Lo scopo per nulla occulto - e anzi
apertamente dichiarato - di questa piccola isola nel web
è mantenere vivo il ricordo della grande stagione dell’AOR, quel
periodo che va grosso modo dal 1982 al 1993. Durante quegli undici, irripetibili
anni, venne pubblicata una messe di capolavori ma anche una gran quantità di
dischi brutti o - peggio ancora, forse - inutili. Al giorno d’oggi, si guarda
spesso a tutto quanto porta una data compresa tra i due estremi citati con
eccessiva benevolenza. Il disco è uscito nei Big
Eighties, magari su major label? Dunque è buono, deve
esserlo. Se poi nessuno lo conosce o quasi, si tratta di una lost gem, e per averlo si deve rinunciare alla progettata vacanza ai
Caraibi o vendere un rene. Punto e basta. E’ sufficiente una minima dose di
buon senso per rendersi conto che le cose non stanno affatto in questo modo, e
che l’esclusiva delle bufale non è certo prerogativa di questi nostri tempi
calamitosi. Il disco che prendiamo in esame, difatti, venne pubblicato nel 1990,
e appartiene di diritto alla schiera dei lavori inutili. Non spicca per una
particolare bruttezza, ha i suoi momenti, ma è inesorabilmente piatto. Puoi
risentirlo anche dieci volte di fila, ma non ti rimarrà in testa né un riff né
una melodia. Gli manca l’ingrediente fondamentale: le canzoni. Ma chi cavolo erano questi Private
Life? Tanto per cominciare, dei gran raccomandati, dato che il raggiungimento
del contratto discografico si deve con ogni probabilità all’amicizia che
legava una delle due componenti di sesso femminile (la tastierista Jennifer
Blakeman o la cantante Kelly Breznik) a Valerie Bertinelli, consorte di Eddie
Van Halen. Dunque: contratto per la WEA, e produzione curata da Eddie in persona
e da Ted Templeman per il secondo album. Del primo lavoro non so che dirvi, dato
che non l’ho mai ascoltato, ma questo ‘Private Life’ veniva descritto come
più hard edged rispetto
all’esordio, e considerato quello che viene fuori dal disco, si può anche
supporre che la band si dedicasse in origine alla musica pop, dato che tutto si
può dire di quest’album tranne che sia incisivo e tagliente. E questo
nonostante alla chitarra ci fosse Danny Johnson, che aveva militato nei grandi
Silver Condor, nei Derringer, negli Alcatrazz e negli Axis, bands tutt’altro
che svaccate, mi pare. Apre le danze “Touch
me”, che si divide fra un suono Van Halen Roth-era ed un funky sciapo
che potrebbe far pensare anche alle cose più rockeggianti di Prince, leggero
leggero salvo per qualche accelerazione di chitarra nel finale. “Domino”
è una cover di Van Morrison: non ho mai sentito la versione originale, ma i
Private Life ne fanno un FM rock senza nulla di personale, veramente anonimo ed
al limite del colpo di sonno. “Fallin’apart”
è più interessante, un rhythm’n’blues, ma anche questo pezzo va avanti senza
scossoni né impennate, con un assolo di chitarra carino ma troppo breve. “Communication”
è un up-tempo più FM, ha qualche ombra ZZ Top, ma il coro è davvero banale
(ricorda un po’ la “Infatuation” di Rod Stewart, ma forse è solo una mia
impressione). Con “Night all night” sfioriamo
il puro cervellotico: ancora rhythm’n’blues, il ritmo è sostenuto, ma il
coro è incredibilmente fesso: era tanto difficile trovare qualcosa di meglio? E
il volume della chitarra è sempre troppo basso. Che c’entra poi
quell’assolo heavy metal? Mah... “Nothin’ to loose”
è una ballad. Almeno credo. Scivola via come qualcosa ascoltata
nell’ascensore di un grande magazzino, quasi non t’accorgi che è lì, e fra
uno sbadiglio e l’altro è bella che finita: del tutto superflua. La segue “Give
it up”, che potremmo considerare il top del disco (un top in senso
relativo, e basta), con un andamento di nuovo alla Van Halen, chitarre più
robuste, clima L.A. metal, ma anche
questa scorre via placida, nessuna invenzione viene a ravvivarne il ritmo. Le
conclusive “Holiday” e “Cure
for love” richiamano alla lontana gli Heart periodo ‘Brigade’,
AOR con arrangiamenti un po’ più curati ma impostati su melodie prive di
mordente. In definitiva, tutti i trentacinque minuti scarsi di questo disco scorrono torpidi e noiosi. Speri sempre che succeda qualcosa, ma non succede assolutamente niente. Neppure la bella voce di Kelly Breznik riesce a sollevare il morale dell’ascoltatore: calda, sexy, con quella punta di raucedine che non guasta, viene risucchiata nel grigiore generale, s’adagia senza forza sul tappeto di note insulse fornitole dalla band senza riuscire ad incidere più di tanto nell’economia generale di un disco concepito male e prodotto peggio, fatto di canzoni debolissime ed arrangiamenti anemici, supervisionato da una coppia di personaggi capace di ben altre performances ma che evidentemente non ha ritenuto di dover andare oltre lo sforzo minimo che immagino ci si aspetti da chi va a sedersi dietro il banco del mixer. Nulla di strano che i Private Life diventassero in breve presenza assidua ed immancabile tra i forati. Oggi, qualche rivenditore interessato cerca di farli passare per una band, come si suol dire, “di culto”: potrei concludere questo scritto con qualche giochino di parole triviale a cui il termine anzidetto ben si presta, ma preferisco riconfermare che - a mio personale e, come tale, opinabilissimo parere - la musica di questa band, lungi dal creare fascino o trasmettere energia, è in grado di generare in chi si pone al suo ascolto solo un’invincibile, mortale sonnolenza.
Due anni fa, concludevo la recensione di ‘Far
beyond the world’, scrivendo: i Ten possono fare molto di più.
Oggi, dopo aver ascoltato l’ultimo ‘Return to evermore’, mi chiedo se quel
“possono” non si doveva volgerlo al passato. I Ten potevano fare
molto di più. Una volta. Molto tempo fa. Quello che viene fuori da ‘Return...’
