Sono passati ventisette anni da
quel fatale giorno in cui Jimmy Page scoprì il corpo senza vita di John
Bonham. La vodka ed una crisi cardiaca ci avevano portato via non solo
uno dei più strepitosi batteristi che la storia della musica ricordi,
ma anche, indirettamente, la più grande, meravigliosa, straordinaria
band che la musica rock ci abbia mai regalato. Da quel momento, l’interesse per
i Led Zeppelin ha avuto uno strano andamento ciclico: periodicamente, il
nome della band torna a tuonare nelle classifiche, in genere senza che i
membri superstiti ne abbiano alcuna responsabilità, diretta o
indiretta. Nei primi anni dopo lo
scioglimento, pareva che il nome della band fosse morto e sepolto. ‘Coda’
aveva venduto pochissimo, e dai tre sopravvissuti dell’equipaggio del
dirigibile venivano segnali incerti o addirittura indecifrabili. Jimmy
Page era scomparso dalla circolazione per tre anni, rifacendosi infine
vivo con i Firm, una band che – non ho mai capito per quale motivo –
sembrava non piacere praticamente a nessuno, John Paul Jones si era
messo a fare il produttore mentre Robert Plant si era dato alla musica
pop. Poi, nel 1987, il successo quasi contemporaneo degli Whitesnake con
‘1987’, dei Great White con ‘Once
bitten’ e sopratutto il “caso” Kingdome Come, fece capire
chiaramente quanto alla gente mancasse un certo tipo di sound. I Led
Zeppelin tornarono di moda passando attraverso la musica di innumerevoli
bands che più o meno
sfacciatamente gli si rifacevano, e non solo nell’hard rock, dove i
proseliti facevano legione: i Cult già prima di ‘Sonic
Temple’, i Mission (che si fecero produrre da John Paul Jones),
Gene Loves Jezebel ed una bella fetta di tutto il movimento dark, e poi
Zodiac Mindwarp, Gaye Bikers On Acid eccetera, i Beastie Boys che con i
campionatori dettero vita al breve fenomeno del beatbox
e via così... Furono considerati, assieme ai Black Sabbath, i padri
putativi di certo grunge, quello più metallico, tutta l’ala dura
guidata dai Soundgarden. E sempre avanti in questo modo altalenante, un
po’ su e un po’ giù, fino al recente disco d’esordio dei
Wolfmother (per tacere di Audioslave, The Music, Black Rebel Motorcycle
Club...), ed il trionfo personale con i due ‘Remasters’,
il live ‘How the west was won’ ed il
concerto di Londra con il solito Jason Bonham a sostenere la parte che
fu del padre John, come già avvenne nel 1988, al concerto per i
quarant’anni dell’Atlantic, l’ultima volta che Percy, Zoso e
Jonesy si presentarono su un palco sventolando quel monicker. L’atteggiamento della critica
verso la band è andato progressivamente addolcendosi. Negli anni 70,
pur vendendo più dischi e biglietti ai concerti di chiunque altro negli
Stati Uniti, le riviste più prestigiose li ignoravano o li insultavano
apertamente (celebre è rimasto il giudizio espresso da Rolling
Stones, che li definì “pomposi, zotici e presuntuosi”). Nel
nostro paese, Guido Chiesa, in un articolo su Fare
Musica del giugno 1988, scrisse: “I Led Zeppelin (...)
hanno rappresentato per la gioventù americana il mito del rock
per eccellenza: droga, sesso, denaro, belle donne, magia occulta,
passionalità. (...) divennero l’oggetto dell’ammirazione degenerata
di una generazione in limbo”. Oggi, perfino il supplemento musicale di
Repubblica, XL, autentico almanacco della musica che fa tendenza (sulle
cui pagine, adolescenti e novelli universitari trovano ogni mese
dettagliate istruzioni su come essere cool
e trendy fra i propri
coetanei: cosa leggere, cosa guardare al cinema e in TV, cosa indossare,
quali opinioni “contro” manifestare, e sopratutto cosa caricare nei
propri iPod) ne ha fatto uno dei propri feticci. Per convenienza o per
convinzione? Se non puoi batterli, unisciti a loro... Stringendo un discorso che ci
porterebbe lontano, anche ai Led Zeppelin sono toccati i tributi e le
celebrazioni. La prima di cui mi ricordo fu ‘Encomium’,
un tribute organizzato dalla Atlantic nel 1995, infarcito di bands che
allora andavano per la maggiore e con i Led Zeppelin non c’entravano
un beneamato cazzo: Helmet, Rollins Band, Sheryl Crow... La cosa
migliore, alla fine, si rivelò la “Thank you” rifatta dai Duran
Duran (!!!) e questo la dice lunga sul valore globale dell’operazione.
