Se per la prossima estate avete in
programma un viaggio in Giappone, il vostro webmaster può suggerirvi un
sistema rapidissimo ed efficace per accattivarvi le simpatie dei sudditi
del Tenno, i quali, nonostante la proverbiale cortesia, sono
notoriamente poco inclini a trattare con i gajin
(in quanto a razzismo, tutto il fottutissimo mondo è paese). Bene: in
caso di difficoltà (uno dei più classici è quello del tassista che
non vuol prendervi a bordo del suo mezzo) vi basterà pronunciare due
semplici parole: Doug Aldrich. Immediatamente, il viso del nipponico o
della nipponica si illuminerà e vi gratificherà di un sorriso a
trentadue denti, l’individuo
prima freddissimo e scostante prenderà ad inchinarsi e ad inondarvi di
gentilezze. E tutto questo perché, nonostante la mancanza degli occhi a
mandorla e del colorito citrino, il soggetto investito delle parole
magiche vi avrà riconosciuto come uno dei loro: difatti, i giapponesi
per il nostro Doug nutrono una passione ardente e inossidabile. Perché?
Boh! Lo hanno praticamente adottato fin dalla metà degli anni 80, ai
tempi dei Lion, e tutte le sue band successive hanno avuto contratti
d’oro con la potente label locale Pony Canyon. Insomma: i giapponesi
amano Doug Aldrich, anche se tanta devozione non ha una base solidissima
su cui poggiare. Doug è un bravo chitarrista, ma certo non è un genio
né un songwriter di classe superiore. Tanti artisti molto più dotati
ed ispirati di lui sono svaniti nella nebbia o hanno appeso la chitarra
al chiodo, ma lui è sempre lì, è come Figaro, tutti lo cercano, tutti
lo vogliono, ha collezionato innumerevoli collaborazioni di prestigio ed
in ultimo è riuscito perfino ad occupare il posto di chitarrista
solista negli Whitesnake, preferito a Reb Beach – lui sì, un vero
fuoriclasse – a cui David Coverdale
ha assegnato il più modesto ruolo di chitarrista ritmico. Solo
mazzo? Non mi pronuncio, ma certo la dea bendata pare avere gli occhi
incollati in permanenza sul nostro
Doug. I Burning Rain sono stati il suo
ultimo progetto autonomo prima che ricominciasse a girovagare da una
band all’altra e si accasasse poi (definitivamente?) con gli
Whitesnake, due album usciti in Giappone nel 1999 e nel 2000 per la
solita Pony Canyon, editi poi in Europa dalla Z Records ad un anno di
distanza. Perduti per strada Kal Swan e Jackie Ramos dopo la chiusura
dell’esperienza Bad Moon Rising, Doug si rivolse al bravissimo Keith
St.John (era nei Medicine Wheel di Mark Ferrari nel loro ultimo album)
per le parti vocali mentre Alex
Makarovich (ex Steelheart)
andò ad occupare il posto di batterista (al basso rimase, dunque, Ian
Mayo, che si separava infine dal suo fratello siamese Jackie Ramos, col
quale aveva fatto coppia ritmica in ben tre bands: Hericane Alice,
Bangalore Choir e Bad Moon Rising). Probabilmente Kal Swan doveva essere
comproprietario del vecchio moniker, non si spiega altrimenti la
decisione di Doug di sceglierne uno nuovo, i Bad Moon Rising avevano un
seguito notevole e dall’uscita di ‘Opium for the masses’ erano
passati appena quattro anni. Sia come sia, Doug si presentò con una
band nuova di nome e (parzialmente) di fatto, ma la musica era
(fortunatamente) sempre la stessa dei Bad Moon Rising: per essere più
precisi, dei primi due album dei BMR, la ferocia del pur eccellente ‘Opium
for the masses’ veniva messa da parte, si tornava in gran parte
alle tematiche hard rock yankee molto Whitesnake - oriented
di ‘Bad Moon Rising’ e ‘Blood’,
ma con qualche distinguo. La voce di Keith St.John, strepitosamente
simile a quella del mai abbastanza compianto Ray Gillen (con una
discreta preferenza per sfumature più planteggianti), ed una certa
essenzialità hard blues nel chitarrismo di Doug portavano la band in più
di una circostanza in territori molto vicini a quelli battuti dai primi
Badlands, mentre su ‘Pleasure to burn’
l’identità con i BMR – in particolare, con quelli del primo disco
omonimo – diventava quasi completa, anche per la scelta di Keith St.John di
esprimersi qui su toni spiccatamente alla Coverdale. La mancanza
di un produttore titolare non penalizzava più di tanto la musica della
band (ma gli arrangiamenti sono più snelli), in compenso Doug si
assicurò per il mixaggio prima Noel Golden (che aveva prodotto ‘Opium...’)
