Ed eccoci giunti al terzo vertice di quel triangolo rigorosamente equilatero che costituisce il top assoluto (almeno per me) che l’AOR ci abbia mai dato. Dei Bad English e degli House of Lords abbiamo già abbondantemente trattato, ed ora tocca ai Giant. Se ho atteso tanto prima di stendere queste note non è stato per inerzia o indecisione. Il fatto è che il “mestiere” di recensore o - perdonate il tono pomposo - critico è più infame di quanto sembri, sopratutto quando ti costringe ad osservare con l’indispensabile oggettività e disincanto qualcosa che ti ha sempre colpito dritto al cuore. Tutti noi abbiamo band che sentiamo nostre, nostre e basta. C’è una sorta di feticismo che ci lega a doppio filo a certi CD o vinili, dandoci la sensazione che quella copia e solo quella sia nostra e che un’altra non può, semplicemente non può essere uguale alla nostra. La mia copia di ‘Slip of the tongue’ degli Whitesnake, tanto per fare un esempio, con la sua custodia tutta graffiata, il booklet con al centro il segno ingiallito del mio pollice che l’ha stretto innumerevoli volte, non la baratterei per tutto l’oro del mondo. Giuro: sarebbe come vendere l’anima al diavolo. I dischi dei Giant fanno parte di questa categoria eletta e ristrettissima. Dischi che ti parlano ogni volta che li prendi in mano, ricordandoti come e quando sono entrati nel tuo mondo, il momento esatto in cui hai posato gli occhi su quella copertina, hai strappato l’involucro di cellofan, hai preso quel dischetto luccicante o quel piattone di vinile nero e l’hai infilato nel lettore o posato sul piatto. E poi play, e la tua vita, in un certo modo, non è più stata la stessa.
* * * Riassumere, anche soltanto per sommi capi, la carriera musicale di questi quattro signori è impresa impossibile. In particolare, Dan Huff ed Alan Pasqua si può tranquillamente affermare che hanno collaborato con TUTTI. Se volete farvi un’idea del loro curricul vitae vi offro due link (http://www.alanpasqua.com/discography.htm, http://members.aol.com/guitarron/dannhuff/dannhuff.htm), poi divertitevi pure voi a contare gli artisti con cui hanno suonato o che hanno prodotto (e il passato del bassista Mike Brignardello e del batterista David Huff - fratello di Dann - non è certo trascurabile; parentesi nella parentesi: non c’è nessun legame di parentela fra Dann e David e quel Jim Huff che fu chitarrista dei canadesi The Works/Wall Of Silence). Per una certa critica, questo genere di pedigree rappresenta tutt’altro che un titolo di merito. Quelli convinti che la musica rock sia un fatto di energia ed istinto, un affare di ventenni in perenne stato di delirium tremens ghiandolare che pestano su delle Telecaster accordate alla meglio e non sono capaci di leggere neppure una tablatura di chitarra non possono che considerare una band come i Giant (o qualsiasi altra band formata da persone dotate di una tecnica strumentale poco più che decente) una truffa ai danni dello spirito del rock’n’roll. Dai Manic Street Preachers agli Oasis, dai Radiohead ai Queens of Stone Age, dagli Strokes fino ai nuovi consacrati Franz Ferdinand, pare che la formula sia sempre quella: facce imberbi, molta attenzione al look, un po’ di frastuono in sottofondo, ed ecco la nuova sensazione, la grande promessa, il sacro fuoco che si riaccende... Ma per quanto? Quattro, cinque anni, il tempo che sulle facce delle divinità di turno la barba si faccia un po’ più spessa, il look invecchi e le canzoni si rivelino finalmente per quell’abominevole accozzaglia di scemenze o imperizie che in realtà sono... Forse, quell’Adult nel nostro acronimo preferito va letto in senso più lato di quanto colui che ebbe il merito di coniarlo lo intendeva: musica per gente matura, indipendentemente dal puro dato anagrafico, che ha travalicato tutte le suggestioni giovanilistiche da sempre alla base dell’immaginario rock, i suoi miti così stupidi e nello stesso tempo così comodi per un’industria discografica che ha modellato i propri ritmi creativi sul bisogno adolescenziale di crearsi feticci ed eroi di carta, figure bidimensionali da appallottolare e gettare nel cestino quando quegli adolescenti saranno finalmente (almeno per il calendario) persone adulte ed a ritagliarne immediatamente di nuove per la generazione arrivata a prenderne il posto. Il fatto poi che anche qualche quarantenne possa essere mosso all’entusiasmo di fronte all’icona di turno, non dovrebbe meravigliare nessuno. La malattia più grave della nostra epoca non è l’AIDS, ma il complesso di Peter Pan. E tanti, troppi continuano a cercare l’Isola Che Non C’è, inseguendola attraverso film, libri, esperienze che hanno quale denominatore comune solo il desiderio più o meno inconscio di fuggire una realtà sgradevole, convinti che da qualche parte ci sia qualcosa di meglio che aspetta solo loro per realizzarsi. E questo mi sembra molto più osceno di qualunque testo mai scritto dai WASP o dai Motley Crüe.
