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Bad
English |
Backlash |
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Se
c’è una band, UNA SOLA band che incarna nel modo più fulgido e completo tutto
ciò che l’AOR ha rappresentato - e rappresenta ancora oggi, sia pure per uno
sparuto manipolo di aficionados - questa band sono i Bad English. Non
sono stati dei precursori e neppure i fondatori del genere, ma i suoi
interpreti più sublimi. Se vogliamo paragonare il predominio dell’AOR nelle
classifiche americane ad un lungo party, loro sono arrivati certo al culmine
della festa, quando i fuochi artificiali stanno per esplodere e gli ospiti
cominciano a scoprirsi estenuati dal troppo divertimento. Ma il parallelo mi
suona inopportuno ed irriverente. Il grande problema di questo genere
musicale è sempre stato solo e soltanto uno: riuscire a farsi prendere sul
serio. In un mondo dove la musica “intelligente” per antonomasia era quella
dei Television, dei Talking Heads o dei Sonic Youth - tanto per fare tre nomi
- dove tutto ciò che si vendeva a milioni di copie veniva guardato subito con
sospetto e bollato con il marchio d’infamia di “musica commerciale”, dove la
stessa capacità tecnica era oggetto di critiche astruse, figlie della più
volgare e grossolana mitologia punk, l’AOR si prestava magnificamente al
gioco al massacro dell’intellighenzia critica che sulle due sponde dell’Atlantico
pontificava dalle riviste di tendenza. Genere plastificato, calcolato a
tavolino, vuoto di idee e contenuti, solo un gran velo iridescente che copre
il nulla... quante volte abbiamo dovuto sopportare questo genere di critiche?
E quanti hanno saputo rispondervi? Di difese d’ufficio dell’AOR ne ho lette
poche, e mai realmente convinte, e comunque - a mio sommesso parere - sempre
impostate nella maniera più sbagliata, esaltando proprio quelle
caratteristiche che rendevano apparentemente il genere tanto odioso a chi
sbavava sugli album di Nirvana e compagnia brutta. Non basta dire: a me le
cose piacciono fatte così e così, amo la melodia unita alla potenza, le
grandi voci, un clima “leggero”. Anche perché, dannazione, nell’AOR, nel
grande AOR c’era ben altro. * * * Nel
1988, uscì negli Stati Uniti un film-documentario intitolato The decline of western civilization part
II: the metal years. Il titolo già dice tutto sul contenuto. Gli anni
’80, gli esecrabili, volgari, superficiali, menefreghisti, rapaci, decadenti
anni ’80 descritti attraverso la loro colonna sonora: il metal. Non credo che
un singolo decennio del nostro secolo sia mai stato tanto aborrito,
disprezzato, addirittura odiato. Eppure erano anni dorati, splendenti. Anni
di prosperità economica, di relativa stabilità. A paragone dei ’90, con tutto
il loro carico di recessioni, guerre, terrorismo, inquinamento e caos
generalizzato, quell’epoca appare una specie ultimo Eden: forse, un giorno,
anche agli anni ’80 verrà attribuito l’aggettivo ruggenti. Forse. A quel decennio non è toccato di venire
circonfuso di un alone romantico, e chi lo ha vissuto da protagonista non
sembra ancora trovarsi nella posizione di poter dettare legge, di fare la
voce grossa: viviamo ancora l’onda lunga dei ’60, fra orde di vecchi ragazzi
dai capelli grigi che rimpiangono tutti i miti languidi di quell’epoca,
mentre degli anni ’70 sembra si sia più interessati a recuperare i vestiti -
orrendi - che i valori. Dieci o vent’anni ancora, e, chissà, gli anni ’80
diventeranno il decennio da recuperare, la materia grezza su cui modellare il
nuovo trend. Con quali risultati, non oso immaginarlo. Anno
del Signore 1982. Una band di nome Journey decide di far cambiare rotta alla
propria musica, di aggiornarne temi e stilemi per allinearsi al nuovo sound
che Foreigner e Boston stanno portando al successo in USA. Il risultato,
dirompente ed epocale, si chiama ‘Escape’. Un disco talmente nuovo che per descriverlo si deve
inventare di punto in bianco una nuova etichetta: Adult Oriented Rock. Musica tosta,
ma non troppo, e con un target che - per l’immagine della band e i testi
delle canzoni - non è quello classico degli adolescenti. Da
qui comincia tutto, e tutto quello che è venuto dopo è storia. E la domanda
da porsi è: perché è successo?