è il ritratto di una band sclerotizzata, adagiata fin troppo comodamente nel
proprio suono, impegnata più che altro a riciclarsi. Il songwriting si ripete
come in un loop, manca la scintilla dell’ispirazione autentica, il quid, il
tocco magico e - sembra - la voglia di fare. Gli arrangiamenti sfarzosi
sono svaniti come nebbia al sole, il suono è opaco, pare che Gary Hughes non
voglia spendere una sterlina più del necessario per registrare i suoi dischi.
E’ quasi superfluo sottolineare che il confronto tra Gary Francis e Vinnie
Burns non si pone neppure, ma non è detto che quanto il nuovo arrivato mette in
mostra su questo disco sia tutto ciò che è in grado di fare: gli interventi
della chitarra solista sono brevi, frammentari, mixati ad un volume
inspiegabilmente basso. L’impatto globale è affidato ormai alla chitarra
ritmica, questo si potrebbe definire il disco di John Halliwell dato che si
sente suonare quasi solo lui. La strategia compositiva di Gary Hughes pare essersi
cristallizzata in un circolo vizioso fatto di insistiti riarrangiamenti di
canzoni proprie e altrui, priva di quegli spunti, di quella freschezza che aveva
reso memorabili album come ‘Ten’, ‘The
name of the rose’ e ‘Babylon’. Se
qualcosa in questo disco piace, è perché ricorda questo o quel pezzo, lo
ascolti e ti viene in mente questa o quella canzone, e la cosa finisce lì:
l’alchimia sembra essersi dissolta in pura tattica ricombinatoria. Così, la
conclusiva “It’s you I adore” risulta dalla
fusione di “When only love can ease the pain” e “Valentine”; “Strangers
in the night” riprende il tema di “The heat”; “The
one” ha lo stesso, identico break di “My religion” e un coro
ispirato a “Give my love a try” (da ‘Precious ones’,
l’ultimo album solo di Gary Hughes) che viene saccheggiata anche per mettere
assieme “Stay a while”; “Dreamtide”
non è che un riarrangiamento lineare ed in chiave minore di “Scarlet and the
grey” con il refrain quasi sovrapponibile a quello di “The stranger”,
eccetera eccetera. Come se Gary Hughes si fosse fatto definitivamente prendere
la mano dal suo naturale istinto predatorio verso il materiale altrui
rivolgendolo infine verso se stesso, finendo intrappolato nel vicolo cieco
dell’autocitazione, della cannibalizzazione delle proprie canzoni. E anche
quel gioco che tanto bene gli riusciva un tempo
- prendi un pezzetto di qui, uno di là, mescola e impasta bene... -
viene ora condotto senza la classe sopraffina a cui eravamo abituati, come in
“Evil’s in top in the worlds”: le prime tre
strofe hanno il ritmo della “Stand up” di D.L. Roth e Steve Vai, il coro è
ripreso agli FM di “Don’t stop”, e non si arriva ad una sintesi come
accadeva una volta, ad un tutto unico che possa farci dimenticare le fonti
originali. L’unica vera novità di questo disco è “Tearing
my heart out”, tributo al successo planetario degli Evanescence e
timido tentativo di cavalcarlo: ritmica soft-nu-metal rubata ad una qualsiasi
canzone della band di Amy Lee (i loro riff sono praticamente tutti uguali),
cantato spigoloso, alla James Hetfield periodo ‘Load’,
ma una buona melodia nel coro. Passiamo sopra “Evermore”,
ennesima rifrittura priva di nerbo della “Blood of emeralds” di Gary Moore
con delle orride cornamuse campionate, e all’iniziale “Apparition”,
impostata su quel sound solenne e Magnumizzato che speravo sepolto una volta per
tutte dopo ‘Spellbound’ e trascinata per otto, lunghissimi ed inutili minuti: inutili perché questa canzone si limita a
fare il verso a “The robe”, a “The name of the rose”, a tutte quelle
stesure al limite del sinfonico che sposavano mirabilmente Pomp ed AOR, piene di
invenzioni e fantasia, mentre qui non abbiamo altro che una ritmica cupa e un
divagare piatto e tronfio reso ancora più insopportabile da un cantato
monocorde. Qualche nota lieta viene solo da “Sail away”
(in cui pure si sente qualcosa di “Wanderland”); da “Temple
of love”, un FM rock reminiscente dei frammenti più beatlesiani della
‘Bonus collection’; da “Even
the ghost cry” che ci riporta ai (bei) tempi di ‘Ten’;
da “Lost souls”, con la sua ritmica funky ed il
cantato quasi sleaze. In definitiva, ‘Return to Evermore’
è un disco brutto non tanto in sé, quanto in rapporto a tutto quello che i Ten
hanno già fatto: stantio, privo di nerbo, un’esercitazione di pura routine ad
usum fan arrabbiati, gli unici in grado di entusiasmarsi per queste tredici
schegge che sono solo lontane parenti di ciò che la band sapeva costruire appena qualche anno fa. La musica dei Ten, non si può negarlo, ha
spesso camminato su un filo sottile, quello che talvolta separa la genialità
dalla pura e semplice presa per il sedere. In questa occasione, mi pare che Gary
Hughes non sia riuscito a mantenersi in equilibrio ed abbia fatto un solenne
capitombolo: in quale direzione, dopo tutto quanto scritto sopra, non ho bisogno
di specificarlo.
Ricordo che una delle prime cose
che feci quando nel mio campo visivo entrarono i Motley Crüe fu aprire il
vocabolario d’inglese per capire cosa accidenti significasse il nome di quella
band. “Motley”, diceva il mio Garzanti, stava per eterogeneo, variopinto; ma mi ci volle un po’ per capire che quel
“crüe” era solo un modo - che immagino fosse all’epoca molto cool
- per scrivere la parola “crew”, che in senso spregiativo si intende
come banda, combriccola, masnada. Una
vera dichiarazione d’intenti, insomma, per una band che senza compromessi
decise di puntare innanzitutto sulla propria immagine per tentare la scalata al
successo, e poi ci rimase inesorabilmente invischiata, crollando assieme ad
essa. Ma chi erano, cosa sono stati i
Motley Crüe nella Los Angeles dei Big 80s?