* * * ‘Last of the runaways’ uscì quasi in sordina, senza praticamente alcun battage pubblicitario a spianargli la strada. Gli aficionados dell’AOR potevano collegare quei nomi scritti sul retro copertina ad appena un paio di band non certo conosciutissime (Dan Huff aveva fatto parte in pianta stabile dei White Heart, mentre Alan Pasqua aveva contribuito all’unico disco degli I-Ten), poi c’era il nome di sua santità Mark Spiro che figurava come songwriter assieme alla band in sette delle undici canzoni del disco, e infine la produzione era curata da quell’architetto di suoni cromati che era Terry Thomas. Chi era addentro al genere, insomma, poteva già sospettare qualcosa... ma non prevedere una canzone come “I’m a believer”. Ricordi... Infilo le cuffie, la puntina che scivola lungo il solco di vinile ed erompe quel solo enorme di chitarra, poi il battito delle casse, quel riff... Sarebbe bastata la qualità audio a farmi schizzare dalla sedia. La ricchezza e la potenza del suono erano e rimangono ancora oggi stupefacenti (e le avrei apprezzate ancora meglio dopo aver messo le mani sul CD), ineguagliati. Pare che nessuno produca più in questo modo, forse la colpa è del digitale (‘Last of the runaways’ venne registrato in analogico), forse c’è tutto un universo di timbriche ed effetti che è stato messo in naftalina, ma i dischi oggi suonano più freddi, rarefatti, con il rumore di fondo se n’è andato il calore, c’è come un velo di brina, una patina di condensa ghiacciata che avvolge la musica dei nostri giorni, e a volte la fa risplendere, ma solo di riflessi crudi che paiono scaturiti dalla luce di una lampada al neon. Naturalmente, ‘Last of the runaways’ non era fatto soltanto di timbriche bellissime e suoni lussuosi. C’era la forza di un songwriting ispirato che aveva come punti di riferimento sopratutto i Foreigner, i nuovi Bad Company, ed una band canadese che nel 1987 aveva licenziato un capolavoro di cui pochi s’erano accorti, i Refugee di ‘Burning from the inside out’ (a proposito: standing ovation a quell’etichetta che ha pensato bene di ristamparne solo il primo album, un disco nella media, senza infamia e senza lode, lasciando invece questo masterpiece nell’oblio...). Ma tutte queste fonti venivano amalgamate dalla band che riusciva nell’impresa di forgiare un proprio sound, più maschio e meno malinconico di quello dei Foreigner, meno anthemico e più raffinato di quello dei Bad Company, vario e policromo, suadente e aspro, potente e carezzevole... un collage senza sbavature o dominanti di colore, dove l’esecuzione vale quanto l’opera stessa. “I’m a believer” è forse la più gigantesca opener nella storia dell’AOR, ma non ha nulla di solenne, tutt’altro: è agile, spettacolare senza essere anthemica, il coro ha addirittura una base soul... E tu magari credi che questo sia il top, non è possibile che la band riesca ad esprimersi ancora su questi livelli, e invece parte subito “Innocent days”... Chissà quante volte avrete letto di musica per le highways assolate, di canzoni fatte apposta per essere ascoltate nello stereo di una cabrio lanciata su un nastro d’asfalto fra le immensità di spazi sconfinati che solo gli americani possono godersi, quell’immaginario immortalato e trasfigurato dai Drive She Said nella copertina del loro primo album: “Innocent days” è la canzone per quelle corse sfrenate e senza fine, il titolo dell’album è uno dei suoi versi: we’re the last of the runaways, siamo gli ultimi fuggitivi, la strada è nostra... “I can’t get close enough” riesce a coniugare all’interno dello stesso telaio un riff d’acciaio, vocals che passano con assoluta disinvoltura dai toni più decisi a quelli più suadenti, un bridge d’atmosfera ed un clima anthemico. “I’ll see you in my dreams” si può accostare a “Time stood still” dei Bad English: nel senso che, se quella - come sono incrollabilmente convinto - era la ballad perfetta, questa è la power ballad perfetta. La tensione, la pura forza emotiva di questa canzone non lasciano scampo, è un crescendo straordinario che riassume tutti i caratteri del nostro genere: la vocalità maschia, il ruggito delle chitarre, quel finale grandioso... “No way out” è un giro a centottanta gradi, una piroetta che appare