forza i toni verso l’alto e si esprime in falsetto che
le cose vanno meglio, e questo potrebbe spiegare il vigore elettrico di
un album che si concede poche pause riflessive e mantiene un voltaggio
sempre molto elevato. Il songwriting è, senza mezzi termini,
strepitoso, di una qualità superiore ad ogni più rosea aspettativa.
Doug Aldrich ha dato senza dubbio il meglio di sé, ma qui sento anche
la grande intelligenza di Reb Beach, la sua capacità di essere classico
ed innovativo nello stesso tempo. Mi riesce francamente difficile
credere che certe architetture ritmiche siano opera di Doug, bravo
quanto si vuole ma sempre scarsamente “creativo”, a differenza
dell’ ex chitarrista degli Winger. Insisto su questo punto perché
tutte le canzoni sono accreditate esclusivamente alla coppia
Coverdale-Aldrich, cosa che per altro non deve aver certo impedito a Reb
Beach di intervenire pesantemente sugli arrangiamenti: una storia che
potrebbe ricalcare quella di ‘Slip of the tongue’,
dove le canzoni furono ufficialmente scritte da David ed Adrian
Vandemberg, ma chiunque abbia orecchie per sentire può rendersi conto
del lavoro svolto da Steve Vai nell’arrangiare i pezzi (oltre che
interpretarli tutti da solo, ovviamente). Anche la produzione è opera
di David e Doug, ma entrambi hanno dato prova in passato di poter
assumere senza imbarazzo questo delicatissimo ruolo, e difatti qui non
sento che in minima parte quel “vuoto” che spesso e volentieri
accompagna i dischi autoprodotti. Il suono è eccellente, sopratutto
risaltano le montagne di chitarre, sempre nitidissime, mentre la
batteria rimane un po’ indietro, ma questo nuovo batterista non regge
il confronto con un gigante come Tommy Aldrige e se ne sta al centro a
dare il ritmo senza svariare più di tanto. “Best years” apre il
disco ed è già un colpo da maestri. Chi dice che non si possono
conciliare atmosfere ottantiane e chitarre stoppate? Questo pezzo
dimostra esattamente il contrario. Il riff su cui viaggia si può
definire con una sola parola: turbinante. Gira e rotola, come un uragano
ed una valanga. La canzone è un hard rock zeppeliniano, mutante e
metallico, ipnotico e selvaggio. Il riff precipita come una cascata nel
lento mulinello dei versi che precedono le acque calme e malinconiche
del coro. Un capolavoro, classica e nuova nello stesso tempo. “Can
you hear the wind blows” fa molto vecchi Whitesnake, ma in un
clima decisamente più heavy e con un refrain tempestoso. “Call
on me” è il primo tributo al disco con Jimmy Page (echi di
“Shake my tree”?), con un refrain drammatico e palpitante. “All
I want all I need” è la prima ballad, un melange più
elettrico di “Is this love” e “The Deeper The Love”. David è
costretto praticamente a sussurrarla, perché quando alza il volume
diventa rauco come se avesse la tracheite. “Good
to be bad” riporta in gioco i vecchi Whitesnake,
elettrificandoli in una maniera diversa rispetto a quanto David aveva
fatto a suo tempo con John Sykes, sviluppando soluzioni armoniche
magistrali. Per converso, “All for love”
risulta la cosa più vintage
del disco, una scheggia strappata a ‘1987’,
superbo metal californiano dove ogni cosa è al suo posto, incluso
l’assolo che segue diligentemente la melodia del ritornello:
perfezione assoluta. Non si può dire lo stesso di “Summer
rain”, una ballad elettroacustica che David canta qualche
ottava sopra rispetto a quanto aveva fatto su “All
I want all I need”, almeno finché gli è possibile, nel coro
deve calare la tonalità e ridiventa immediatamente asmatico… Canzone
delicata e ruvida nello stesso tempo, ma considerato l’arrangiamento
lineare e poco movimentato viene tirata troppo a lungo. Ma ecco che
arriva “Lay down your love”… Si
potrebbe definirla un omaggio alla “Black dog” dei Led Zeppelin, ma
sarebbe riduttivo e forse ingiusto, quel riffeggiare blues che si
riavvolge su se stesso è reinventato e amplificato in un clima di grandeur spaccona e raffinata fra chitarre che sembrano lame