Dipende. Dai punti di vista. Prendiamo quello di Piero Scaruffi, per esempio.
Nel suo sito (che invito a visitare, per conoscere lo Scaruffi-pensiero su tutto
o quasi lo scibile umano: letteratura, cinema, musica, arti visive, politica,
scienza tutto viene passato al vaglio del suo intelletto, che evidentemente il
buon Piero ritiene acuto e polivalente come quello di Leonardo Da Vinci) i Crüe
vengono definiti “...gli eroi dello shock-rock di Hollywood, degni eredi
della tradizione di Alice Cooper e Kim Fowley...”. Per quel che riguarda
l’immagine ecco che “Lo scalpore suscitato dall’oscenità gratuita dei
loro testi, dalla delirante, depravata decadenza dei loro show (...) fece sì
che l’album Shout at the devil (1983) diventasse uno dei maggiori successi
dell’anno(...) Theatre of pain(1985) (...) stabilì il loro clichè di porci
eroinomani(...)”. E si conclude in gloria “Sintesi delirante di Black
Sabbath e Kiss, i Motley Crue si affermarono come i tipici esponenti dei macho
corazzati di cuoio, dediti a rituali satanici, eroticamente insaziabili (…). I
loro valori morali sono nulli sotto tutti i profili, il loro unico interesse è
il "fun" più corrivo, reazionario e qualunquista. (…).Sono anche la
materializzazione dell'inquietante subconscio della jet society di Los Angeles,
nella quale si sono inseriti perfettamente (…)”. Trascurando i tocchi di furore moralista da staliniano di
ferro (roba che sembrava passata di moda dai tempi dei comizi di Togliatti) e le
imprecisioni, non si può negare che il quadro proposto abbia una sua suggestiva
efficacia, salvo per un particolare tutt’altro che minuscolo ed
insignificante. Ossia, che tutto quanto ha riguardato questa band è stato per
il novanta percento teatro, superficialità nella sua forma meno deleteria,
spettacolo, cartapesta e fuochi d’artificio. E’ in questa luce, sotto questa
angolazione che tutta l’epopea dei Motley Crüe và osservata e interpretata.
Ma non giudicata. I giudizi sono appannaggio della storia e sopratutto delle
mode: quello che oggi è inaccettabile, domani sarà sublime, dopodomani
ridicolo e dopo ancora solo Dio lo sa. Tutto quello che si può fare è proporre
una chiave di lettura, cercare di capire i perché ed i percome di certe scelte.
I Motley Crüe puntarono all’eccesso, a quello che Blackie Lawless
(personaggio molto più lucido e intelligente di quanto la sua immagine dica)
definì “un vaudeville elettrico”. Ma, prima e più di ogni altra cosa,
dettero alla gente ciò che la gente chiedeva: quello shock sensorio che dopo
anni di grigiore veniva accolto come una salutare liberazione (chi vuole
approfondire il discorso, può leggersi il mio saggio sui Bad English a pag 10). Naturalmente, tutto questo
sgargiante apparato sarebbe servito a ben poco se a reggerlo vi fosse stata
un’impalcatura debole ed inconsistente, ovvero, se la musica dei Crüe si
fosse dimostrata poco più che una colonna sonora messa in sottofondo per
ritmare in qualche modo le loro imprese. Oggi che di tutta quella scenografia
non è rimasto praticamente niente, e perfino il suo ricordo è vago e sbiadito,
ci resta solo la musica. Che continuiamo a riascoltare non perché siamo
inguaribili e testardi nostalgici, ma perché è straordinariamente buona. Se ‘Too
fast for love’ e ‘Shout at the devil’
avevano rappresentato l’atto di nascita della scena glam losangelena, ‘Theatre
of pain’ una prima, non troppo convinta virata in direzioni più roots,
‘Girls, girls, girls’ l’autocelebrazione del
loro status di nuovi campioni della più cruda e lasciva tradizione hard rock,
è con ‘Dr. Feelgood’ che i Crüe mettono da
parte make up e costumi (le foto promozionali li vedono per la prima volta alle
prese con un look essenziale, tutto denim
& leather) e decidono di affidarsi una buona volta solo alla musica. Al
banco del mixer si siede Bob Rock, in piena ascesa come produttore (e Vince Neil
ripeterà fino alla nausea che fu l’ascolto di ‘Dr.
Feelgood’ a convincere Lars Ulrich a interpellarlo per sovrintendere il
Black Album), mentre i cori vedono impegnati una massa sterminata di ospiti di
lusso fra cui primeggia sua maestà Steven Tyler. L’album è aperto dalla title
track, cupa, violenta, scandita da un riff granitico, il ritratto di uno di quei
pusher hollywoodiani che i ragazzi
dovevano conoscere anche troppo bene. Un episodio isolato solo in apparenza,
perché anticipava quei contrasti in tema di direzione musicale conclusisi
infine con il licenziamento (non si può definirlo altrimenti) di Vince Neil,
che con quella sua voce da papero con la laringite mai e poi mai avrebbe potuto
cavalcare le note furibonde del successivo e incompreso ‘Motley
Crüe’. Il peso specifico si manteneva discretamente alto anche sulla
successiva “Slice of your pie”, aerosmithiana
senza compromessi, con un altro riff tagliente e Mick Mars più che mai
protagonista (sentite come accompagna contrappuntandolo il cantato di Vince).