Perché dopo la discomusic, il punk e la new wave, gli USA hanno scelto l’hard
rock, quel genere di hard rock? Gli
anni ’70 erano stati anni cupi, in tutti i sensi. Tra il Viet Nam e la crisi
economica c’era ben poco da stare allegri. I giovani vagavano senza meta tra
le rovine dei grandi miti che avevano caratterizzato il decennio precedente,
incapaci di travalicarli e di crearsene di nuovi. Anche il look pareva riflettere questo stato di cose: sciatto,
trasandato, incolore. Anni grigi. Di quella messa in scena, il punk era stato
la comica finale: uno scoppio di rabbia cieca, di furia ottusa, la rivolta
contro non si sa chi e non si sa cosa, inevitabilmente destinato a
concludersi in un nulla di echi e macerie. La rivolta vera, autentica, c’era
già, ed aveva molti volti contrastanti e molti nomi: Kiss, Deep Purple,
Aerosmith, Alice Cooper, Stooges, Black Sabbath, Queen, Bad Company e -
sopratutto - Led Zeppelin. Quante volte avete letto questi nomi nelle tante storie
della musica rock scritte da critici più o meno illustri e “illuminati”,
sopratutto nostrani? Quel periodo storico viene cancellato, rimosso come un
brutto ricordo: i ’70, gli anni della disco e del rock progressivo, e basta.
Oppure tutto viene risolto in poche righe sprezzanti, dove un intero
movimento musicale viene ridotto alle maschere dei Kiss, ai movimenti pelvici
di Robert Plant o a Ozzy che squartava a morsi i pipistrelli. Non credo sia
tanto una questione di malafede, o di pura e semplice ignoranza, quanto la
precisa volontà di tagliare fuori dal quadro quegli elementi che non fanno
comodo a questi signori per avallare le loro teorie. Come può reggere la
tesi che il punk rappresentava la rivolta dei giovani contro i dinosauri del
rock, quando in giro c’erano bands come i Led Zeppelin? Che il rock s’era
imbalsamato quando l’America era percorsa in lungo e in largo da realtà come
i Grand Funk o i Bad Company? Eppure, gente come Scaruffi o Castaldo da
vent’anni ci propinano queste idiozie, e nessuno si è mai sognato di
confutarle o almeno di metterle in dubbio. Il punk era la rivolta? No. La
rivolta, l’ho scritto, c’era già. Una rivolta molto più profonda e viscerale
di qualsiasi nenia punk, di cazzate come “God
save the Queen, and her fascist regime”. Una rivolta che non si basava
sulle parole, sulle chiacchiere, sugli scalpi alla moicana e le spille da
balia usate come orecchini, ma solo e unicamente sulla musica, sul
coinvolgimento fisico ed emotivo che la musica poteva scatenare. Forse nulla descrive
meglio questo clima dei concerti dei Led Zeppelin, antitesi dei grandi raduni
collettivi del decennio precedente, impregnati di amore, erba ed illusioni
utopistiche e mitizzati fino all’indecenza: c’era solo la qualità essenziale della musica a stregare
il pubblico, a tenerlo inchiodato per due o tre ore di fila. Era
un’esperienza nient’affatto intellettuale, ma squisitamente fisica, nel senso più ampio della
parola: qualcosa che poteva squassarti il corpo e l’anima nello stesso tempo,
puro nutrimento per lo spirito. Perché la musica deve andare dritta al cuore,
allo stomaco, a qualsiasi parte del corpo, basta che non sia il cervello. Non
si ascolta musica come si legge un libro: ragionando, riflettendo. Tutto
dev’essere abbandono, complicità, una danza dei sensi. William Burroughs
scrisse: “Bisogna ricordare che
all’origine di tutte le arti ci sono la magia e l’invocazione; e che la magia
è sempre utilizzata al fine di ottenere qualche risultato magico. Nei
concerti dei Led Zeppelin, il risultato desiderato sembrerebbe essere la
creazione di una forma di energia per i musicisti ed il pubblico.” La
musica intellettuale, la musica
dove la magia è sostituita dal freddo ragionamento, è una truffa priva di
significato, una scappatoia per i frigidi che non sanno e non vogliono
abbandonarsi, cedere, arrendersi. L’hard
rock, in tutte le sue forme, è forse il medium più adeguato a tessere questo
incantesimo, grazie ai suoi volumi ed alla sua aggressività. E non per nulla
divenne la scappatoia preferita dei giovani americani negli anni ’70. Niente
promesse vane, niente miti, nessun uso strumentale della musica per
propagandare messaggi più o meno politici. Solo magia. Quella magia che il
punk più becero pretendeva di sostituire con una rozzezza programmata, con
una grossolanità fiera di se stessa e un affastellamento di suggestioni
extramusicali che ancora oggi tengono (in parte) banco. Che tutto ciò non
avesse il minimo senso lo capì il pubblico prima degli stessi musicisti
coinvolti in quella sciagurata stagione, abbandonandoli presto al loro
destino e ricominciando ad interessarsene solo quando mutarono - parzialmente
- rotta. Intanto,
gli anni ’70 si erano (finalmente) conclusi. E un nuovo decennio cominciava,
tra speranze e nuovi miti. * * * The
Big Eighties. Così li chiamano a MTV, fra
ironia e malcelato rimpianto. Tradurre quel Big è meno facile di quel che sembra. Non semplicemente “grandi”:
