Molti
conoscono il nome di questa band solo per un motivo: il suo cantante,
Steve Augeri, è diventato il successore di Steve Perry nei Journey. Ma
questa è veramente l’ultima
ragione per ricordarsi dei Tall Stories. Molto
si è parlato della mancanza - reale o presunta - di “originalità”
fra le band di hard rock in generale e quelle di AOR in particolare. Non
si può negare che una parte consistente degli act del nostro genere
preferisca la facile via del ricalco di stilemi inventati da altri:
quanti pseudo-Bon Jovi, pseudo-Def Leppard e pseudo-Journey esistono
nell’universo del melodic rock? Naturalmente, non c’è nulla di male
a far girare la propria musica sempre attorno a quei soliti tre accordi,
l’innovazione fine a se stessa lasciamola all’avanguardia, all’art
rock, a quelli che fanno dischi per un pubblico di sussiegosi
intellettuali che s’attizzano per qualunque cosa porti il modaiolo
prefisso “post” (a voler essere acidi, potremmo riformulare
l’ultimo periodo in questo modo: ai furbi che fanno dischi per i
fessi. Un nome? Uno solo? Detto a voce neanche tanto bassa? Brian Eno!
Un altro nome? John Zorn!!). Il rock gira attorno ad altre cose:
l’energia, il feeling, la capacità interpretativa. Ma non si può
neppure liquidare il discorso “originalità” con un lapidario: non
ne abbiamo bisogno. Si può - si deve - cercare di fare qualcosa di
diverso, qualcosa che stacchi in qualche modo quanto proposto da quello
che altri hanno già fatto, ma che nello stesso tempo sia perfettamente
riconoscibile ed identificabile all’interno del nostro genere. Basta
poco, in fondo. E quel poco lo fecero i Tall Stories, che pubblicarono
uno dei più bei dischi nella storia del rock melodico senza fare
ricorso ad un uso massiccio di carta carbone, curando da soli il proprio
giardino anziché trapiantarci germogli rubacchiati a destra e a manca.
Non che in ‘Tall stories’ mancassero riferimenti a quanto altri
avevano già suonato, ma era palese che la band non forzava la mano in
questa direzione e preferiva cercare da sola piuttosto che farsi guidare
da numi tutelari più o meno illustri. Nati
nel 1987 a New York, arrivarono al disco solo nel 1991, dopo il consueto
periodo di assestamento che vide transitare nei ranghi della band anche
Anthony Esposito (poi nei Lynch Mob) e Michael Cartellone (Damn Yankees).
Accanto a Steve Augeri c’erano Jack Morer (chitarra), Kevin Totoian
(basso) e Tom DeFaria (batteria). Salvo Morer, tutti gli altri membri
della band avevano trascorsi professionali abbastanza intensi: Steve
Augeri aveva fatto una quantità di colonne sonore per cinema e TV ed
era stato corista per il Michael Shenker Group, DeFaria aveva suonato
con Etta James, Blood Sweat & Tears ed i Company of Wolves (band di
cui parleremo presto), mentre Totoian aveva collaborato con Edgar Winter
e Joe Cocker. Messi sotto contratto dal management dei Foreigner,
ottennero finalmente un deal con la Epic e entrarono in studio con Frank
Filipetti (ovviamente, potremmo dire, dato che Filipetti era all’epoca
il produttore dei Foreigner). “Wild
on the run” è l’atto di apertura di un disco in cui nulla è
banale o scontato, una track fascinosa dominata da quelle grandi
estensioni melodiche che caratterizzavano i dischi di Diving For Pearls
e Giant tese su un riff contemporaneamente duro e sinuoso. “Chain
of love” ha un coro che rimanda pur senza alcuna citazione ai
più classici Journey su un riff di funky tecnologico in un’atmosfera
degna dei Beggars & Thieves. “Crawling back”
ha un’intro acustica, echi zeppeliniani, un refrain splendidamente
intenso, Steve Augeri planteggia sfacciatamente (e con che classe!):
tutto molto Diving For Pearls, ma in un clima decisamente più fisico.