Piacevole e nulla più si rivelò ‘Stairway to
heaven’, dove almeno le canzoni del dirigibile erano rifatte da
bands e personaggi legati all’hard rock. Mancava qualcosa, comunque,
una cosa fondamentale: l’amore, la devozione verso un certo tipo di
sound. Questo live dei Great White ne trabocca ed è anche una grande
dichiarazione di umiltà: dopo essersi ispirati in maniera diretta alla
band ed averne già suonato dal vivo un discreto numero di canzoni, Jack
Russell e soci registrano un intero concerto dedicato solo alla musica
dei loro numi tutelari. Se pensiamo alla faccia tosta di Lenny Wolf che
dichiarava di passare le sue giornate ad ascoltare i Beatles e che per
far incazzare David Coverdale basta nominare in sua presenza la parola
“dirigibile”... Persino Robert Plant si è inchinato (sempre alla
sua maniera, naturalmente) alla sconfinata ammirazione nutrita da questa
band verso il suono zeppeliniano. Anni fa, gli chiesero cosa ne pensava
di tutti quei singer che si ispiravano dichiaratamente al suo stile di
canto e lui rispose: “Quello dei Great White è molto bravo”. Per
uno che ha sempre sputato vetriolo sui propri imitatori una frase del
genere vale come una standing
ovation... Naturalmente, resta in sospeso la
questione del puro e semplice senso
che tali operazioni hanno, sopratutto quando l’interpretazione del
materiale è così rispettosa della forma originale e il materiale
stesso è tanto conosciuto. I tribute album, in genere, sono destinati a
prendere polvere negli scaffali: si ascoltano un paio di volte e poi si
dimenticano. E’ questo la sorte inevitabile anche di ‘Great
Zeppelin’? Io, che per i Led Zeppelin nutro una forma di
venerazione quasi religiosa e adoro i Great White, questo disco lo
ascolto spesso e volentieri (nonostante un suo pesantissimo difetto di
cui dirò poi). E se c’è qualcosa che stacca ‘Great Zeppelin’
dagli altri dischi similari registrati nel corso degli anni, è il fatto
che i membri dello squalo bianco nutrono evidentemente per il dirigibile
la stessa venerazione del webmaster. Non è, insomma, la solita
compilation assemblata da qualche label mettendo assieme musicisti
scarsamente coinvolti che spesso conoscono le canzoni che andranno ad
interpretare poco e male. E’ un omaggio, fatto con autentica passione. Scendendo dal generale al particolare, troviamo qui un tributo rivolto all’aspetto più melodico dell’universo musicale zeppeliniano. Mancano i riff storici, “Whole lotta love”, “Black dog”, “Rock’n’roll”, “Heartbreaker” eccetera. Degli Zep tutto acciaio & granito è presentata la sola “Immigrant song”, dal riff inconfondibile e stracopiato (perfino da Jimmy Page stesso, che lo ha usato per costruirci sopra anche “The wanton song”). Spazio piuttosto ai blues, alle ballad, a canzoni magari meno celebrate ma ugualmente strepitose, come “No quarter” o “When the levee breaks”. Personalmente, non condivido l’inclusione di “Tangerine”, che mi è sempre parsa poco significativa, e “D’yer Ma’ker”, che sa troppo di reggae per i miei gusti, ma naturalmente ciascuno può trovare da ridire sulle scelte operate dalla band per assemblare la scaletta di un concerto fatto di esecuzioni sempre impeccabili e intense. Il vero problema di questo disco è un altro: il volume semplicemente assurdo a cui è stato mixato il rumore del pubblico. D’accordo, è un live. E nei live, il pubblico si deve sentire. Ma non fino al punto di sovrapporsi quasi costantemente alla musica. L’esecuzione di “Going to California” è praticamente sfregiata dal continuo frastuono a base di urla e fischi, e anche “No Quarter” e una buona metà di “Stairway to heaven” risultano semisepolte sotto