incandescenti ed un refrain quasi soul, un bridge pacato ed un assolo
che parte lento e poi esplode in un torrente di scintille. Grande? No:
immensa! “A fool in love” è un mid
tempo blues, elettrico, classico e moderno, pesante, lento, rotolante,
con un refrain molto melodico, più Steelheart che Coverdale/Page,
diciamo (quel riff che scivola lento, giù, sempre più giù…). Ma il
fantasma di Jimmy Page riappare su “Got what you
need”, dove il metal californiano torna sugli scudi con
chitarre che picchiano e cabrano schizzando come proiettili, veloce,
cattiva, notturna, sexy, insinuante. Siamo all’undicesima canzone,
l’ultima, “Til the end of time”, tra la cowboy ballad elettrica come
la facevano i Bad Company e le melodie zingaresche dei Deep Purple
("Sail Away" et similia), molto suggestiva, lenta, quasi epica senza essere
tronfia o retorica. Nel secondo CD ci sono sette pezzi dal vivo ed un
videoclip. Mi è piaciuto sopratutto il medley “Burn/Stormbringer”
ma quello che mi ha sorpreso è la tenuta della voce di David Coverdale
sul palcoscenico. Potrebbe essere materiale d’epoca? Tutto è
possibile, come anche qualche ritocco dato in studio. In definitiva, ‘Good to be bad’
come si pone in rapporto alla produzione precedente della band? È mera celebrazione,
solo un tuffo nel passato? Per niente. Tra i dischi country di
Bon Jovi e i Def Leppard in versione british
glam, gli Whitesnake ci hanno dato un album che è più di una
semplice boccata d’ossigeno. E’ la dimostrazione che un certo genere
musicale è ancora ben lontano dall’ essere “morto”, sia nella sua
più fondamentale espressione artistica (leggi: la musica) sia – perché
no? – nell’estetica, in
quell’impasto di sfacciataggine, spacconeria, minaccia, eleganza,
potenza, malinconia e gioia, sensualità e tenerezza, malizia e candore,
schiaffi e carezze, calci e passi di danza, calore e gelo che
accompagnano da sempre tutto quanto è “hard rock” e più ancora
tutto quanto è stato “rock
melodico” o comunque ci piace chiamare il nostro genere: un genere che
non era una moda, non era lacca per capelli, spandex rosa, fuochi
artificiali o Tawny Kitaen
che si
rotolava sul cofano di una Jaguar. È stato anche questo,
inconfutabilmente, ma era molto
più di tutto questo e la prova sta qui, fra queste note, in queste
canzoni e, sopratutto, nella pervicacia con cui le abbiamo chieste a
David e compagnia noi reduci dei Big 80s che di quell’epoca siamo
stati testimoni, e da quindici anni (tanti ne sono passati
dall’inestimabile ‘Coverdale / Page’)
aspettavamo senza grandi speranze di risentire a questi livelli la nostra
musica, quella di cui un’industria musicale più stupida che
noncurante ci ha privato e che oggi ci arriva a sprazzi fra schiere di
replicanti di buona volontà e modesti mezzi. Mi resta solo un dubbio, una domanda tutt’altro che peregrina a ronzarmi nel cervello. Quanto c’è di realmente sincero nel ritorno di David Coverdale all’hard rock? ‘Restless heart’ era stato un addio al genere dato senza rimpianti, ‘Into the light’ doveva inaugurare una nuova fase della sua carriera. Ma quel disco è andato male, malissimo. E allora, il Serpens Albus è uscito dal suo letargo. Forse c’era più opportunismo nella ricetta classic rock di ‘Into the light’ che in questo ritorno all’elettricità degli anni d’oro… e potremmo domandarci quanto ce ne fosse nella conversione yankee di ‘1987’ e ‘Slip of the tongue’, per non parlare della celebrazione zeppeliniana di ‘Coverdale / Page’. Ma comunque stiano le cose, comunque siano andate ieri o l’altro ieri, resta un dato di fatto: David Coverdale ci ha sempre dato quello che volevamo, con intelligenza, buon gusto e quella punta di malizia che non guasta mai. Forse è un ruffiano, ma un ruffiano di grandissima classe. Ed io non posso che chiudere questo scritto con un consapevole ma pure assolutamente sincero: grazie, Mr. Coverdale. |