“Rattlesnake shake” mette a frutto la lezione
di ‘Permanent
vacation’ con una squillante sezione fiati nel coro ed un piano boogie
nel finale, ed anche “Sticky sweet” prende in
maniera convincente a riferimento la band dei toxic twins (e Steven Tyler viene
ringraziato per aver dato con i suoi cori alla canzone ‘a
kick in the ass’). “She goes down” -
ispirata forse da una di quelle grupie
assatanate che movimentavano la vita nei tour bus della band (il rumore dalla
chiusura lampo che “va giù” è irresistible...) - rotola via allegramente
come un power pop alla Cheap Trick (sarà un caso la presenza di Robin Zander
fra i coristi?), mentre “Same ol’situation”
è pura goduria glam (quel coretto deliziosamente stupido, la fatuità che
diventa opera d’arte...). “Kickstart my heart”
personalmente mi ha sempre detto pochissimo, anche se la band la adorava al
punto da usarla per aprire gli show e poi includerla nella compilation
celebrativa ‘Decade of decadence’: troppo
diretta, essenziale... de gustibus eccetera eccetera. “Don’t
go away mad (just go away)” ha una bellissima melodia su un testo
strafottente, “Without you” è una ballad
zuccherosa e poco ispirata (sarà anche per la voce di Vince Neil che non
convince per niente quando l’atmosfera vira sul romantico), mentre la
conclusiva “Time for change” è
inaspettatamente debitrice agli Angel (ma i faraoni in seta bianca non avevano
un loro - raffinatissimo - gusto glam, dopotutto?). Dopo questo magnifico album, i Crüe
ebbero solo il tempo di pubblicare una compilation prima di diventare le vittime
numero uno del fenomeno grunge. ‘Motley Crüe’
era un lavoro interessante, non si discute, ma nessuno era pronto ad ascoltarlo
per ciò che era... o ad ascoltarlo e basta. Perché per il grande pubblico i
Motley Crüe erano i videoclip censurati, le grupies,
Nikki Sixx in rianimazione o a braccetto con Vanity, la macchina di Vince Neil
sfracellata contro un palo con il corpo sanguinante di Razzle tra le lamiere...
I Crüe avevano scelto di navigare sul marcio che colava dall’Hollywood
Boulevard, di incarnare l’eccesso, avevano lottato senza pudore per essere
riconosciuti come nuova icona del più trucido sex, drug & rock’n’roll, e all’improvviso niente di tutto
questo pareva avere più il minimo appeal su quegli adolescenti che scoprivano
quanto era piacevole cadere in depressione ascoltando i dischi degli Alice In
Chains o picchiare la testa contro il muro al tempo dei riff dei Soundgarden.
Provarono ostinatamente a rimanere in sella cambiando look e musica dalla
mattina alla sera, lanciati all’impossibile inseguimento di un’identità che
non gli apparteneva e di una generazione che era a loro estranea e nulla voleva
avere a che fare con quell’immaginario rock sfasciatosi contro un muro di
Lumberjack inzuppate di pioggia. Erano il simbolo di un’epoca morta che non
voleva arrendersi e starsene buono nel sarcofago ma insisteva ad andarsene in
giro rivestendosi di abiti alla moda che non gli evitavano di essere
riconosciuto come uno zombie. Patetici, insomma? Forse. Con ‘Generation
Swine’, sicuramente superflui. ‘New Tattoo’
fu la resa senza condizioni a ciò che avevano continuato a rappresentare
nonostante tutto, un disco simpatico ma esausto, rassegnato, dove a tratti la
band pareva quasi fare il verso a se stessa. Oggi si parla di un tour d’addio:
sarà l’ultimo giro sulla giostra prima di chiudere per sempre i cancelli di
quel luna park sfavillante, l’ultima occasione di mescolarsi - almeno nella
fantasia - con quella variopinta masnada,
che ebbe come minimo il coraggio di eleggere senza ipocrisia il più sfrenato ed
oltraggioso divertimento a propria bandiera, che incitava a sbattersene di tutto
e spassarsela invece che frignarsi addosso, offrendo un punto di vista sulla
vita crudo e sfacciato quanto vi pare ma assolutamente positivo e di certo molto
più sano di quello proposto dai tanti act venuti a soppiantarli, che
affondavano il coltello nella piaga superficiale e transitoria del malessere
adolescenziale con un compiacimento morboso che spesso e volentieri non era
altro che strategia ben calcolata per vendere dischi a ragazzini sprovveduti.
Filosofia, quella dei Crüe, certo discutibile e criticabile finché si vuole,
ma c’è un dato nudo e crudo da mettere in conto prima del bilancio finale:
questi “porci eroinomani” sono ancora tutti e quattro fra noi, mentre fior
di campioni della grunge-generation sono finiti sotto due metri di terra dopo
essersi sparati un colpo di fucile in testa o una OD nelle vene. Le somme
tiratele pure voi…
Dio ci salvi dai monickers - parte
II (la prima parte la trovate nella recensione dei Deep Purple di 'Slaves and
masters') I Bad Company sono state una delle
grandi - anzi, grandissime - bands degli anni ’70. Punto. Avevano il loro
fulcro nella voce immensa di Paul Rodgers. Altro punto. Il loro scioglimento nel
1982 fu un colpo basso per tutti gli amanti dell’hard rock più blues. Ancora
un punto. Bello grosso, stavolta. Paul Rodgers aveva scelto altre strade, e quel
monicker doveva obbligatoriamente rimanersene buono buono sotto una lapide con
su scritto: riposi in pace. E questa volta il punto facciamolo grande come un
pallone da basket. Ma nel 1986 Mick Ralphs, Simon
Kirke e Boz Burrell decisero di tornare a
suonare assieme. E dato che dietro il microfono c’era stavolta Brian Howe (ex
Ted Nugent), che la musica non era proprio nello stesso stile di una volta, ecco
che i censori, gli inquisitori, i puristi ed i rompipalle cominciano a
starnazzare indignati contro quest’atto di lesa maestà. Bisogna ammettere che il primo
parto di questa (parziale) reunion sembrava fatto apposta per far uscire dai
gangheri tutti quelli che ancora ascoltavano con devozione ‘Straight
Shooter’ e ‘Run with the pack’. ‘Fame
and fortune’ sapeva troppo di rock mainstream e di AOR edulcorato (non
per niente l’aveva prodotto Mick Jones), mancava di quell’energia che in
fondo era stata sempre una delle componenti fondamentali del suono Bad Company.