forse è più adatto “imponenti”, “grandiosi”. Gli anni del lusso ostentato e
della voglia di successo a tutti i costi, dei Soldi, con la maiuscola. In
USA, indiscutibilmente, gli anni di Reagan. Nella successione di pupazzi che
hanno occupato il centro del palcoscenico nel teatrino della Casa Bianca,
Ronnie è stato quello più odiato e più rimpianto. Odiato e rimpianto per la
medesima cosa: le sue bugie, le sue gloriose menzogne. Ha sfasciato il
bilancio pubblico riducendo le tasse ai ricchi, ha speso cifre scandalose per
gli armamenti, s’è schierato senza mezzi termini con il capitale al punto di
licenziare migliaia di controllori di volo che scioperavano per i salari
troppo bassi, ha finanziato guerre sporche... la lista dei suoi misfatti è
praticamente senza fine. Eppure, gli americani l’avrebbero rieletto senza
esitazioni se la legge non gli avesse precluso un terzo mandato
presidenziale, e la voglia di perpetuare la magia dei suoi anni si spinse
fino al punto da indurli a sostituirlo con il suo opaco vice, e padre
dell’attuale pupazzo in carica. Perché tanto entusiasmo per un personaggio
simile? Perché, come mai era accaduto dal dopoguerra, Reagan sapeva far
sognare gli americani. Toccava con le sue visioni le loro corde più sensibili
e profonde, e quelle visioni non erano frutto di un mero calcolo
propagandistico, Reagan credeva alle sue stesse bugie: il più convinto e
ardente interprete di quella grande truffa chiamata Sogno Americano è stato
senza dubbio lui. Ottimismo ed entusiasmo: ciò di cui gli yankees avevano più
che mai necessità, dopo i grigiori degli anni ’70. Una nuova voglia di luce e
splendore sorse nella società americana. Di lasciarsi alle spalle ogni cosa e
godersela: egoisticamente, narcisisticamente. Ognuno per sé e Dio per tutti.
La vita è una corsa, e se resti indietro sono cavoli tuoi. Questo è il succo
della filosofia americana, in ogni tempo ed in ogni epoca. Reagan riusciva a
ripulirla dei suoi macabri sottintesi ed a presentarla come il non-plus-ultra
del vivere civile. E tutti volevano, avevano uno smisurato desiderio di
credergli. E’
di questo clima godereccio e festaiolo che l’AOR si fa interprete. Di questa
nuova, sfrenata gioia di vivere, di un pensare
positivo che fa di tante canzoni inni alla fiducia in se stessi. Perfino
le bands di heavy metal rinunciano al look tutto pelle e borchie ed all’aria
truce per darsi un’ immagine più leggera, colorata, sofisticata, creando poi
un suono adatto ai nuovi tempi, tanto distante dai canoni consueti da venire
battezzato in maniera quasi antitetica: class
metal. Sì: classe. Perfino la metallurgia
pesante (è questa la traduzione esatta, per essere precisi...) scopre che
non si può rimanere incazzati e immusoniti sotto il cielo cristallino (smog
permettendo...) della California, in quella Los Angeles che dopo anni di buio
si ritrova capitale indiscussa del nuovo fenomeno musicale, la nuova mecca
per le bands che vogliono inserirsi e ritagliarsi un posto sotto quel sole
splendente. New York ed i suoi locali vanno in naftalina, e i nuovi luoghi di
culto si chiamano Roxy, Troubadour, Gazarri’s, Blue Jay, Country Club, Cathouse.
La scena di L.A. è la scena, e
fatto salvo il minuscolo palcoscenico aperto nel New Jersey da Bon Jovy,
tutta la saga dell’AOR si svolgerà nella città degli angeli, la città di
Hollywood e Disneyland, fra le sgargianti scenografie di cartone racchiuse
tra le spiagge di Venice e le ville di Malibù: un inequivocabile segno dei
tempi e di ciò che l’America desidera dalla sua nuova colonna sonora. E
lo spettro di quel suono è tanto vasto da poter venire incontro ad ogni gusto
ed esigenza. Ad un estremo stazionano la teatralità eccessiva e
gradguignolesca dei WASP ( ossia: We Are Sexuals Perverts...), la
pericolosità glam dei Motley Crüe, il pop metal scanzonato dei Ratt, la
calcolata rozzezza elettrica ed anthemica dei Twisted Sister, la potenza metal/melodica
dei Dokken; all’altro, le melodie levigate dei Journey e dei Foreigner, i
richiami alla tradizione blues dei Great White, la rassicurante immagine da
“bravo ragazzo” di Bon Jovy, il fascino sovrano degli Heart e della loro
formidabile e bellissima cantante. In mezzo, una sterminata massa di bands
che esplorano ogni possibile variante e sfumatura del connubio hard rock +
melodia. Anche il più leggero pop-rock da classifica si ripresenta con una
nuova tempra e lame più affilate: Bryan Adams, Aldo Nova, i Toto, Rick
Springfield interpretano quella temperie che vuole volumi alti e chitarre a
manetta anche nei più facili refrain da FM. E’ un’alluvione di elettricità
che invade ogni angolino dove ci sia necessità o voglia di musica: perfino i
jingle pubblicitari e le colonne sonore dei telefilm vengono ritmate a tempo
di rock duro. Se l’Europa viene
contagiata da questa febbre tardi e in modo blando, il Giappone risponde
entusiasticamente alle nuove sollecitazioni che arrivano dal Nord America,
diventando a tutti gli effetti il secondo mercato per le bands di AOR.