e poi addirittura Jeff Glixmann (e il suono di un album si fa per il
cinquanta per cento al momento di mixare). ‘Burning
rain’, dunque, appariva subito una sorta di prolungamento
naturale del discorso interrotto anni prima da ‘Opium...’,
sparando con “Smooth locomotion”, “Superstar
train” e “Jungle queen” tre
belle bordate in puro stile BMR corretto al blues. “Making
my heart beat” è una notevole power ballad decisamente “Is
this love” inspired, mentre
la convulsa “Fool no more” porta con
decisione nelle badlands di Jake E. Lee e Ray Gillen. “Cherry
groove” trasla la “Custard pie” dei Led Zeppelin su un
telaio cromato e metallico: siamo praticamente al plagio, dato che la
canzone viene riletta quasi nota per nota, ma l’operazione di
trapianto – pur con tutte le riserve del caso – convince lo stesso
(e permette a Doug di non pagare i diritti d’autore a Jimmy Page...).
Ancora Badlands a più non posso su “Can’t
cure the fire”, poi “Can’t turn your
back on love” concede una pausa con una ballad sempre su base
Whitesnake (con un certo smalto alla Jeff Paris nel refrain, magari) ma
in un clima più AOR, giocato sulle acustiche ed un fondo di tastiere.
“Heaven’s garden” e “Tokio
rising” fanno il paio: di nuovo i Badlands sugli scudi, la
prima adagiata su un bel riff funk con un refrain martellante e suadente
allo stesso tempo mentre la seconda, pur impostata sullo stesso
registro, risulta più metallica e scanzonata. Chiude “Seasons
of autumn”, una cavalcata su un riff turbinoso dove si
intrecciano Led Zeppelin, House of Lords e (tanto per cambiare) Badlands.
‘Pleasure
to burn’, come detto, correggeva leggermente il tiro, le
sfumature bluesy si facevano più evanescenti, il metal americano la
faceva da padrone, in particolare su “Fireball”
e sulla serrata “Metal superman”,
colorandosi di tonalità più spiccatamente californiane con “Love
emotion”(dal coro molto sleaze), “Shot
down” (esercitazione di netta marca Whitesnake / Blue Murder) e
“Devil Money”. “Stone
cold n’ crazy” rinnova la connection
con i Badlands, quelli più ispidi e convulsi, mentre “Gotta
get it on” è un superbo hard rock bluesato che fa il paio con
“Sex Machine”, sinuosa e graffiante.
“Judgement Day” è epica e drammatica
alla maniera degli House Of Lords, mentre le ballad sono “Cherie
don’t break my heart”, ennesima (piacevole) variazione sul
chiodo fisso di Doug (non fatemi scrivere per l’ennesima volta quel
titolo...), e “Faithfully yours”, dalle
cadenze più bonjoviane. Due magnifici dischi, quindi. Album
compatti, agili e massicci insieme, senza fronzoli, fatti di chitarre
bollenti ed una voce maschia: non il massimo dell’originalità,
d’accordo, ma il feeling, a volte, fa premio su tutto il resto, ed i
Burning Rain avevano il feeling giusto per interpretare questo genere di
materiale ai più alti livelli. E, insomma, se David Coverdale ha infine
chiamato Doug negli Whitesnake, un motivo, e buono anche, ci doveva pure
essere...
Tim Karr è un altro di quelli
finiti, a torto o a ragione, nel mucchio. Uno dei tanti che nei Big 80s ebbero la loro brava occasione dalla major di turno (nel suo
caso, la EMI), vendettero poco o niente e sparirono dalla circolazione.