quasi una prova di forza della band (o solo un capriccio di chi ha deciso la scaletta dell’album?): dopo una ballad tanto drammatica, irrompe un hard melodico dalle sfumature rhythm’n’blues, raffinatamente scanzonato (il testo è addirittura spassoso), le invenzioni della chitarra di Dan Huff sono modulate da questo clima leggero, gli interventi dell’hammond di Alan Pasqua spandono un morbido calore blues. “Shake me up” è solida, hardeggiante ma sempre tramata di melodia vincente, “It takes two” un’altra power ballad di classe superiore, “Stranger to me” alterna intermezzi all'insegna dell'atmospheric power ad un refrain quasi anthemico, “Hold back the night” è più decisa, diretta, ma con un fantastico coro dalle sfumature pomp, “Love welcome home” una ballad che mutua l’estensione melodica sconfinata dal miglior FM rock innervandola di chitarre affilate; “The big pitch” è il colpo di coda finale, un hard rock diretto e quasi ispido. Tre anni dopo, nel 1992, 'Time to burn' segnava un piccolo cambiamento di rotta. Non c’era più Mark Spiro tra i songwriters, sostituito da Jim Vallance e Van Stephenson buonanima. La produzione era sempre curata da Terry Thomas, ma il clima si faceva più anthemico, fragoroso, spettacolare, gli arrangiamenti ancora più ricchi di parti di chitarra e tastiere. Questa voglia di arena rock esplode sfacciatamente nella title track ed in “Thunder and lightning”, anthem trascinanti e vorticosi, ma non c’è frammento di quest’album che si sottragga all’atmosfera, mancano certe sfumature più pacate e languide di ‘Last of the runaways’, tutto viene risolto in una chiave più grandiosa, ma senza la solennità appiccicosa del pomp. La qualità audio si mantiene sempre da brividi, basta ascoltare l’intro di “Chained”, con quelle pennellate di chitarra acustica sapientemente distribuite sui due canali stereo con un mixaggio straordinario per efficacia ed effetto... e annotiamo, en passant, che Bon Jovi avrebbe ucciso per avere una canzone come questa. “I’ll be there (when it’s over)” ruba l’atmosfera al miglior Bryan Adams, riff centrale altalenante ed un coro di grande suggestione, “Lay it on the line” e “Get used to it” sono hard rock potentissimi ma nello stesso tempo squisitamente melodici, “Save me tonight” viaggia su un riff portante zeppeliniano spalmandolo di armonie alla Foreigner, “Stay” e “Without you” virano verso atmosfere crepuscolari e struggenti, “Lost in paradise” è la prima power ballad, autorevolmente vicina alle atmosfere di “I’ll see you in my dreams”, ma il top è forse “Now until forever”, l’altra ballad: corale, una melodia semplice ma servita da un arrangiamento straordinario, una delle cose più belle che l’AOR abbia generato nei suoi anni d’oro. Perché il periodo aureo dell’Adult Oriented Rock stava avviandosi al tramonto, nel giro di un anno tutto il castello sarebbe crollato e quell’orda barbara giunta per rimpiazzarlo non avrebbe risparmiato nessuno, neppure i Giant. Alan Pasqua aveva mollato la barca già alla fine della registrazione di ‘Time to burn’, tornando al suo amato jazz, e i tre superstiti stavano appena cominciando a registrare con il solito Terry Thomas le canzoni per il nuovo album quando il mutato panorama musicale li costrinse all’inevitabile scioglimento ed a tornare al lavoro di produttori e turnisti. Nel 2001, davvero a sorpresa, ecco che i Giant rispuntano grazie alla Frontiers Records, per un album intitolato semplicemente ‘III’, assemblato con tre canzoni risalenti alla metà dei ’90, registrate e prodotte da Terry Thomas, e altre sette di fresca composizione. La band è ridotta a trio, ed è Dan Huff che, coadiuvato da un session man si occupa delle tastiere, oltre che della produzione. ‘III’ si pone quasi al crocevia dei due dischi precedenti, fra l’atmospheric power di ‘Last of the runaways’ e l’arena rock di ‘Time to burn’. Fregandosene altamente del tempo passato e di quelle obbrobriose commistioni che qualcuno vuole a tutti i costi spacciare come melodic rock, i Giant riprendono il discorso là dove si era interrotto nel 1992, servendoci una squisita collection di canzoni che sotterrano impietosamente la quasi totalità della produzione attuale, dimostrando ancora una volta (come se poi ce ne