L’affermazione indiscutibile, anche a livello di puro trend giovanile, passa
attraverso la neonata MTV, dove i video-clip delle AOR bands escono spesso e
volentieri dal recinto loro assegnatogli ( il leggendario Headbangers Ball, che nel periodo di
maggior successo del genere stabilì probabilmente il record interno di durata
per una trasmissione della rete musicale, arrivando a tre ore tonde tonde)
per sconfinare in heavy rotation. Il
cambiamento di sound era stato accompagnato - inevitabilmente - da un nuovo
look. La trasandatezza dei ’70 aveva lasciato il posto ad uno sgargiante,
ridondante insieme fatto di chiome platinate, fluenti o permanentate con
chili di lacca, pantaloni di pelle o spandex multicolori, stivali da cowboys,
spolverini di seta, lustrini, il tutto più o meno caricato a seconda dei
generi specifici in cui le bands si andavano a situare, con i vari act del
rinato movimento glam esplosi nella
seconda metà del decennio che aggiungevano al tutto anche make-up e pose
ambigue. E’ un look deliziosamente falso, studiato per catturare gli occhi e
dare preciso il senso della distanza
fra musicisti e pubblico, l’opposto della spartana semplicità dei vecchi act,
che salivano sul palco vestiti come i ragazzi che stavano qualche metro sotto
di loro a guardarli suonare. Perché questo pubblico non ricerca la
partecipazione, ma solo l’incanto, lo shock sensorio: vuol farsi avvincere,
non convincere; farsi prendere in un vortice, non fare due chiacchiere. Nulla
esprime meglio tutto ciò del titolo di un album dei WASP: Inside the electric circus. Tuffiamoci
nel Circo Elettrico. Questa
lunga ubriacatura collettiva non poteva protrarsi all’infinito. I segnali che
l’etica del “me ne frego” era destinata a produrre una serie quasi
irreparabile di disastri non erano certo mancati. E la gente, nonostante ciò
che pensano i politici e gli intellettuali, non è poi tanto stupida. In
musica, questi segnali portarono all’attenzione del pubblico un nuovo genere,
lo street metal, che tenne banco per qualche anno dall’ ’87 in poi. Se i suoi
più noti e chiassosi esponenti restano ancora oggi i Guns’n’Roses, forse i
migliori e più sinceri alfieri del movimento furono L.A. Guns e Faster
Pussycat. Più violenti e punkeggianti i primi, più decadenti e glam i
secondi, agli occhi della gente rappresentavano comunque lo stesso messaggio:
perfino sull’Hollywood Boulevard non è tutto oro quel che luce. Era la rabbia
e la pericolosità del rock nella sua forma più tradizionale che rifaceva
capolino dopo anni di rappresentazioni edulcorate, di concerti ridotti spesso
a spettacoli di varietà, di provocazioni alla rovescia di bands come gli
Styper che durante i loro shows lanciavano Bibbie al pubblico... Gli
anni’80 tramontavano fra bagliori corruschi, e la notte incombente era più
nera del nero. Tutti sapevano che la festa stava per concludersi, e che
l’inevitabile doposbronza sarebbe stato durissimo. Ma l’atteggiamento di
molti, anche in musica, era freddo, compassato. Tante bands, pur di fronte ai
segnali allarmanti che spuntavano ormai dappertutto, continuavano
imperterrite lungo la strada dell’hard rock sofisticato, in una progressione
che proprio in quegli ultimi anni avrebbe prodotto i frutti più splendidi e
luminosi: Giant, House of Lords e, naturalmente, loro, che, citando Verlaine, potevano ben dire: Io sono l’Impero alla fine della
Decadenza, che guarda passare i grandi barbari bianchi, componendo acrostici indolenti, d’uno stile d’oro in cui danza la
luce del sole... * * * I
frutti più interessanti vengono generati spesso da unioni contro natura, da
combinazioni poco probabili di fattori già noti, ed hanno vita breve e
tormentata. I Bad English appartengono
a questa genia: nacquero dall’incontro di tre elementi ben distinti,
splendettero luminosi come bengala in una notte senza luna, e durarono appena
tre anni. Le componenti basilari
erano due coppie di musicisti che rappresentavano schegge fondamentali di
bands già leggendarie: Neal Schon e Jonathan Cain, chitarra e tastiere, il
cuore pulsante dei Journey; John Waite e Ricky Phillips, voce e basso,
l’anima vibrante dei Babys. A completare il cerchio, Dean Castronovo,
batterista di estrazione heavy metal. Era un’equazione inedita, eppure
singolarmente azzeccata: il nucleo della band che aveva inventato l’AOR, un drummer fragoroso, un singer dalla voce nello
stesso tempo così rock e così fragile. Alla fine degli anni ’80 il trend per
l’hard melodico era fatto di volumi più alti ed un’aggressività più
metallica, ma senza intaccare l’ampiezza dello spettro melodico: più acciaio,
insomma, ma senza rinunciare a neppure un centimetro di seta. Tutto si
riduceva alla ricerca di un equilibrio che pareva instabile, e lo era.