Per lui, il periodo di eclisse si concluse nel 1998, quando tornò a
farsi sentire con l’album ‘Everybody bleeds’
(in compagnia dell’ex Love/Hate Jon E. Love) e più recentemente con i
Trigger Daddy, assieme a Gilby Clarke. ‘Rubbin’
me the right way’ era il classico album di hard rock melodico
fine anni 80: ben confezionato (tra i musicisti che si alternano fra una
canzone e l’altra troviamo Brad Cole, Tim Pierce, Jeff Paris e Tracii
Guns), ben prodotto (da Rick Neigher), con un songwriting efficace ma
poco personale. In quest’ultimo comparto, anzi, Tim non faceva proprio
nulla per distinguersi, tutt’altro: potendo contare su una voce
abbastanza simile a quella di Jon Bon Jovi, dirigeva senza pudore la
propria musica in direzione ‘New Jersey’,
collaborando in un’occasione anche con Greg Fulkerson, membro di un
altro ensamble spudoratamente Bob Jovi oriented,
i Blue Tears: il frutto di questa cooperazione, ”Innocent
kiss”, verrà inciso anche dalla band di Fulkerson. Anche ad
un’altra canzone di questo disco, “Tonite
you’re mine”, toccò l’onore di venire coverizzata, dai
Contraband, un supergruppo (vedeva nei propri ranghi Bobby Blotzer,
Michael Shenker, Tracii Guns, Share Pedersen e Richard Black) che
prometteva scintille ma si rivelò poca cosa. L’album si apre con l’hard
yankee senza fronzoli “I’m not falling in love”,
replicato da “Sad face” e “Long
way home” in un clima più root. “Desirée”
è più melodica e bonjoviana, segnata da un bell’assolo di armonica
di Little John Cristley, mentre la title track ha un impianto bluesy di
grandissima classe. “She’s not shy”
cavalca una bella melodia maschia e anthemica, al crocevia tra il Bon
Jovy sound era ‘Slippery...’ e l’hard
melodico di matrice californiana, ricetta riproposta su “All
nite long” nel contesto di una graziosa ballad elettrica. “Tonight
you’re mine” e “Innocent kiss”
sono le tracks più sfacciatamente Bon Jovy oriented del disco,
ma riescono ad evitare qualsiasi citazione di maniera, addirittura “Innocent
kiss” potrebbe passare ad un ascolto distratto come un outtake
di ‘New Jersey’... “Time
enough for love” rende ancora omaggio a Jon ed alla sua band, ma
solo nel refrain incastonato in uno stimolante contesto bluesy con begli
spunti soul nei cori. La sensazione, è che Tim Karr avesse tutte le capacità di muoversi in direzioni meno scontate di quelle scelte per assemblare le canzoni di ‘Rubbin’ me the right way’, che resta comunque una buona collection non strettamente riservata ai fan dei Bon Jovi, ormai da molti anni orfani del loro suono prediletto e costretti a rivolgersi ad altri per ascoltare qualcosa che replichi almeno dignitosamente quanto veniva fuori da ‘Slippery when wet’ e ‘New Jersey’. Tim Karr avrebbe potuto fare di più e di meglio, forse, ma ‘Rubbin’...’ risulta comunque un disco ben più che dignitoso, prodotto e suonato con competenza e professionalità: non la fine del mondo, ma sicuramente da recuperare.
Nel
nostro genere le date fondamentali, quelle da tenere sempre a mente per
inquadrare la proposta di una band, sono: il 1981, l’anno della
pubblicazione di ‘Escape’ dei Journey,
quando l’AOR acquistò una forma definita ed un carattere preciso;
l’altra è il 1987, quando Whitesnake, Bon Jovy e Def Leppard
sbaragliarono la concorrenza nelle classifiche americane. Tra
il 1981 e il 1986, c’era da parte di molti gruppi la volontà ed il
coraggio di esplorare universi sonori personali pur all’interno dei
confini del genere. Ma quando le tre bands prima citate cominciarono a
vendere dischi a camionate, parve molto più semplice e sicuro
allinearsi ad un sound ben conosciuto dal grande pubblico e premiato da
vendite stratosferiche. Per una band non si pose più tanto il problema
di come distinguersi dal mucchio, ma piuttosto di impostare la propria
offerta lungo gli stilemi codificati dagli act di recente successo. Le
majors si affidavano più volentieri ad artisti capaci di imitare (bene o
male) le bands che facevano furore, finendo magari per ghettizzare quelli che volevano portare avanti un proprio discorso personale: meglio
uno pseudo Bon Jovi o pseudo Def Leppard che una band originale,
insomma. Non che interpreti capaci di esprimersi autonomamente siano mancati
dal 1987 in poi, tutt’altro, ma questi sono passati per la gran parte
quasi inosservati, travolti dall’alluvione di cloni che ‘1987’,
‘Slippery when wet’ e ‘Hysteria’
scatenarono. Anche bands di successo e lunga militanza finirono travolte
da questa corsa al “suono di moda”, come i Survivor ed i Loverboy.