fosse bisogno...) che quando i vecchi leoni decidono di rimettersi a ruggire, a tutti gli altri animali della foresta conviene nascondere la testa nella sabbia... Certo, ascoltare un disco come questo fa quasi male, fa rabbia. Al giorno d’oggi, i Giant sono più che mai i giganti in mezzo ai nani. Qualcuno può anche far finta che la scena attuale sia traboccante di act di talento, ma il confronto non perdona nessuno. Chi, oggi, è in grado di scrivere canzoni come “Over you” e “Don’t leave me in love”, un perfetto bilanciamento di hard rock e melodia? Quanti possono vantare power ballads come “I can’t let go”, malinconica e struggente senza piagnistei, e “It’s not the end of the world”, con i suoi tocchi blues? Chi scrive anthem come “Oh Yeah” o “Love can’t help you now”, riff d’acciaio e melodia di velluto? In quanti album recenti avete sentito perle di puro hard melodico come “You will be mine” e “The sky is the limit”? Chi può permettersi di prendere una canzone rhythm & blues come “Bad case of loving you” (già interpretata dal grande Robert Palmer, uno che all’AOR avrebbe potuto dare tantissimo) e trasformarla in un viscerale hard blues? Domande retoriche, of course...
Procuratevi una foto di Lenny
Kravitz, possibilmente presa a metà dello scorso decennio, quando Lenny
portava i capelli stile mongolfiera funk e se ne andava in giro con quei
Ray Ban a specchio da tamarro anni ‘70. Fissatela ad un muro
soleggiato con delle puntine da disegno. Prendete una pistola; di grosso
calibro, se ce l’avete. Puntate, mettete a fuoco le mire in un punto a
piacere della sua faccia. Premete il grilletto. Ammirate il foro. Se seguirete tutta questa
procedura, potrete dire ai vostri amici che praticate quello che sono
convinto sia lo sport preferito di Dan Reed. Mentre i Dan Reed Network svanivano
fra l’indifferenza del pubblico, il signor Kravitz si poteva
permettere di andare in tour portandosi come supporter Robert Plant...
Tutto quello che Lenny Kravitz faceva e fa ancora oggi (purtroppo), i
Dan Reed Network lo facevano mille volte meglio, e senza quelle
scopiazzature e quelle rapine flagranti che urlano vendetta in tutti i
dischi dell’uomo che si è divertito a mettere le corna a Nicole
Kidman. Peggio ancora: se non ci fossero stati loro a precederlo, neri
che suonavano hard rock e AOR impastandoli con la black music e il rhythm & blues e il funky, Lenny non avrebbe mai potuto avere
l’appoggio delle majors e sopratutto di MTV, di cui fu
raccomandatissimo beniamino per diversi anni. Un EP e quattro album in crescendo,
questo ‘The heat’ uscì nel ’91, dopo
ci furono solo un live ed un paio di raccolte, ed un silenzio
assordante. L’AOR aveva perso una grandissima band, ma pochi se ne
accorsero, o gli importò qualcosa. Gli innesti tra la black music e
l’hard rock non erano certo una novità, anche alla fine degli anni
’80, ma vedere dei neri che imbracciavano chitarre elettriche e
pestavano sodo era uno spettacolo non molto comune, sopratutto in ambito
AOR. I Dan Reed Network avevano tutto dalla loro: non solo la musica, ma
anche l’immagine, con Dan che si candidava autorevolmente al ruolo di
oggetto erotico per le fantasie di ragazzine assatanate. Cosa non abbia
funzionato, non saprei dirlo. Forse era ancora troppo presto, il
pubblico non era pronto. Forse dovevano tenere duro ancora per un
po’... ‘The heat’
venne prodotto da Bruce Fairnbairn, che tornava a collaborare con la
band dopo ‘Slam’, l’album precedente
che era stato supervisionato da Nile Rodgers. Ed il tocco eclettico e
raffinato di Fairnbairn buonanima si sentiva nitidamente attraverso le
quindici (!) canzoni dell’album: arrangiamenti variegati, mille
invenzioni, ogni pezzo ha un’identità precisa. “Baby
now I” apre il disco con un pop rock dalle cadenze funky, basso
slappato, qua e là sembra spuntare un Huey Lewys più sporco e sexy
(!!). “Blame it on the moon” ha un
basso rotolante, muri di keys, un assolo tutto wah wah ed il refrain
come un Aldo Nova nero. “Mix it up”
alterna soft rap (quel genere
di roba che negli anni ’80 fece la fortuna di LL Cool J) ed un coro
degno degli Chic adagiati su un tappeto di chitarre rockeggianti, la
title track ha un intro degna dei Cult ma il coro è un mix ideale glam/black.