“Sisters of mercy” va ancora più
oltre, con un riff pulsante, un coro con vaghe tinte rhythm’n’blues:
come degli U2 hard rock? Il soul, il miglior AOR canadese, i Giant si
fondono in “Stay with me”, segnata in
maniera addirittura geniale da un riff
che entra solo a metà canzone e va poi a chiudere le danze,
mentre “She waits” ha qualche sfumatura
prog come i Journey prima maniera. Scatenatissima è “World
inside you”, con elementi funky e rhythm’n’blues trascritti
in un cromato telaio hard rock un po’ alla Dan Reed Network. “Restless
ones” è una ballad elettroacustica che mi fa pensare a dei
Riverdogs in versione AOR, “Never enough”
ha un tempo quasi boogie e ombre Foreigner e Survivor. “Close
your eyes” è pura materia Zeppeliniana innestata su una
partitura AOR, quasi come i Bonham ma senza la carica drammatica e
solenne della band del figlio di Bonzo: divina. Critiche ottime ed un tour nei club come supporter per i Mr.Big non bastarono a spingere il disco nelle classifiche in un momento storico infelice e la band si dissolse nel disinteresse generale, con Augeri che prima si unì ai Tyketto per ‘Shine’, poi appese il microfono al chiodo perché cantare pop o alternative non gli interessava, e quando Neal Schon lo chiamò al telefono per chiedergli di diventare il nuovo cantante dei Journey, lui naturalmente pensò che fosse tutto uno scherzo...
Nello
special di MTV “Heavy: the Story of Metal”, trasmesso di recente,
c’era anche Jani Lane: imbolsito, occhialuto, con qualche chilo di
grasso in più e di capelli in meno (non che gli altri protagonisti
dei Big 80s se la passino meglio di Jani: Ronnie James Dio sembrava
una mummia stuccata e imbellettata; Toni Iommi s’è fatto stirare
le rughe al punto che la sua pelle sembra stia per rompersi tanto è
tesa, pare carta di riso spianata col ferro a vapore; Sebastian Bach
è ingrassato e appesantito, e della sua bellezza angelica non è
rimasto che un pallido ricordo; Kevin DuBrow ha fatto un trapianto di
capelli o ha comprato una parrucca; Vince Neil ha messo su una
pappagorgia degna di Aldo Fabrizzi... Nikki Six e Tommy Lee, però,
sono sempre in gran forma, come pure Frankie Banali e Stephen Percy;
Dee Snider è invecchiato bene, aveva un’aria talmente cazzuta,
mentre Brett Michaels pareva la controfigura di Johnny Depp versione
capitan Sparrow... ma quello meglio conservato era il più anziano di
tutti, Geezer Butler: praticamente identico a vent’anni fa, e sì
che dovrebbe essere sotto i sessanta... Fa i bagni nella formalina o
cosa?). I perfidi responsabili del programma (su cui ci sarebbe molto
da discutere, per l’immagine ambigua data del nostro genere ed aver
permesso ad un illustre idiota come Ian Christe di dichiarare che l’
hair metal – quanto odio quest’etichetta, è talmente
insultante... – si basava tutto sui videoclip, gli effetti speciali
ai concerti e l’avvenenza dei bassisti...) hanno concentrato il suo
intervento sulla canzone che dà il titolo a quest’album, e lui, con
un’aria mesta e stanca, ha raccontato che quelli della CBS gli
dissero che al disco mancava un bel singolo e allora lui scrisse “Cherry
Pie”, e da quel momento lui è stato perseguitato da questa
canzone, lui era diventato “Cherry Pie”,
dovunque andasse, qualunque cosa facesse era sempre “Cherry
Pie”, non s’era mai pentito tanto di aver fatto qualcosa
come scrivere “Cherry Pie”... Ora, a
parte il fatto per nulla trascurabile che, in realtà, “Cherry
Pie” l’hanno scritta i Def Leppard, dato che il refrain
della song è palesemente un riarrangiamento di quello della “Pour
some sugar on me” della band di Sheffield, mi pare curioso che un
musicista si lamenti del successo di un pezzo diventato così popolare
ed amato. Forse c’entra il fatto che i Warrant tentarono già con il
successivo album ‘Dog eat dog’ di togliersi di dosso l’etichetta
di party band e reinventarsi nel nuovo clima musicale creato dal
grunge. Dei
gran figli di buona donna, i Warrant... Ultimi arrivati fra i party animals, si conquistarono immediatamente un seguito
invidiabile andando a rimpiazzare i Poison nel cuore dei più sfrenati
seguaci del metal festaiolo. La band di Brett Michaels cercava senza
convinzione di rifarsi il trucco con ‘Flesh
& blood’ e i Warrant arrivarono a cacciarli a ginocchiate
nella schiena dagli stereo che rimbombavano a tutto volume il sabato
sera, complice anche il supporto forsennato della propria casa
discografica che non mancò di attirargli le solite accuse di
raccomandazioni e bustarelle a MTV. Certo è che i Warrant non nascono