E, naturalmente, gli Autograph. La loro è una storia emblematica, perché
nonostante la progressiva maturazione, la popolarità di questa band andò
sempre più giù. Nel booklet di questa eccellente ristampa del loro
terzo disco viene raccontata con dovizia di particolari dal solito Paul
Suter, ed è veramente triste scoprire come una grandissima band possa
venire falciata da un intrecciarsi perverso di cattive strategie
manageriali e di promozione, venendo lasciata praticamente a se stessa
da un management fiacco ed una label miope. Se l’esordio ‘Sign
in please’ vendette 700.000 copie in USA nel 1984, il
successore ‘That’s the stuff’ riuscì
a raggiungere solo le 300.000 nel 1985, mentre il presente ‘Loud
and clear’ ne mise assieme “appena” 200.000 nel 1987… e
parliamo del miglior album inciso da Plunkett e soci. La band rimase
attiva ancora per qualche tempo, lavorando a dei demo che non si
trasformarono mai in un disco (ma queste canzoni sono state comunque
pubblicate nelle raccolte postume ‘Missing
pieces’), e gli Autograph sparirono fino al 2003, quando il
solo Plunkett (l’unico rimasto attivamente nel music business, dato
che si occupa di songwriting e produzione, ha scritto canzoni anche per
il cinema e la TV, mentre Steve Lynch fa il dimostratore per una ditta
di amplificatori per chitarra e l’insegnante, Keni Richards - dopo
essere passato nei Dirty White Boy – fu costretto a smettere con la
batteria per un problema alla schiena, Randy Rand pure appese il basso
al chiodo e oggi disegna oggetti di pelle per la Harley Davidson; Steve
Isham andò a suonare le tastiere nella band di Vince Neil, poi di lui
ho perduto le tracce) resuscitò il moniker per l’album ‘Buzz’. ‘Loud
and clear’ è, ripeto, il disco migliore di questa band che ha
avuto un ruolo fondamentale nella definizione di quel suono
contemporaneamente rock e melodico nato sulle coste della California: un
lavoro di assoluta eccellenza che meritava riscontri molto superiori a
quelli ottenuti. La title track apre l’album con un intro possente che
si scioglie su un riff molto AC/DC che gratta sul pulsare delle tastiere
sfociando in uno di quei refrain divenuti un vero trade mark della band,
melodico e anthemico, colorato e diretto, in equilibrio miracoloso sulla
pulizia del coro a più voci ed i versi modulati dalla voce ruvida e
potente di Steve Plunkett. “Dance all night”
è un altro hard melodico da spiaggia, molto diretto, ben calibrato tra
chitarra, tastiere e impasti vocali (ma forse un arrangiamento un pelo
più movimentato non sarebbe stato fuori luogo). “She
never looked that good for me” ha un refrain deliziosamente
pop, mentre “Bad boy” è tosta,
sfacciata e intensa: non dico una delle cose più belle del disco perché
il disco è eccezionale nella sua globalità, ma di certo una delle mie
tracks predilette e mi ha stupito non poco leggere nel booklet del CD la
nota di Steve Plunkett che, commentando una per una le canzoni, mette
proprio “Bad boy” in ombra definendola
non proprio una delle perle dell’album... “Every
time I dream” è una power ballad in cui il clima drammatico è
sapientemente bilanciato dal ritornello morbido e romantico. Gli AC/DC
occhieggiano su “She’s a tease” o
meglio, vi fa capolino la versione melodica del loro sound che siamo
abituati ad associare a bands come Kix e Dirty Looks, solo che qui c’è
un quintale di classe in più. Un bellissimo gioco di tastiere
riverberanti segna “Just got back from heaven”,
un brano d’atmosfera e nello stesso tempo molto heavy spezzato dal
solito refrain poppeggiante. Se “Down ‘n dirty”
è l’ennesimo super anthem (stavolta con qualche sfumatura glam), “More
than a million times” si rivela un’altra finissima stesura,
un melange assolutamente perfetto di melodia ed energia, mentre “When
the sun goes down” chiude il sipario innestando un coro
semplice ed efficace su un telaio pesante e bluesy. Assieme ai Black’N’Blue, gli Autograph sono stati - a mio modestissimo e sempre opinabile parere - la più strepitosa band dell’hard melodico californiano, quel genere in equilibrio tra pop, rock e metal che pochi, pochissimi hanno saputo maneggiare con l’ abilità e l’eleganza di questo gruppo che scelse il proprio monicker per assonanza con la “Photograph” dei Def Leppard, una vera e propria dichiarazione d’amore per un modo di fare musica che la band ha praticato ai massimi livelli concepibili.