“Let it go”: pianoforte, una chitarra
elettrica dal suono cristallino, la prima ballad, armonie che potrebbero
venire dal songbook dei Commodores o di Lionel Richie, ma il finale è
pesante, rock, con una montagna di chitarre e keys. “Love
don’t work that way” è un funky tosto e ballabile: super!
“Money” è proprio quella dei Pink Floyd,
virata in uno splendido hi-tech funk,
basso pulsante e sciabolate di chitarra su cui si staglia la voce di Dan,
un assolo lungo e lancinante, poi “Chill out”,
un classico blues dal flavour ironico, voce filtrata per l’effetto
vintage, assolo di slide guitar, la facilità con cui la band riusciva a
far suo questo suono era impressionante. “Life
is sex” è ancora hard funk, un giro di chitarra avvolgente, le
acustiche, l’attacco dei fiati, un refrain da infarto: grande! L’Hammond
apre “The salt of joy”, un’ispirata
power ballad che ha un ritornello imparentato con quelli più duri dei
Foreigner. “Take my hand” trasfigura il
più classico suono zeppeliniano su un telaio di funk nero: una scheggia
suadente, tutta penombre e luci morbide... capolavoro? “The
lonely sun” è un hard blues che si infrange su un coro gentile
e fragile, “Thy will be done” è di
nuovo funk tecnologico con un cantato rap, mentre “Wake
up” stupisce ancora con una miscela che si può definire high
tech folk blues (!!!), e a chiudere c’è l’intensità di “Long
way to go”, blues ballad quasi interamente acustica. Con dei testi che talvolta potevano
fare concorrenza a quelli dei Warrior Soul per ferocia e impegno
sociale, i Dan Reed Network davano un senso alla parola “crossover”
con eleganza, intelligenza ed un gusto rimasti ineguagliati. Se nel rock
imperasse la meritocrazia, oggi dovrebbero essere miliardari. Invece, di
questa band è rimasto appena un ricordo sbiadito. E intanto, Lenny
Kravitz sta per comprarsi un’altra Ferrari...