questo baccano incessante. Non si tratta di un problema tecnico, perché il concerto non è stato sicuramente ripreso piazzando dei microfoni fra il pubblico, ma di una scelta precisa operata da chi ha mixato questo disco, una scelta veramente idiota che in più di un’occasione rovina qualsiasi atmosfera la band avesse inteso creare. Pure, chi gradisce il feeling live, troverà forse meno insopportabile di me questo rumore bianco. Come nota finale, voglio ricordare che questo disco è stato successivamente accoppiato ad un altro cover album ‘Revisiting familiar water’ e venduto come doppio CD a prezzo di singolo col titolo ‘A double dose’. ‘Revisiting...’ contiene cover di Cult, Free, Bad Company, AC/DC, Rolling Stones ed anche band meno prevedibili nel repertorio dei Great White, come gli X, la storica rock band di Los Angeles, oltre ad entità poco conosciute dal pubblico dell’hard rock come Badfinger e Dr. Feelgood. Quattordici canzoni rilette dalla band con la consueta classe e marchiate a fuoco dalla voce superba di Jack Russell. Per me, semplicemente imperdibile.
Quante volte ho stigmatizzato la perversa abitudine delle case discografiche (e delle majors in particolare) di mettere sotto contratto bands, farle registrare dischi e poi lasciarle al loro destino? Certo, la promozione costa cara, carissima, costa molto più di un mese o due in uno studio, e allora, facciamogli pure fare il disco, ai ragazzi, e poi incrociamo le dita... Così andavano le cose negli uffici delle labels, una volta (e, in gran parte, continuano ad andare così anche oggi). Ma ci dovrebbe essere un livello minimo, di base, sotto cui non dovrebbe essere consentito scendere. Mi pare che questo livello, almeno nel rock, sia costituito dal far sapere alla gente da chi accidente è formata una certa band. Non è indispensabile corredare il disco di foto, basta scrivere da qualche parte i nomi. Bene: con l’album dei Delta Rebels finiamo sotto questo livello. Ci sono l’elenco delle canzoni, i cognomi dei songwriters, luogo di registrazione, studi, nome di produttore e ingegnere, parecchie righe di ringraziamenti... ma la band? Insomma: chi cazzo sono i Delta Rebels?! Non si sa! Di questa band, ufficialmente, non si sa un beneamato cazzo. Ed il loro unico disco (preceduto da un EP a quattro pezzi pubblicizzato nello stesso stile) non era edito da una qualche etichetta indipendente lituana o tunisina, ma dalla Polydor! E venne stampato anche in Europa! Pura follia. Studiando accuratamente quanto è scritto nel booklet del CD, possiamo comunque fare qualche ragionamento per cercare di dare un nome ai presunti Delta Rebels. I songwriters sono R.T. Scott, F. Reb, Steve Ingle, Greg Morrow, David Cochran. Dato che gli ultimi tre figurano anche nella lista dei ringraziamenti, mi pare logico inferirne che non facevano parte in pianta stabile della band (sarebbe la prima volta che i membri di una band si ringraziano tra di loro...). Il disco è prodotto da R. Eli Ball, che proprio in quel periodo aveva prodotto anche il primo album di Joanna Dean (ringraziata anche lei), nella cui band militava proprio Steve Ingle. Dato che Danny Johnson dichiarò tempo fa che nei Delta Rebels era entrato solo dopo la registrazione del disco per coprire un posto vacante, credo si possa concludere che le parti di chitarra su quest’album sono eseguite proprio da Steve Ingle. Greg Morrow e David Cochran, allora, potrebbero essere altri due session man ingaggiati per le registrazioni e/o collaborare nel songwriting. Restano solo F. Reb e R. T. Scott. Uno dei due canta, ma l’altro? Basso, batteria, chitarra, tastiere? Boh... Eppure, almeno a questo