da un giorno all’altro, anzi, la loro storia è lunga e
intricata: comincia nel 1984, la band viene fondata dal vocalist Adam
Shore, che poi andrà via per mettere assieme col drummer Max
Asher (anche lui nella line up originale) gli Hot Wheelz. Ancora prima
dell’ingresso di Jani Lane, i Warrant si erano comunque fatti
conoscere in California aprendo (fra gli altri) per Ted Nugent, Odin,
Hurricane, Stryper e Black’n’Blue. Joey Allen entra nella band
solo nel 1987, in coincidenza con la registrazione di un demo
finanziato dalla Paisley Park, la compagnia di Prince (cosa avesse però
in mente il genietto del funky per i Warrant non si sa). Ma il
movimento attorno alla band sta crescendo, pare che debbano firmare
per la A&M ma è la Columbia a vincere l’asta e Jani, per
festeggiare il contratto major, va a comprarsi una Corvette e la
sfascia contro un muro nel più classico stile del rock Hollywoodiano. ‘Dirty
rotten filthy stinking rich’ si rivela però un esordio
frettoloso anche se ben accettato dal pubblico (numero 10 nella
classifica di Billboard, grazie anche a tour con Poison, Kingdome
Come, Queensryche e Cinderella), ma la bomba esplode con ‘Cherry
pie’, e per un paio d’anni i Warrant sono sul trono più
alto del metal melodico americano assieme a Firehouse,
Steelheart e compagnia, prima che il grunge arrivi a spazzare via
tutto ciò che è fun dalla vita dei ragazzi yankees. In Europa, i Warrant rimangono
invece un articolo d’importazione, poco amato e meno ancora
compreso, come già era accaduto ai Poison, anche se pure loro,
proprio come i Poison, con questo secondo album tentano di mettere
assieme qualcosa che li allontani dagli stereotipi cavalcati in
precedenza. E ci riescono molto meglio dei loro (presunti) maestri,
dimostrando una maturità nel songwriting francamente inaspettata,
anche se larga parte del merito per la riuscita di ‘Cherry
Pie’ spetta a quel mago della produzione che risponde al nome
di Beau Hill, il quale confeziona assieme alla band (e a Mike Slamer,
convocato da Beau per confezionare qualche bell'assolo di chitarra) degli
arrangiamenti perfettamente bilanciati tra il vigore anthemico a cui i
Warrant non vogliono (ancora) rinunciare e soluzioni di una
raffinatezza incantevole, e tutto con una concisione che già
all’epoca era insolita, le canzoni durano spesso meno dei canonici
tre minuti e fluiscono l’una nell’altra praticamente senza pause. Della
title track abbiamo già detto, ma bisogna comunque rimarcarne il
grande ritmo, quel refrain che si stampa nel cranio già al primo
ascolto: è un piccolo capolavoro che troverà molti estimatori anche
fra i musicisti, dato che è stata ricalcata con esiti più o meno
felici da parecchie altre band (tanto per fare un nome, Paul Sabu con
la sua "Kiss my boomerang"). Dimenticavo: l’assolo di chitarra è di CC De
Ville, ma è veramente facile dimenticarlo... “Uncle
Tom’s cabin” doveva essere la title track, in principio:
intro acustico, echi root, qualcosa in bilico tra i Motley Crue e Bon
Jovi; mentre la band guarda al passato con convinzione interpretando
la “Train, train” dei Blackfoot,
proponendone una versione molto fedele al suo spirito Southern, con
tanto di Hammond e armonica. Ma anche “Love in
stereo” ha qualche flavour root alla maniera dei Great White
periodo ‘Twice shy’ in un contesto
metallizzato e con un coro molto glam (o molto Poison, come
volete...), valorizzato da un arrangiamento esemplare in cui spicca il
piano boogie. Se “You’re the only hell your
mama ever raised” è tutto quello che i Poison non sapevano o
volevano più fare, “Sure feels good to me”
varia l’approccio, un fast festaiolo (sorry
per lo squallido gioco di parole) che ricorda a tratti i Kingdome Come
di ‘In Your face’, e non è un caso,
dato che co-autori del pezzo assieme a Jani Lane sono Danny Stag e
Johnny B. Frank, ossia la chitarra solista ed il bassista della band
di Lenny Wolf. Su “Bed of roses”
spuntano anche i Journey, ibridati con le solite suggestioni glam,
mentre “Mr. Rainmaker” è un bel rock
metallizzato. Le power ballad sono “I saw red”,
con vaghe eco di Great White e Cheap Trick, e “Blind
fate”, più lineare ma forse anche più ispirata. Il top, per
me, resta “Song and dance man”, che
mi ricorda gli Hurricane nei loro momenti più d’atmosfera e
qualcosa dei Cult di ‘Sonic Temple’ o
‘Ceremony’, il refrain maschio e
sfacciatamente ispirato a quello della “Wanted man” dei Ratt (ma
Jani, nel coro, sembra quasi David Coverdale!) si incunea esplodendo
nel clima malioso e suadente della song senza intaccarlo: superba.