Ecco un’altra di quelle mega rarità per cui vale sicuramente la pena di rinunciare a qualche extra (un’uscita con la morosa, il gioco per la PS2 che il vostro marmocchio vi sta chiedendo da sei mesi, gli occhiali da sole all’ultimissima moda: fate voi...), reinvestendo il denaro risparmiato su un’opera che temo difficilmente troverà mai la via della ristampa. Da cosa è motivato questo accesso di pessimismo? Dal fatto che l’autore dell’opera in esame è il boss della nota etichetta Now & Then, e se Mark non ha ritenuto di comprarsi i diritti del suo ultimo disco per ripubblicarselo in proprio, mi sembra poco probabile che qualcun altro lo faccia al suo posto. Il personaggio
era poco noto ai più: aveva fatto parte - come percussionista - dei
Rare Bird, una formazione inglese di progressive rock che alla fine
degli anni ’60 guadagnò notorietà per un singolo di grande
successo, “Sympathy”. Mark lasciò dopo un solo disco la band e
registrò due album come solista alla fine degli anni ’70 per poi
scomparire nella nebbia. Nebbia da cui rimerse nel 1988, con questo
‘Modern Pilgrims’, che lo vedeva
inaspettatamente arruolato nelle file dell’esercito AOR. Con una
backing band di tutto rispetto (Mandy Meyer e l’ex Workforce Mark
A. Adams alle chitarre, Jonathan Valen dei Legs Diamond come
batterista, Bob Birch al basso e Guy Babylon a pestare sui tasti
d’avorio), Mark Ashton rivelava un inatteso talento come
interprete, compositore e arrangiatore, proponendo un mosaico che per fascino e
originalità pare sia destinato a rimanere senza pari nella (vasta)
costellazione del rock adulto. Non è facile circoscrivere ‘Modern
Pilgrims’, trovarci un leitmotive di fondo, eppure le dieci canzoni che lo compongono
scorrono senza intoppi l’una sull’altra, lasciando affascinati e
rapiti da un songwriting spettacoloso che ha il merito principale di
non dovere praticamente nulla a nessuno. “Are
you ready”, “These days” e
“Shaky days” sono i pezzi dove più
risalta l’estetica prog, ma distillata con una concisione esemplare
nella dimensione della pop song da tre minuti e mezzo (quasi un
boogie hi - tech la prima, dove le suggestioni prog vengono
innervate su un solido telaio elettrico; più incisiva e
spettacolare la seconda, con una chitarra graffiante nel coro; la
terza, virante verso il più classico hard rock, addirittura con
qualche nuance root). “Rain
on me” è un pomp tecnologico, ipnotico e suggestivo,
mentre “A breath away” si rivela
una ballad piena di chiaroscuri e sfumature ammalianti. “Black
and white” è una batteria tuonante, vocals á la Plant,
keys sinuose e chitarre liquide e avvolgenti o violinacee e laceranti
che dialogano incantevolmente nel lungo finale strumentale: non il
semplice, solito, trito riciclaggio zeppeliniano, ma uno sguardo
lungo la rotta del dirigibile nei suoi percorsi più sofisticati,
lontano da citazioni e trapianti forzati di riff e melodie, quella
stessa materia che Lenny Wolf trattò (ma non con tanta classe)
sull’incompreso terzo album dei suoi Kingdom Come. “Modern
Pilgrims” parte con un bell’intro di piano e tastiere che
lasciano spazio ad un grande heavy AOR alla Surgin (ma le sfumature
prog non mancano), e poi il capolavoro, una scheggia di classe
sconfinata, “Caught up on love street”:
un ombroso arpeggio acustico, percussioni, echi e contrappunti di
chitarra elettrica, sussurri di sax si fondono in un’atmosfera
misteriosa e suadente, un crescendo da brividi che sfocia in un
bridge funkeggiante segnato dalle note di hammond e sax. “Genie
in the jar” parla la lingua dell’hard melodico con
sfumature pomp (c’è qualcosa dei Magnum?), e chiude “A
place to go” che è esemplare nel reinventare un tonante
clima celtico - con tanto di cornamuse! - senza citare o scadere nel
banale, senza riuscire (come di solito avviene) tronfi o pacchiani:
semplicemente fantastica. Le scarse vendite (non era difficile trovare ‘Modern Pilgrims’ tra i forati, nei primi anni ’90) indussero la RCA (che non s’era comunque scapicollata per promozionare il disco, sia ben chiaro) a rifiutare una seconda occasione a Mark Ashton nonostante (pare) alcuni ottimi demo. Mark rientrò nella natìa Inghilterra, dopo qualche anno fondò la Now & Then ed il resto è storia dei nostri (tristi, molto tristi...) giorni.
Pronunciare questo nome davanti ad
una buona parte dell’italico popolo dell’AOR facendolo seguire
da un punto interrogativo getta quasi sempre gli interpellati nel
più grande imbarazzo. E non stiamo mica parlando di una cult band
giapponese o lituana... I Loverboy appartengono a quel foltissimo
gruppo di bands nordamericane (ma sopratutto canadesi) che in
Europa hanno riscosso consensi solo modesti, principalmente per
mancanza di promozione adeguata.