Occorreva una bravura mostruosa ed un talento sconfinati per camminare lungo
quel filo così sottile. Loro
l’avevano, e non si limitarono ad una semplice passeggiata, ma si esibirono
in volteggi e acrobazie irripetibili. Il
primo, omonimo album uscì nel 1989. Prodotto da Ritchie Zito - che si avvalse
della collaborazione come ingegneri del suono e mixer di Phil Kaffel e Mike
Fraser - con il robusto supporto nel songwriting di grossi calibri come Mark
Spiro, Diane Warren, Martin Page, Bad
English era una prova nello stesso tempo raffinata e fragorosa di
lucidità compositiva, che riassumeva con esemplare chiarezza tutto il meglio
che l’AOR poteva esprimere in quel particolare momento storico: “Best of what
I got” era un titolo più che mai azzeccato per la canzone che apriva l’album,
introdotta da una scintillante sezione fiati e da un solo spettacolare e
vanhaleniano di Neal Schon. Parafrasando: questo è tutto il meglio che
possiamo offrirvi. Il
percorso disegnato dalle tredici canzoni del disco era un continuo via vai
tra i due poli opposti attorno a cui si è dipanato il filo dell’AOR: il
romanticismo mai edulcorato e zuccheroso, e l’assalto frontale all’insegna
del sex & fun. C’è quasi sempre
una lei a cui John Waite si rivolge, con toni accorati (“Tought time don’t
last”), teneri (“When I see you smile”), tentatori (“Heaven is a four letter
word”), suadenti (“Price of love”, “Possession”), malinconici (“Ghost in your
heart”), sfacciati ( “Lay down”, “Rockin’horse”, “Best of what I got”), minacciosi
( “Forget me not”). Il sound della
band prende le mosse da quello già ampiamente collaudato dei Journey, ma ne
amplifica e dilata lo spettro, estendendone e irrobustendone le trame: le
chitarre si moltiplicano, la batteria s’innalza tuonante, i tappeti di
tastiere si sovrappongono in maniera spettacolare, e anche le ballad più
intense vengono avvolte in arrangiamenti ricchi di forza e colore, di suoni
brillanti ma mai pomposi o sovraccarichi. Spesso e volentieri, la band
deborda nel puro e semplice hard rock: melodico, of course, ma sempre decisamente hard, ed è straordinario sentire
con quale autorità la voce esile di John Waite riesce a dominare l’incalzare
affilato e funkeggiante di “Lay down”, a cavalcare il riff simil-zeppeliniano
di “Ready when you are”, a tenere saldamente le briglie della scatenata
“Rockin’ horse”. E la proposta non perde un grammo della sua raffinatezza
neppure quando i volumi aumentano e i testi si fanno impudenti e carichi di
allusioni: mai, prima, una band aveva dimostrato una tale dose di quella
qualità così difficile da definire che viene chiamata classe, e che qui prende la forma di una sofisticata eleganza che
neppure i facili refrain possono camuffare. E
Bad English non rappresentava una fonte di puro e semplice intrattenimento,
ma un manifesto di quella dorata spensieratezza che aveva dominato l’animo
degli yankees durante tutti i Big 80’s, un invito a chiudere tutto fuori e
dedicarsi alle cose essenziali della vita: l’amore ed il divertimento. Non
c’è spazio per il disagio, l’incertezza, l’indecisione, si punta dritto al
bersaglio, lavorando attorno alla più classica iconografia rock, e John Waite
può cantare con assoluta convinzione I
pack a suitcase/ and move from town to town/ a little east of Eden/ too late
to turn around oppure Desert
highway to a memory/ I said that I’d come back for you/ by the jukebox at the
starlight grill/ kickin’ out some Elvis tune... sono quarant’anni di
immaginario del rock americano distillati in pochi, efficacissimi versi. Un quadro dai colori squillanti,
vividi, dove non può esserci posto per le ombre, e anche il malessere
giovanile messo in musica in “The restless ones” viene esorcizzato con
l’energia e l’entusiasmo: On the
streets of this town there is no surrender/ They’ve got a number for every
name/ Buildings and shopping malls seem like a stage for pretenders... They criticize the clothes you wear/ they try ad
make you feel like stranger/ But you do things they wouldn’t dare... The wild
heart is calling us in the night, a primitive love in your eyes/ Out on the
wasteland of broken dreams go you and I, we’re the restless ones... Ma
le ombre, quelle ombre che nessuno voleva vedere, erano lì, in agguato... * * * Nel
1991, una band di nome Nirvana si ritrova quasi da un giorno all’altro con il
suo secondo album, ‘Nevermind’, al numero uno di Billboard. Non si potrebbe
immaginare qualcosa di più radicalmente diverso nella musica e nel look di
questi tre ragazzi giunti da una delle città più deprimenti degli USA -
Seattle, al confine col Canada, dove piove trecento giorni l’anno - da quanto
era andato per la maggiore fino a quel momento. I REM ed i Sonic Youth, i
primi Black Sabbath ed il punk americano vengono impastati e sbriciolati e
trasposti in salsa guitar-pop: la perfetta traslazione del troppo
intellettuale college-rock per i gusti più semplici degli adolescenti, il
tutto condito di testi anarco-nichilisti che puntano a solleticare ed
attizzare furbescamente il disagio giovanile più che a lenirlo o a dargli una
risposta. Le nuove parole d’ordine sono rabbia e indolenza, il divertimento
smette di essere cool, e Kurt
Cobain diventa l’ennesima incarnazione di Werther, terminando la sua vita