Se
i Mötley Crüe non figurano tra le vostre bands preferite, potete anche
smettere subito di leggere. I Cats In Boots, difatti, non avevano
praticamente altro punto di riferimento che la band di Nikki Sixx (‘Theatre
of pain’ era, soprattutto). Il loro tratto personale era una
certa propensione verso atmosfere bluesy e rock’n’roll che però non
entravano nel sound della band fino al punto da giustificare una
inclusione di questo album nell’HARD BLUES DEPARTMENT: gli assoli,
qualche lick di chitarra qui, un po’ di slide là… niente di più.
Una vera festa per gli amanti del metal californiano di marca Crue,
anche se i Cats In Boots non finivano comunque per apparire come
controfigure di Nikki e compagnia, grazie soprattutto al singer, Joel
Ellis, un autentico talento vocale, con un’estensione sconfinata ed
una capacità interpretativa sopra la media che qui ha però
generalmente i tratti più monocordi del tipico canto sleaze molto Vince
Neil inspired. Ellis fece molto meglio e di più nel progetto successivo
a cui partecipò, gli Heavy Bones, band di caratura infinitamente
superiore ai Cats In Boots (di cui parleremo presto) ma anche qui ha
modo di spiccare, sia pure su un tessuto molto ispido e violento. Questa
quasi totale dipendenza dal modello Crüe si poteva forse spiegare col
fatto che la mente creativa dei Cats In Boots era il chitarrista Takashi
O'Hashi, giapponese come il suo collega al basso, Yasuhiro Hatae: Joel
Ellis e l’altro yankee del gruppo, il batterista Randy Meers (ex Black
Oak Arkansas), non davano alcun input musicale, Ellis si limitava a
scrivere i testi delle canzoni e basta. La scarsa originalità dei
sudditi del Tenno è un fatto quasi proverbiale: bravissimi a copiare e
riprodurre ma costituzionalmente incapaci di espressione autonoma, ed i
Cats In Boots parevano la miglior prova vivente di questo pur
discutibile assioma. ‘Kicked & klawed’
resta comunque un buonissimo disco di metal californiano, composto da
dodici canzoni che non temono confronti con la pur agguerrita
concorrenza, fin dall’iniziale “Shot Gun Sally”,
che mette immediatamente a fuoco la proposta della band con un andamento
che più Crüe non si può e l’assolo slide di O'Hashi. A seguire,
c’è il giro molto rock’n’roll (con qualche sfumatura blues) di
“Nine lives (save me)”, su cui spiccano
le acrobazie vocali di Joel Ellis. La selvaggia “Her
monkey” rimanda alle prime cose degli L.A.Guns, mentre sulla
molto sleaze “Whip it out” sento tracce
di Ratt e (forse perché si parla di fruste, argomento molto caro a
Taime Downe e compagnia) Faster Pussycat. “Long,
long way from home” torna a parlare la lingua dei Mötley Crüe,
martellante, decisamente glam, ma con un cantato che a tratti sconfina
nello schizofrenico. “Coast to coast”
è un up tempo veloce e beffardo, “Every sunrise”
si rivela quasi una power ballad, oscura e fascinosa, tagliata da un
bell’assolo dalle tinte bluesy. Da urlo “Evil
angel”, dove i Crüe presi a modello sono piuttosto quelli di
‘Girls, girls, girls’, ritmata, puro
metal da spiaggia. “Bad boys are back”
comincia con lo stesso riff di “Evil angel”,
la matrice è sempre quella, ma la canzone è più melodica e sleaze,
magari un po’ Keel nel refrain che scorre su una chitarra funk e
assolo ancora decisamente rock’n’roll. “Judas
kiss” sembra la versione Cats In Boots di “Smoking in the
boys room”, movimentata e bluesy, con un assolo di armonica (la
suonava Ellis) e chiude “Heaven on a heartbeat”,
veloce e diretta. Se
ricordo bene, questo disco non venne distribuito in Europa, ma solo in
USA e Giappone. Era stato preceduto da un album demo, ‘Demonstration
- East meets west’, pubblicato nel 1988 da una piccola label
giapponese, e seguito nel 1999 da ‘Last works’,
piuttosto lontano dalle atmosfere di ‘Kicked
& klawed’. Ciò nonostante, non è affatto una rarità, ed
è reperibile a quotazioni ragionevoli su eBay. Per chi ama il metal
californiano, un ascolto imprescindibile. |