Ma già con ‘Dangerous Age’ (pubblicato nel
1988) si riaggiustava il tiro, grazie anche alla produzione ed al songwriting di
Terry Thomas, il quale aiutava i ragazzi a reinventarsi un suono che pur nel
rispetto delle matrici rock blues più autentiche della band si faceva
melodicamente scoppiettante, anthemico, a volte sfacciatamente boogie e - last
but not least - prezioso e cromato. La mirabile “No
smoke without a fire” riportò il nome Bad Company nelle charts e fece
da traino ad un album del quale solo i fan più tozzi ed ingessati potevano
avere il coraggio di negare la validità. Quando, nel 1990, uscì ‘Holy
Water’, il pubblico non mostrò più riserve verso i nuovi Bad Company,
che in breve si ritrovarono a festeggiare un disco d’oro (mezzo milione di
copie) nei soli Stati Uniti. Stilisticamente, ‘Holy
water’ non mutava il passo rispetto a ‘Dangerous
age’, ma dava più continuità al songwriting, con la title track e “Stranger
stranger” a replicare la ricchezza anthemico/melodica di “No
smoke...”. “Walk through fire” parlava la
lingua del miglior Bryan Adams, “Boys cry tough”
era una power ballad drammaticamente intensa, impregnata di umori Foreigner come
la più FM “If you needed somebody”, mentre in
“Fearless”, “I don’t
care”, “Never too late”
e “Lay your love on me” si macinava
grande boogie rock. “Dead of the night” era un
hard blues lineare e veloce, la scheggia più hardeggiante dell’album, ma
sempre melodicamente efficace, “With you in a heartbeat”
e “I can’t live without you” erano impostate
su refrain anthemici anche se meno spettacolari e più ruspanti rispetto ad “Holy
water” e “Stranger stranger”. In
chiusura era stata posta “100 miles”, due
minuti scarsi di chitarra acustica e voce, scritta e cantata da Simon Kirke:
insipida e insignificante al punto da risultare quasi comica dopo tanta
magnificenza... Dopo quest’album la storia dei
Bad Company si aggroviglia non poco, con Brian Howe che lascia la band
(dimenticavo: Boz Burrell se n’era andato già dopo ‘Fame
and fortune’, e le parti di basso erano state affidate a dei session
men), rientra per cantare sullo splendido ‘Here comes
trouble’ (sempre sulla scia di ‘Holy water’,
solo un pelo più AOR, uscito nel 1992), se ne va definitivamente e lascia il
posto a Robert Hart per ‘Company of strangers’
(anno 1995), segnato dal ritorno ad un impetuoso hard blues che - almeno nello
spirito - accontenta tutti quelli che proprio non erano riusciti a digerire la
svolta class degli anni ’80, e che dopo il ritorno di Paul Rodgers ed il
reunion tour immagino esultino per il definitivo accantonamento di un discorso
musicale che ha avuto momenti di vera gloria, artistica e commerciale. Alla
faccia dei monickers.
E’ uno dei misteri gloriosi dell’AOR la proliferazione di bands dedite al
rock melodico nel nord Europa. La presenza di tanti ensemble votati
a questa fede musicale in Scandinavia, e sopratutto in Svezia, sarebbe
degna di essere citata nello Strano, ma vero della Settimana Enigmistica: il mercato interno di
questi paesi non ha mai premiato l’AOR, neppure negli anni '80, e la sua
ridottissima potenzialità (la Svezia conta meno di otto milioni e mezzo di
abitanti, il loro disco d’oro vale quindicimila copie o giù di lì) non
poteva comunque essere di stimolo a chi doveva investire tempo e soldi per
registrare un disco. Eppure, proprio dalla Svezia sono arrivati esempi
straordinari di nitore sonoro, lavori dalla qualità audio impeccabile che hanno
spesso e volentieri surclassato gli omologhi statunitensi e canadesi. Gli anni
‘80 vennero segnati indelebilmente da un
flusso costante di bands che facevano dell’AOR più cromato la propria
bandiera: Glory, Treat, Europe, 220 Volt, Baltimore, Bad Habit, Alien e
innumerevoli altri gruppi hanno portato avanti senza indecisioni un discorso
musicale all’insegna del connubio melodia/elettricità che se pure ebbe scarsi
riscontri commerciali (i soli Europe ebbero qualche successo in USA), resta
ancora oggi un pilastro solidissimo del melodic rock. Non che tutto fosse oro
puro, intendiamoci. L’accusa più ricorrente ai gruppi vichinghi era una certa
uniformità della proposta, una mancanza di personalità che li rendeva tutti
somiglianti e quasi intercambiabili. Io aggiungerei anche una tendenza alla
melodia “facile”, al limite veramente melensa, qualcosa che gli svedesi
debbono avere nel DNA, dato che sono stati loro a produrre il gruppo pop più
insulso di tutti i tempi, gli Abba, autori di canzoncine al cui confronto quelle
cantate dai marmocchi che si esibiscono allo Zecchino d’Oro fanno la figura di
arie d’opera. Questi Dalton sono tornati
recentemente alla ribalta perché da qualche magazzino della EMI svedese sono
saltate fuori parecchie copie dei loro due album, per anni pezzi pregiati ed
irreperibili in quanto pubblicati solo in patria. Io avevo all’epoca (Anno
Domini 1989) la fortuna di conoscere una persona che aveva la possibilità
economica di acquistare qualsiasi cosa lo interessasse ed a qualsiasi prezzo
(beato lui) e che mi registrò su una preziosa cassetta questo secondo album dei
Dalton (il primo ‘The race is on’, è del
1987). Purtroppo il nastro si fracassò (evento tutt’altro che infrequente con
questi infernali supporti), e da anni non avevo la possibilità di riascoltare
‘Injection’, che ho potuto finalmente
assaporare in tutto lo splendore del digitale. E il termine splendore
non è affatto riduttivo, perché la pura e semplice qualità audio basterebbe a
rendere piacevole l’ascolto di questo CD, con un impasto di timbriche
contemporaneamente roventi e cromate che si fondono in un melange
spettacolare, privilegiando l’impatto globale sui (rari) momenti solisti. I
Dalton non accusavano che in misura insignificante i tipici punti deboli comuni
alle band della scena scandinava prima esposti, e vale la pena ricordare che per
la produzione di quest’album s’era fatto avanti in un primo momento Michael
Bolton. Il sogno americano dei Dalton non ebbe poi modo di concretizzarsi, ma la
produzione dell’indigeno Per Blom è comunque impeccabile. Il clima prevalente è quello