nell’unico modo ammissibile per il ruolo di eroe maledetto che la stampa, i
discografici ed i suoi fans sparsi in giro per il mondo gli avevano cucito
addosso: sparandosi un colpo di fucile in faccia. Bisogna
ammettere che all’alba dei novanta non c’era poi molto da stare allegri: la
recessione era tornata a colpire, e l’America si ritrovava piena di
disoccupati e con un debito pubblico spaventoso; la prima guerra del golfo
aveva fatto il resto. Ma tutto questo non può bastare a spiegare il
cambiamento di rotta repentino e violento che quasi da un giorno all’altro
lasciò disoccupate torme di AOR bands. Piuttosto, ci fu un deciso voltafaccia
dei discografici, che scelsero in blocco di puntare sul nuovo trend musicale,
pilotandolo come mai prima era avvenuto, spremendolo come un limone e
seppellendolo in fretta e furia quando nuove sensazioni si affacciarono
all’orizzonte. I
pochi superstiti della stagione precedente che ancora avevano il sostegno
delle majors non faticavano troppo a tenere il mercato: Def Leppard, Van
Halen, Bon Jovy continuarono tranquillamente a fare dischi (e a venderli)
alla faccia dei Pearl Jam (che rimangono
a tutt’oggi la più raffinata ed ipocrita macchina per fare soldi mai
messa in piedi dallo show business, una band che ha elevato la falsità e la
sete di guadagno ad opera d’arte, e riesce a tradurre compiutamente e fino al
suo fondo coperto di marciume il senso
di quella frase sibillina che tante volte è risuonata durante questo
mezzo secolo di musica destinata al pubblico più giovane e sprovveduto: La grande truffa del rock’n’roll...).
Ma indubbiamente, per tutti gli altri si preparavano tempi nerissimi. Chi
tentò la carta della conversione alle nuove sonorità generalmente non
ricevette in cambio che pernacchie o indifferenza: il caso dei Motley Crüe
parla per tutti. Posto che le quote di mercato si erano ridotte, ci sarebbe
comunque stato spazio per l’AOR nei cataloghi delle case discografiche, e per
qualche tempo - un anno, forse due - il dubbio che il neonato grunge non
fosse altro che un fuoco di paglia tormentò i consigli d’amministrazione delle
grandi corporations del disco al punto da indurli a sostenere ugualmente -
pur tra mille dubbi e ambiguità - quegli artisti che portavano avanti un
discorso musicale cominciato ormai dieci anni prima. Di album registrati ma
mai pubblicati, oppure ritirati dal mercato dopo pochi mesi potremmo fare un
elenco lungo mezza pagina. Forse anche i Bad English avrebbero rischiato di vedere il loro
secondo lavoro, Backlash,
condannato a diventare un disco fantasma, come quelli di Unruly Child o
Beggars & Thieves, se non si fossero sbrigati a pubblicarlo proprio in
quel fatale 1991. * * * La
fine della festa era ormai nell’aria, le ombre s’addensavano. C’era quasi un
senso di catastrofe imminente che aleggiava su L.A.. E secondo il più
classico dei copioni, tutti cercavano di ignorare quanto stava per capitargli
tra capo e collo. Oppure, sovranamente sprezzanti, tiravano per la loro
strada. E’ di questo clima che si fa interprete la canzone che apre Backlash, “So this is Eden”. Too far gone to turn around/ as I make it into
town... Sì, troppo tardi per tornare
indietro, e allora avanti, avanti... Il tono di quest’anthem raffinatissimo è
solo in apparenza scanzonato: c’è una nota struggente, malinconica, quasi
disperata e nello stesso tempo gelidamente divertita che risuona nella voce
di John Waite. È la voce di chi sente che i bei giorni sono al capolinea, e
quel che resta è godersela comunque finché è possibile: Hit the freeway to the skyline/ need some faster ecstasy. E così: I thought I saw Jesus in the hotel room/
As we made love on the balcony/ with a drink in my hand/ Like they said it
would be, yeah/ So this is Eden... Dunque,
questo è l’Eden: breve, finto, effimero. L’Eden è Los Angeles, la
città di cartone e celluloide, perennemente in attesa di un Big One che la
spazzi dalla faccia della terra, la Los Angeles sarcasticamente ritratta in
“Life at the top”, dove if you’ve got
the image/ And symbol of success/ You
must me doing something right/ To keep up with the Jones’s, la città dove If you get up on the table/ You’re gonna
lose your place e If you need a
plastic surgeon/ I know an ace/ You can’t change your past/ But he can change
your face. L’atmosfera
che aleggia su Backlash è - salvo per un paio di episodi isolati -
solo lontana parente di quella che impregnava ogni nota di Bad English: qui c’è un feeling che
sta al confine della malinconia, un senso di attesa, come di chi contempli un
tramonto sfavillante e poi goda le lusinghe del crepuscolo ben sapendo che la
notte non porterà che tenebre e gelo, ma deciso a godere ogni istante le
dolcezze di quell’ambigua terra di confine situata tra il giorno e la notte,
dolcezze che traggono la loro fonte proprio dalla natura ambigua, fugace ed
illusoria di quella terra. Se ad un album si possono associare dei colori,
questo risplende di oro rosso, azzurro cupo, quell’azzurro luminoso e tramato
di nero che è l’essenza stessa del crepuscolo, l’azzurro che risplende e
abbaglia ma senza dare vera luce. Sono i colori di “Savage blue”, di
“Straight to your heart”, di “Make love last” e, sopratutto, di “Time stood
still”, la ballad capolavoro, la ballad perfetta.