Chiude l’album la boutade
“Ode to Tipper Gore”, un collage dei
“fucking”, “shit”, “ass”, “blowjob” lanciati da Jani
durante i concerti e dedicato alla moglie di Al Gore, fondatrice del
PMRC, l’organizzazione moralista che appiccicava sulle copertine gli
adesivi che dovevano mettere in guardia i genitori informandoli del
fatto che i loro bimbi buoni & belli compravano dischi pieni di
parolacce e si rivelò invece, come testimoniato da Nikki Sixx in uno
degli interventi nel programma televisivo di cui sopra, un formidabile
veicolo pubblicitario, così che diventò una sorta di punto d’onore
poter fregiare le proprie cover di quel bollino rettangolare bianco e
nero, perché se il PMRC non ti aveva messo all’indice, allora che
cavolo di band oltraggiosa eri? ‘Cherry
Pie’ vendette tre milioni di copie arrivando al numero 7
della classifica di Billboard, ma ‘Dog eat dog’,
suo feroce e metallico successore, riuscì a stento a raggiungere due
anni dopo il numero 25. Licenziati dalla Columbia, i Warrant non
seppero fare di meglio che strizzare l’occhio al grunge con ‘Ultraphobic’
e poi con ‘Belly to belly’, usciti
nel 1995 e ’96 rispettivamente per la MFN e la CMC International.
Bisogna aspettare il 2006 per vedere nuovo materiale di studio (‘Under
the influence’, uscito nel 2001, era un cover album), con il
buon ‘Born again’, che vede il
redivivo Jamie St. James prendere il posto di Jani Lane (a cui gli ex
compagni proibiranno di esibirsi con la propria band sbandierando il
logo Warrant) ed un ritorno al melodic rock, con ovvie e
nient’affatto sgradevoli nuances
Black’n’Blue. Che la band sia tutt’altro che dimenticata in
patria è dimostrato dalla ristampa che l’ingrata Columbia ha
riproposto nel 2004 di ‘Cherry Pie’ e
‘Dirty...’ con la solita aggiunta di
bonus tracks, e comunque i Warrant non hanno praticamente mai smesso
di andare in tour (la CMC, nel 1997, gli pubblicò anche un live), in
questo momento dovrebbero essere in giro con gli L.A. Guns ed i
Firehouse negli States per una serie di show battezzata “80s
Invasion”. La vecchia guardia muore, ma non si arrende, per citare
il generale Cambronne, eroe delle guerre napoleoniche. La tradizione,
però, vuole che il generale abbia risposto alla richiesta di resa
delle truppe inglesi usando una certa parola, una di quelle che Jamie
pronuncia (nella propria lingua, of
course) nella sua ode
alla moglie di Al Gore. E allora, parafrasando, alle ripetute
richieste dei punkalternativi di rassegnarci alla sconfitta, di
tirarci indietro e lasciargli il campo, rispondiamo anche noi una sola
parola: merde!