dell’anthem, dell’arena rock ingigantito e levigato dai tappeti di keys che
si vanno a sovrapporre a riff semplici e diretti: l’iniziale, grandiosa “Go
for it!”; “Love injection”, che si
apre con un riffone di chitarra ed ha qualcosa dei Giuffria più pomp; il
capolavoro “Like an angel”, dove il clima
spettacolare è in buona parte dovuto all’orchestrazione magistrale dei cori;
“Dressed to kill”, quasi Van Halen (quelli più
pop, of course) con un ritornello però in bilico sul filo della
scemenza; “Why don’t you love me?”, con un
coro lineare ed efficace ed un bel solo di hammond. Atmosfere più americane su
“Wild tonight”, vagamente alla
Black’n’Blue, dove chitarra ed hammond si palleggiano spavaldamente
l’assolo, “Love hurts” e “Comin’on
strong”, al limite del metal californiano, “Wake
you up”, in cui le tastiere riprendono il controllo, “Love
lie” dove il gusto pop nel cantato parla la lingua dei Ratt, con un bel
coro diretto ed un intermezzo vincente di atmospheric power. L’unica ballad è
“Heartbroken”, soffusa, tutta keys, con delle
trombe barocche alla Asia che entrano con delicatezza sul coro: potrei
catalogarla alla voce “Pomp” se non fosse che qui manca del tutto il clima
tronfio e roboante che troppo spesso affligge questo genere ormai negletto. Una
menzione d’obbligo per il cantante, Bo Lindmark, un’ugola tutt’altro che
eccezionale ma capace di un’intensità molto superiore alla media dei suoi
frigidi connazionali. L’acquisto è ovviamente
consigliato a tutti (e se lo avete deciso, è meglio che vi diate una mossa,
perché non credo ce ne siano in giro molte copie), con qualche riserva per i più
giovani, abituati alle modeste produzioni dei giorni nostri: c’è il serio
rischio che, dopo aver ascoltato questa gemma dei Big
80s, vi venga voglia di prendere tutti i CD comprati negli ultimi dieci anni e buttarli dalla finestra...
Di
certi dischi, fa quasi male parlare. Fa male, fa rabbia. Fa rabbia vedere band
da due soldi o altre dedite ad un onesto artigianato spedite in paradiso e
garantite come il non-plus-ultra dell’AOR di tutti i tempi mentre i Grandi,
quelli veri, scivolano nel limbo di un passato da cui pare nessuno abbia la
voglia o la possibilità di farli uscire e portarli all’attenzione di chi ha
la metà degli anni dell’autore di queste note e non ha avuto la fortuna di
vivere quella che in tutti i sensi è stata l’età d’oro del genere: quando
non solo l’AOR sbancava le classifiche, ma era realmente vitale, un crogiolo di menti illuminate capaci di riscrivere ad ogni
album le regole dell’Adult Oriented Rock pur senza allontanarsi mai dai suoi
confini. Fa male sapere che dopo aver letto tutto questo, qualcuno si metterà a
caccia dell’opera prima dei Beggars & Thieves, finendo quasi certamente
per sbattere contro un muro. Di certi lavori sono restio a parlare proprio perché
la loro quasi impossibile reperibilità mi fa sentire come se giocassi a quelli
che sbarcano in quest’isoletta nel web uno scherzo sadico. Ecco un altro album
che AORARCHIVIA c’assicura può seppellire il novantanove per cento della
produzione attuale, pensano i miei lettori. Ma dove lo trovo? O - che è quasi
peggio - a quale prezzo? Capolavoro...
Ecco che spunta la fatale parola: chissà quante volte vi sarà capitato di
leggerla, perlopiù usata a sproposito. Quale debba o possa essere la natura
esatta di un “capolavoro” è questione troppo complessa per tentare di
sviscerarla in questa sede. È però ragionevolmente certo che il disco di cui
mi appresto a riferirvi entra di diritto in questa categoria. Cos’ha di
speciale? Un songwriting straordinario, tanto per cominciare. Basta questo per
farne un capolavoro? Forse sì, ma i Beggars & Thieves non si limitavano a
scrivere belle canzoni: riuscivano a dare una lettura della materia (nel nostro
caso, l’hard rock puro e semplice) inedita più che originale, fatta di
arrangiamenti diretti ma mai banali, dove una quantità di elementi venivano
amalgamati con eleganza e fluidità forgiando un sound fatto del più classico
rock americano, di blues elettrico, di suggestioni glam. Sostenuti
dalla major Atlantic, sotto la guida del tandem Steve Thompson/Michael Barbiero,
Lou Merlino (eccellente singer proveniente dai poco noti Centaurus), Phil
Soussan (bassista, già con Ozzy ai tempi di ‘The
ultimate sin’), Ronnie Mancuso (chitarra) e Bobby Borg (batteria)
ebbero però in sorte di far uscire questo disco nel 1990, quando il grunge era
alle porte, passando inosservati in un mercato già saturo di proposte più o
meno buone... storia nient’affatto nuova, e mai a lieto fine. Oggi,
quest’album è uno dei pezzi forti delle aste su eBay, spesso recante il
marchio d’infamia del taglio della confezione, a testimonianza del suo
temporaneo declassamento nella categoria delle offerte speciali... La storia del
secondo album della band è ingarbugliata da due o tre edizioni differenti, con
variazioni della scaletta e del numero delle canzoni che meritano un esame
approfondito, ed è rimandata - spero - ad un’altra occasione. “No
more broken dreams” è il titolo - scaramantico, suppongo - che apre il
disco, preceduto da un lungo intro orientaleggiante alla Cult o Throbs, si
sviluppa in un hard melodico ad ampio respiro, con suggestioni FM rock traslate
in un telaio solido ed elettrico. “Billy knows better”
è urgente, incalzante, con la solista che plana morbida sul riff portante
(zeppeliniano, almeno alla lontana) e poi esplode in un solo bluesato. Il blues,
indolentemente elettrico, sale alla ribalta in “Waitin’
for the man”, con una solista che danza insinuante, l’hammond a
ricamare ed un refrain quasi glam, e nel classico mid tempo “Your
love is in vain”, lento, impreziosito da timbriche di chitarra sature e
grasse, con l’hammond sugli scudi, un coro vagamente soul, un finale tutto
organo completato da un rumore bianco di keys che pare allontanarsi come la
scia di una cometa. “Isn’t it
easy” varia il passo con un intro d’atmosfera ed un clima simile a
quello della track d’apertura, come dei Giant più diretti e meno grandiosi.