Se le parole potessero tradurre fedelmente la magia e le emozioni, a questa
sola canzone si dovrebbe dedicare un saggio, un libro intero. Ma dato che
note e lettere non sono intercambiabili (e che la critica strutturalista,
nella sua ansia di arrivare al fondo meccanico e puramente tecnico di
qualsiasi forma d’espressione artistica, non è arrivata ancora a macellare ed
a fare l’autopsia anche alla musica rock), un libro del genere credo non lo
leggeremo mai... grazie a Dio. The
first time that I saw you, you were dancin’ on the beach/ Poetry in motion,
but you seemed so out of reach/ And the waves were breakin’ round you, in the
California sunset... Sono le parole
che John Waite quasi sussurra dopo le prime note modulate dalla chitarra
acustica di Neal Schon, per quest’unica occasione reminiscente di qualche
lontana jam dei Santana. Magia... Per qualcun altro, solo una
rappresentazione plastificata, edulcorata, irreale. Ma la storia che in pochi
versi ci racconta il cantante, la ragazza bionda incontrata sulla spiaggia al
tramonto, le mani che si toccano, la notte passata assieme, l’alba, lei che
va via, per sempre, ma il tempo per me si è fermato, si è fermato a quella
notte... Chi non ha mai sognato di vivere qualcosa del genere, scagli la
prima pietra. E se pure sono centinaia le canzoni che hanno un testo
imperniato su una vicenda di questo tipo, nessuna forse è mai riuscita a
rappresentarla con più intensità ed oltre qualsivoglia romanticismo di
maniera. Perché questo è Adult
Oriented Rock, lo sguardo disincantato di chi ha vissuto qualche inverno più
degli altri sulla terra. Disincantato, ma nient’affatto distaccato. Le
emozioni, il richiamo dei sensi viene vissuto semplicemente in maniera meno
tumultuosa, ma più profonda, viscerale. Quel richiamo, quella voce che è la
nota vibrante nell’altro capolavoro assoluto del disco, “Pray for Rain”. Qui
la passione non è dolcezza e nostalgia nel ricordo, ma un fuoco che brucia e
ossessiona. Slave to a servant/ A prisoner to a kiss/ Addicted
to temptation/ And we did not resist... La musica traduce con un’intensità da brividi
quell’atmosfera sospesa, il riff avvolgente e nervoso scandito dalla
chitarra, il pulsare del basso, i panneggi cupi e irrequieti delle tastiere e
poi la voce di John Waite che si incunea fra quelle note sospese e
palpitanti, una voce che vibra di attesa e di tensione, invocando la fine di
quell’arsura eppure riconoscendone fino in fondo la natura inestinguibile: Now
I’m a stranger to myself/ Now my life is not my own/ She won’t leave my soul
alone/ She’ll just lead me to the river/ As my heart goes down in flames/
Till she comes back to me/ I’ll have to pray for rain. Il
messaggio è chiaro: non c’è fuga, né redenzione. E per i restless ones cantati nel primo album può finire male, malissimo,
come ai due protagonisti di “Rebel say a prayer”, a cui rimane solo il sogno come scappatoia ad un mondo
implacabile: Rebel say a prayer/ That
there’s a place somewhere/ Where rock and roll goes on/ And we’ll be free/
Where Cadillacs have wings/ A place where Elvis sings/ for you and me...