La
storia del rock non è particolarmente ricca di quelli che, citando il
sommo Dante, si possono definire “gran rifiuti”, ovvero: una band
importante si ritrova con un vuoto nel proprio organico, e offre il
posto vacante a qualcuno che però risponde: no, grazie. Se il
posto è
poi
quello di cantante
- che in genere rappresenta il front man
del gruppo, l’uomo immagine - i rifiuti divengono ancora più scarsi
ed improbabili. Se poteva esserci una logica nella rinunzia di Jimmy
Barnes a diventare il cantante dei Deep Purple (la carriera
internazionale di Jimmy, all’epoca, pareva in piena ascesa, mentre
quella dei Purple era già cristallizzata), clamoroso fu il “no”
che John Bush rispose ai Metallica, quando, all’epoca di ‘Kill
them all’, James Hatfield accarezzò l'idea di
dedicarsi esclusivamente alla chitarra ritmica: il fatto che questo
rifiuto fosse motivato solo dalla volontà del cantante di non
lasciare gli Armored Saint aggiunge un’incalcolabile dose di humour
ad una vicenda che immagino sia il tema principale degli incubi di
John (il quale, fattosi finalmente furbo, si unirà poi – ma troppo
tardi per goderne i frutti dal punto di vista economico – agli
Anthrax). Anche
Mitch Malloy entra nella (poco) ambita lista di coloro che dissero di
no ad una band famosa. Era stato prescelto da Eddie in persona come
nuovo singer dei Van Halen al posto di Sammy Hagar, aveva anche
cominciato a lavorare con la band, quando la temporanea reunion con
David Lee Roth lo indusse a fare marcia indietro. Ebbe paura del
confronto con il grande istrione in persona e Eddie, alla fine,
assunse Gary Cherone ed a Mitch non rimase che mangiarsi le mani. Gli
sarebbe bastata una settimana come loro membro effettivo per vivere
tutta la vita di rendita, e invece... Il
suo primo album, Mitch Malloy lo incise nel 1992, un fulmine a ciel
sereno nel firmamento già pieno di nuvole dell’AOR americano. Anche se
aveva suonato (la chitarra) e cantato (con una voce maschia e potente,
come versione una più rude del miglior Paul Rodgers)
fin da ragazzino, solo alla non verdissima età (almeno per il rock)
di ventotto anni riuscì ad assicurarsi un contratto e ad esordire
come solista. La BMG doveva avere molta fiducia in lui, dato che per
registrare questo disco non badò a spese, pagando a
Mitch uno stuolo di session men prestigiosi: Mickey Curry e
Hugh Mc Donald (la sezione ritmica di Bryan Adams, insomma) per
batteria e basso, Michael Thompson e Kevin Dukes alle chitarre, C.J.
Vanston alle keys. Per la produzione venne chiamato Arthur Payson, e
colgo quest’occasione per precisare che non è affatto vera la voce
che vuole questo nome sia semplicemente uno pseudonimo che Desmond
Child usa per firmare i suoi lavori di produttore. Payson (che ci
tiene sempre a firmarsi “sir”...) è stato per anni il suo
ingegnere del suono, prima di mettersi in proprio. Non so immaginare
da cosa sia nata questa storiella, forse la presenza contemporanea dei
due (uno come songwriter, l’altro come ingegnere e produttore) su un
gran numero di dischi ha acceso la fantasia (malata) di qualcuno e la
chiacchiera è diventata mito... Anche su quest’album c’è la
firma di Child, ma solo come co-autore di un brevissimo stacchetto,
una ventina di secondi di carillon che non a caso si intitola “Music
box”, e della splendida “Cowboy and
the ballerina”. Mitch, in un' intervista di qualche anno fa,
dichiarò che il buon Desmond, all’epoca, aveva un modo di fare
talmente odioso e arrogante che quei due pezzi furono tutto quanto lui
riuscì a trarre da una collaborazione troncata sul nascere, così che
il songwriting del disco lo condivise con Marck Ribler e Tim Wheeler. Apre
“Anything at all”, un bel rock
metallizzato alla Bryan Adams, si prosegue con il solido AOR sfumato
di rhythm and blues (un po’ alla Hurricane?) “Mission of love”. “Nobody
wins in this war” è la prima, autorevole power ballad,
mentre “Over the water” è un blues
cadenzato, contemporaneamente levigato e piccante. “Problem
child” è una rude scheggia acustica, “Stranded
in the middle of nowhere” un esercizio di AOR in stile
Foreigner, poi – dopo la facezia “Music box”
– arriva “Cowboy and the ballerina”,
squillante hard blues Aerosmithiano con tanto di fiati (veri) e piano
boogie, dove Mitch intona il refrain in coro con Bekka Bramlett. “Our
love will neve die” è una power ballad vagamente Bonjoviana,
la dinamica “Forever” fonde Giant,
Bon Jovi e Bryan Adams e la conclusione è affidata alla stratosferica
“Mirror, mirror”, ballad tutta
chitarra acustica e tastiere. ‘Mitch Malloy’ fu un buon successo di vendite e critica, al punto che Mitch si montò la testa: ritenendosi già maturo per abbordare il pubblico di Michael Bolton, fece del suo secondo album ‘Ceilings & the walls’ nient’altro che una raccolta di ballatone strappalacrime che gli fecero perdere in un soffio i favori del suo pubblico ed il contratto major. Nel 1995 addirittura Mitch pubblicò un disco country, anche se in edizione limitata, ma dopo la delusione Vanhaleniana, ci fu il ritorno al rock nel 2001 con ‘Shine’, e più di recente l’album dei Fluid Sol, di cui è anche produttore, tutti lavori improntati a sonorità abbastanza moderne che ci inducono a credere ‘Mitch Malloy’ sia destinato a restare una stella solitaria, un momento irripetibile e definitivamente archiviato dal suo autore.
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