Ancora un’introduzione alla Cult per “Let’s get lost”,
che sfocia però in un anthem dallo scanzonato retrogusto glam. Anche “Heaven
& Hell” strizza l’occhio all’arena rock: dopo i tamburi di
guerra dell’intro irrompe un riff funky-zep su cui si muove agile la voce di
Merlino e si chiude in gloria con un infuocato solo di chitarra blues. “Love
junkie” è l’unica canzone che porta il contributo di un songwriter
esterno, il volpone Desmond Child: l’hammond esce con più autorità in questo
anthem dove ancora sono le inflessioni glam a dominare, ma in un contesto
tutt’altro che ingenuo o pacchiano. La power ballad d’obbligo è “Kill
me”, intensa e sofferta, poi arriva “Love’s a
bitch”: comincia con un giro di chitarra spezzato e urticante, poi
entra un riffone massiccio e metallico su cui giostra sinuoso Merlino per un
glam-anthem da antologia (ed a cui JK Northrup fregò l’andamento per la sua
“Rough life”, su ‘Back on track’). Un breve
passaggio di atmospheric power prelude alla title track che chiude questi
mirabili cinquantaquattro minuti di musica con una ballad elettroacustica dove
si intravede ancora qualcosa dei Giant o addirittura dei Guns’n’Roses meno
arrabbiati. Come
ho già ricordato più sopra, i Beggars & Thieves realizzarono anche un
altro disco, che doveva uscire sempre per l’Atlantic nel 1992, ma che la major
poi rifiutò di stampare (i motivi, considerato il periodo storico, sono
facilmente immaginabili) e fu pubblicato invece dalla MTM qualche anno dopo. Dovrei
chiudere questo pezzo con un discorsetto sul genere di quello che concludeva la
recensione dei China Rain: il ragionamento proposto per quell’album si applica
pari pari anche a ‘Beggars & Thieves’. In
alternativa, suggerisco ai responsabili delle labes specializzate in ristampe di
investire parte dei loro guadagni in robuste cure di fosforo: l’effetto
positivo che questo elemento chimico pare abbia sul funzionamento
dell’apparato cerebrale potrebbe rivelarsi decisivo nel liberarci da caterve
di riproposte inutili o risibili e aprire finalmente la stagione delle ristampe serie.
Gli House Of Shakira sono svedesi.
Nei Big 80s questo dato geografico
avrebbe avuto una buona probabilità di descriverli interamente, ma ormai pare
che gli scandinavi si siano emancipati da quell’AOR pomposo che pareva
costituire l’unica via espressiva concessagli da una componente del loro
inconscio collettivo che sicuramente sarebbe stata degna di studio approfondito
in un consesso di strizzacervelli. Purtroppo, altre caratteristiche salienti
dell’hard melodico peculiare di questi paesi pericolosamente vicini al circolo
polare artico restano immutate: la scarsa incisività, un’impressione di
distacco, un sapore d’accademia. Entrando un po’ più nello specifico, gli
HoS soffrono anche per un cantante - Andreas Eklund - dalla vocalità piatta ed
anonima, veramente svedese nel peggior
senso che si può dare a questa parola. Hanno poi il vizio di rivestire le loro
canzoni di testi al limite dell’ indecifrabile: per chi non conosce
l’inglese immagino che questo sia un punto trascurabile, ma il sottoscritto -
che ha una più che discreta conoscenza di questa lingua ed il brutto vizio di
ascoltare in cuffia con il booklet del CD tra le mani - proprio non si sente
coinvolgere da canzoni di cui non riesce neppure ad afferrare il senso. Come “Landing”:
gira attorno ad un bel riffone molto AC/DC corretto alla ZZ Top, ha una
scansione ritmica veramente efficace, ma se qualcuno ha capito cosa cazzo
significano i versi, per favore me lo faccia sapere! Chi si credono di essere
questi tizi, i Jane’s Addiction? Dal mio punto di vista, quasi tutto l’album
è rovinato per colpa di questi maldestri tentativi di originalità a tutti i
costi nelle lyrics. Peccato, perché musicalmente gli HoS possono dire la loro
con autorità, svariano elegantemente tra i generi e dimostrano una misura
davvero encomiabile nel calibrare gli ingredienti della propria ricetta sonora. Si comincia con “Ain’t
your crowd”, che ha un intro di chitarre quasi alla The Music (!!) e si
risolve in un hard melodico ritmato condito da un assolo di chitarra
arabeggiante: piacevole nel complesso, solo il coro è un po’ troppo diretto.