Ma i sogni non possono chiudere la porta in faccia alla realtà... And the cops are waiting down the street/ They both
know that there’s no way out/ Johnny pulls his gun/ And all hell breaks
loose... * * * Quando
Backlash fece la sua comparsa nei
negozi, i Bad English già non esistevano più. John Waite lo fece capire
suggellando con un “The End” la sua lunga lista personale di Thanks To
nelle note del booklet. Insoddisfatto di quel
discorso troppo hardeggiante, pretese un produttore tutto per sé che
soprintendesse esclusivamente alle sue linee vocali, mentre il resto della
band lavorò con Ron Nevison. Ciò non bastò a dissuaderlo dal mollare e tornare
a quella musica pop che doveva parergli terreno molto più sicuro per la sua
voce, bellissima ma obiettivamente tutt’altro che potente. Caduta
la chiave di volta che reggeva quell’architettura così ardita, tutto si
sfasciò senza che nessuno degli altri tentasse di puntellarla. Neal Schon si
aggregò temporaneamente agli esordienti Hardline, per poi riformare i Journey
assieme a Jonathan Cain; Ricky Phillips andò in tour con David Coverdale e
Jimmy Page, pubblicò il bellissimo disco con Fergie Fredericksen alla voce,
passò a dedicarsi all’attività di session man e produttore, e recentemente è
entrato a far parte degli Styx; Dean Castronovo seguì Neal Schon negli
Hardline, poi ricominciò l’attività di
turnista prima di unirsi ai Journey per ‘Arrival’. Nel bel mezzo della
pseudo-rivoluzione grunge, furono pochi quelli che si accorsero che la più
grande AOR band mai comparsa sulla faccia della terra non esisteva più. * * * Alla
domanda su cosa sia l’AOR oggi, è difficile trovare una risposta. Ci sono
meno di una decina di etichette sparse in giro per il mondo che producono e
pubblicano dischi di questo genere, e sinceramente non ho idea dei volumi di
vendita che totalizzano. La quantità di proposte è sicuramente imponente, tra
novità e ristampe, ma troppo spesso la qualità è un optional e tutto si
riduce ad uno stanco rimasticare di vecchie cose. Che l’Adult Oriented Rock
possa tornare a dominare la scena musicale, più che un sogno mi pare una
chimera: se neppure il ritorno dei Journey in formazione originale è riuscito
a dare una scossa al pubblico, se i Giant hanno trovato accoglienza per il
loro terzo album (e che album!) solo presso l’italiana Frontiers, non mi pare
realistico sperare che qualche nuovo act conquisti la fiducia di una delle
labels che contano per preparare un rilancio in grande stile... anche se
quello che sta succedendo con i The Darkness parrebbe smentire queste
pessimistiche considerazioni di natura commerciale. Il
punto è però un altro. L’AOR ha rappresentato qualcosa di ben preciso per
l’America degli anni ’80, rispondeva a delle esigenze, interpretava una certa
way of life. Anche se non si può
escludere a priori un’adesione sincera a quel gusto ed a quel modo di
interpretare la musica rock, le tante bands svedesi, tedesche ed inglesi (per
tacere di quelle spagnole, portoghesi, greche, eccetera) che formano oggi uno
dei pilastri più solidi dell’hard rock melodico, non possono che limitarsi a
proporre degli esercizi di stile, buoni finché si vuole, ma slegati
inevitabilmente da quel clima che aveva creato e alimentato la scena. In
quanto alle bands americane, è difficile capire fino a che punto portino
avanti con sincerità quel discorso: la gran parte di esse, poi, è formata da
reduci degli anni ’80, le nuove leve sono un’esigua minoranza ed è proprio
questo particolare ad alimentare le previsioni più nere. Il cosiddetto “Nuovo
Rock Melodico” che pretende di mescolare AOR ed hard rock moderno, e di cui
si sono fatti portabandiera anche una “vecchia” band come gli Harem Scarem,
personalmente mi lascia freddo e indifferente come un macigno, e mi appare
come un ibrido senza capo né coda: considerato lo scarso entusiasmo
dimostrato dal grande pubblico verso tale genere di esperimenti, non mi pare
che il futuro sia destinato a passare attraverso questi sentieri. In
definitiva, non si può rispondere alla domanda “Dove va l’AOR?” che con un gigantesco punto interrogativo. * * * Uno
dei vezzi a cui l’attuale scena AOR proprio non sembra voler rinunciare è
quello dei ritorni di bands più o meno storiche, più o meno grandi e/o
famose. Negli anni, citando alla
spicciolata, abbiamo visto ricomparire monickers come XYZ, Hurricane, Axe,
Loverboy, Bystander... per non parlare di Journey e Giant. Recentissimo è il
ritorno di pilastri del genere come gli House of Lords (che però, alla luce
di quanto appena pubblicato, col genere in discorso hanno ormai ben poco a
che fare). La domanda, inevitabile, è: rispunteranno anche i Bad English? Non
credo sia necessario invocare la protezione e la tutela degli angeli custodi
dell’AOR che ci scampino da questo pericolo, perché un riemergere dalle
nebbie del passato di quel monicker è davvero improbabile. Accontentiamoci di
sentirne gli echi nelle canzoni di tutti quelli - e non sono pochi - che li
tengono come guida sicura per muoversi in quell’oceano sconfinato che era (e
forse è ancora oggi) l’Adult Oriented Rock. Che è stato ben più di un po’ di
chitarre in overdrive ed una voce che urlava “Let’s paaarty!!”. E basta ascoltare questi due album per
capirlo.
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