Hanno poi percorso la propria parabola artistica fra il
1981 ed il 1987, restando praticamente fuori dal momento più
caldo per il genere fuori dagli USA. Come Aldo Nova o i Triumph,
sono stati fra i prime movers della scena canuck
AOR, lasciando poi il testimone della popolarità ad act
spesso molto meno dotati di loro. Mike Reno (vero nome Rynowski,
ex cantante dei Moxy), Matt Frenette e Paul Dean (batteria e
chitarra, entrambi fuoriusciti dagli Streetheart), Scott Smith
(basso, già al lavoro con la grande Lisa Dalbello) e Doug Johnson
(tastiere, ex All The Rage In Paris), ottennero tra USA e Canada
una messe di meritatissimi dischi d’oro e platino, inaugurati da
‘Loverboy’ nel 1981, prodotto da
Bruce Fairnbairn. Seguirono ‘Get Lucky’,
sempre nel 1981 e poi ‘Keep it up’
nel 1983, ancora con Fairnbairn dietro il banco del mixer. Nel
1985, a produrre ‘Loving every minute of
it’ arriva il metallico Tom Allom: il sound della band si
fa più hardeggiante, e ‘Loving...’
diventa cinque volte di platino. ‘Wildside’,
nel 1987, vede il ritorno di Bruce Fairnbairn e un brutto
scivolone a livello di vendite (la concorrenza feroce di Bon Jovi,
Whitesnake e Motley Crue dovette essere la principale responsabile
del mezzo fiasco): il massimo segnato sulla chart di Billboard è
il numero 42 (‘Loving...’ era
arrivato fino al numero 13), ma “Notorious”
è un grande successo come singolo e la band passa quasi due anni
in tour (per la prima volta anche in Europa, come supporto dei Def
Leppard). Nel 1988, uno scioglimento mai ufficializzato, con i
vari membri della band al lavoro su album solisti e progetti
paralleli. La parziale reunion del 1997 (Doug Johnson resta fuori)
frutta un disco non all’altezza di quelli passati, ‘VI’,
ma la band (di nuovo con Johnson alle keys e priva di Scott Smith,
probabilmente passato a miglior vita nel 2000, quando finì fuori
bordo a causa di un’ondata mentre era in mare sulla propria
barca a vela: il suo corpo non è mai stato ritrovato) ricomincia
ad andare in tour, registra un live per la CBS ed è attiva ancora
ai nostri giorni. Di tutti i loro album scelgo il mio
preferito e quello che reputo il migliore, ‘Wildside’,
dal sound più deciso e meno pop
oriented: che sia anche il loro meno venduto di sempre è un
ulteriore stimolo a farvelo conoscere nei dettagli, rendendo
giustizia ad una raccolta di canzoni (scritte assieme a Jon Bon
Jovi, Richie Sambora, Todd Carney, Taylor Rhodes, Alfie Zappacosta,
Bryan Adams e Brian McLeod, fra gli altri) che non ha nulla da
invidiare a quelle che l’hanno preceduta. Clima festaiolo,
anthemico, scanzonato e raffinato nello stesso tempo, puro arena
rock come pochi erano in grado di proporre nel Big
80s. Ricetta: tastiere sempre in primo piano ma suonate con un
tocco pesante e spettacolare che non scade mai nel pomp, chitarre
fragorose che paiono non replicare mai la stessa timbrica da una
canzone all’altra ed una voce vigorosamente rock. Passando dalle sfumature
rochenrollistiche di “Notorious”
a quelle più pop di “Break it to me
gently” e “That’s where my
money goes”, dagli anthem da stadio “Can’t
get much better” e “Don’t let
go” alla power ballad atmospherica
“Don’t keep me in the dark”
(i Giant erano appena dietro l’angolo...), dalla melodia nello
stesso tempo scoppiettante e suadente di “Walkin’
on fire” a quella rude e quasi root proiettata contro una
sfondo di keys pop e geometriche di “Love
will rise again”, dall’amalgama Bon Jovi / Brian Adams
di “Hometown hero” al clima da
rhythm and blues tecnologico e ad alto voltaggio di “Wildside”
e “Read my lips”, non c’è il
minimo punto debole in un album al quale, come ho già più sopra
annotato, solo la concorrenza spietata di altri dischi più o meno
buoni impedì di diventare multiplatino alla pari di quelli che lo
avevano preceduto. Consigliato ovviamente a tutti, ma in
particolare a quelli che hanno perso la testa per i Danger Danger
dell’omonimo album: ricordo ancora che, alla fine del primo
ascolto di quel disco, la prima cosa che pensai, fu: abbiamo
trovato i nuovi Loverboy...
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