“Uncontrolled” è più veloce, tirata, con un
velocissimo assolo di chitarra malmsteeniano. Qui il cantato è più che mai
slegato dalla canzone, troppo rilassato per l’atmosfera del pezzo, Eklund tira
avanti per la sua strada quasi fregandosene di quello che la band gli suona
attorno. “You are” è più AOR, c’è una
sorta di atmospheric power nell’uso delle chitarre, rafforzato da effetti
“spaziali” di synth. Nel bridge entrano le tastiere ed una chitarra acustica
di nuovo arabeggiante, poi arriva un assolo accademico e troppo heavy metal che
fa a pugni col resto della canzone, ma il risultato globale è comunque
interessante. “Hey Lord” parte con un grasso
riff di chitarra e si realizza nell’opposizione tra architetture elettriche ed
un coro polifonico e melodico di grande impatto. Qui il bridge è geometrico,
d’effetto, l’assolo sa di rock’n’roll: il tutto potrebbe ricordare (alla
lontana) i Beggars & Thieves. “Black and blue skies”
è un intarsio di acustiche folk che rimanda ai Led Zeppelin e ancora di più
all’interpretazione che delle loro suggestioni bucoliche dettero gli Heart
negli anni ’70; nel finale il brano si apre in maniera quasi orchestrale, con
le chitarre elettriche, l’hammond, cori un po’ soul e a chiudere c’è un
bel solo elettrico, quasi celtico, che segue la melodia del coro. Brusco cambio
di atmosfera con “Creep”: qui gli HoS sembrano
diventati i Malice o i Dokken, anche l’assolo è tutto sul melodic metal
californiano, ma il testo è pura follia... Ordinaria “Black
barn”, un hard melodico con tentazioni west coast ed un aria di già
sentito, mentre “State of grace” replica con un
atmosfera più calda, una melodia più incisiva, forse grazie all’hammond in
bell’evidenza che si produce anche in un assolo breve e lineare. Di “Landing”
ho già detto tutto, mentre “Celebration bound”
è un hard melodico ben strutturato con un coro che mi ricorda i Millenium,
almeno alla lontana. “Sunshine song” parte con
le stesse atmosfere di “Black and blue skies”,
poi esplode il riff alla “Kashmir”, entrano gli archi, la batteria procede a
tempo di marcia: un notevole esercizio di hard rock settantiano, zeppeliniano
senza fanatismi, sicuramente il top del disco: se Eklund fosse riuscito a
variare un po’ il suo cantato sempre uguale sarebbe stata ancora più
interessante. Chiude l’album “Chicago Blue”,
acustica e malinconica; un po’ alla Extreme, forse. In definitiva, si può dire che gli
House of Shakira hanno confezionato un album più che dignitoso, piacevole
all’ascolto ma ben lontano dal poter scatenare alcun coinvolgimento fisico
(nel senso lato dell’espressione, of course). La temperatura si
mantiene costantemente sul tiepido ed il maggior responsabile dello scarso
regime termico è Eklund, che è intonato ma non ha più personalità, emotività
e calore di un pupazzo di neve. Per me si tratta di un difetto abbastanza
rilevante, qualcun altro potrebbe ritenerlo un particolare trascurabile. Lascio
alla sensibilità ed al gusto di chi legge decidere o meno l’opportunità
dell’acquisto.
Se avessi l’abitudine di dare un titolo alle mie recensioni, a questa potrei affibbiare qualcosa del tipo: attenti ai videoclip... Forse anche voi vi sarete imbattuti nel clip di “We are”, la canzone estratta da quest’album ed inclusa nella soundtrack di Spiderman 2. E forse, come me, dopo aver superato l’inevitabile attimo di stordimento causato dal personale di Ana - svedese che più svedese non si può: bionda-occhi azzurri, nasino all’insù, alta, longilinea eccetera - avrete realizzato che “We are” è una notevole scheggia di rock duro, moderna ma con un certo feeling ottantiano (Joan Jett meets Evanescence?). Una rondine, dicevano i nostri saggi antenati, non fa primavera: ma era ragionevole supporre che le coordinate dell’album - il primo mai pubblicato - della scandinava in questione non dovessero allontanarsi troppo da quelle fissate per la canzone finita nella colonna sonora già citata, tanto più che questo pezzo non era stato scritto apposta per il film, né aveva subito il trattamento di produttori diversi da quelli che avevano curato l’insieme di ‘The way I am’. Dato, però, che l’estensore di queste note è un individuo di natura sospettosa e malfidente, prima di cavare dal portafogli la moneta necessaria per venire in possesso del disco, ritenne opportuno fare qualche ricerca on-line su miss Johnsson. L’album era già uscito in Svezia e Germania fin da gennaio 2004, ma non c’erano recensioni che lo descrivessero, almeno non in inglese (forse ce ne sono in svedese e tedesco, ma...). Dubbio amletico: aspettare che qualcuno si degnasse finalmente di prendere in esame quest’album oppure correre il rischio? Il disco era disponibile nel negozio sotto casa: niente ordini on line, niente spese postali, niente attese per pacchi che debbono percorrere migliaia di chilometri prima di finire nelle mie mani... Dunque, eccoci a parlare di ‘The way I am’. Che non si è rivelato una fregatura, ma neanche un’illuminazione. La confezione è di gran lusso, con tanto di digi pack contenente il clip di “We are” ed un altro filmato (un’esibizione televisiva, pare) e qualche foto di Ana. Le canzoni sono nove... e lo stile di “We are”, naturalmente, ha riscontro scarso o nullo con il resto del materiale. Certo, tutto si può rimproverare a quest’album salvo l’uniformità, si svaria dal puro pop fino all’hard rock, in un viaggio - non particolarmente impegnativo - attraverso tutto l’universo musicale degli ultimi dieci anni, ma con ben più di un richiamo ai Big 80s. Le uniche tappe veramente insopportabili di questo itinerario sono “Coz I can”, punkettino scialbo e plastificato con testo ultrafemminista (ma ‘sta roba non era passata di moda dai tempi delle L7?), e “Crest of the wave”, pop sintetico vagamente alla Depeche Mode (band degna del massimo rispetto ma che chiunque ami la musica rock ha tutto il diritto di trovare indigesta). “Life” è l’unica scheggia che s’approssima alle atmosfere di “We Are”, almeno nel ritornello rockeggiante, mentre la ballad “Now it’s gone” è la cosa più vicina (ma vicina davvero) all’AOR di tutto l’album (mi ricorda - ma questo paragone prendetelo con le molle - certe cose dei Ten periodo 'The robe'). “Don’t cry for pain” e “Here I go again” parlano la stessa lingua di Sheryl Crow, anche se con un pizzico d’energia in più, "The way I am" è un bel rock melodico moderno, come una Avril Lavigne finalmente libera dai suoi furori tardo-adolescenziali (Ana Johnsson non è la solita sbarbina che pare arrivata sul set dei suoi videoclip dopo aver marinato la scuola: ha ventisette anni, e si sente). “I’m stupid” si risolve in una riuscita esercitazione sul tema dell’ alternativo/commerciale (avete presente i Garbage?), “L.A.” è i Kula Shacker corretti alla M2M: simpatica, scanzonata. Il top del disco mi pare sia “6 feet under”, divisa tra acustico ed elettrico, ariosa, con un’estensione melodica degna del miglior Seal applicata ad un telaio solidamente rock. Se il new breed of melodic rock è il vostro pane, non fatevi sfuggire questo disco. Ai più conservatori (io faccio parte senza incertezze di questa categoria) suggerisco un ascolto preventivo o di aspettare il giorno non lontano in cui finirà in mid-price. A dieci euro vale sicuramente l’acquisto. Alla cifra a cui l’ho pagato io, forse un po’ meno... |