misterioso Cantante, si dovrebbe poter dare un nome, non era uno dei soliti, un vocione monumentale, da country singer, nello stesso tempo pastoso e impastato, nasale, a volte sguaiato altre quasi epico. Non si sente spesso nei dischi rock una voce del genere, l’unico paragone che mi viene in mente è con il mitico Chris Farlow dei Coliseum II, poi con Jimmy Page sul suo album solo. Voci che squassano, che sembrano poter abbattere i muri. Ma questo disco non è solo una voce singolare e potente. Per scoprirlo, per entrarci davvero, dobbiamo fare un passo alla volta: andiamo prima laggiù, al Sud, uno degli stati che durante la guerra di secessione avevano scelto di inalberare la stars and bars, cerchiamo un bar perso nei bassifondi di una grande città, la Memphis in cui i Delta Rebels erano nati, magari, oppure usciamo fuori verso le praterie, le paludi, i deserti, strade dritte come fusi, polvere e cieli come coppe incandescenti, troviamo una roadhouse, nel parcheggio le moto di una gang di bykers, qualche camion, pick up in vari stadi di disfacimento e la solita macchinona degli anni 50 con le pinne e ed i sedili in pelle bianca. Dentro, puzza di birra e sudore, la segatura che scricchiola sotto le suole sul pavimento di assi, motociclisti obesi con i baffi spioventi che inforcano occhiali da sole anche a notte fonda, una donna sui quaranta con stivali da cowboy ed una camicetta con la maggior parte dei bottoni spuntati, troppo bionda e troppo truccata, che sorride disperata sopra il suo bloody mary, una sedicenne in cerca di guai con le gambe lunghissime che spuntano dai pantaloncini tesi allo spasimo contro le anche, uomini con le mani ruvide ed il colletto delle camicie a quadrettoni consumato, tutti rigorosamente bianchi, perché un nero qui non ci metterebbe piede neppure per un miliardo di dollari, c’è un palco in fondo, e sul palco, una band, non ha un nome, e se ce l’ha non importa a nessuno, quello che conta è che stanno lì a suonare in questa notte calda, rock’n’roll, è questo il nome del gioco, il suono è quello bollente e pesante e melodico del sud, sanno che il mondo non cambierà per qualche canzone in più o in meno, parole e note gettate nella polvere, ma chi se ne frega, è tutto qui e ora, il no future non l’hanno certo inventato i ragazzini inglesi del ’77, è vecchio come il mondo, come questo mondo fatto di spazi troppo grandi, di vuoto, luce accecante e buio pesto ed una monotonia che uccide l’anima. Fate salire su quel palco i Radiohead e li copriranno di catrame e piume, mandateci Rhianna ed avremo l’ennesimo processo per stupro di gruppo, saltate sulla macchina del tempo e portate quaggiù i Poison dei tempi d’oro ed avremo catrame, piume e stupro tutti assieme. E’ il sud degli States: brutale, grossolano, ignorante, razzista, dove il sabato sera i ragazzi lo passano a bere fino a vedere doppio o ad andare a caccia di omosessuali, barboni e fans dei REM con mazze da baseball di alluminio. Un mondo spietato che trova la propria redenzione o la propria condanna nella musica di bands come i Delta Rebels. E’ un peccato che i testi non siano inclusi nel booklet, perché il Cantante, tra quel vocione impastato e l’accento del Sud risulta scarsamente decifrabile, ma da quello che si riesce a cogliere qua e là, si ha l’impressione che quasi tutte le canzoni raccontino storie grottesche, paradossali, tragicomiche o semplicemente disperate, storie che aleggiano su un ordito strumentale curato ma privo di emergenze, hard rock americano sporcato di southern e blues, nobilitato da timbriche scintillanti ed una qualità di registrazione strepitosa. “Tattoo Rosie” apre l’album, un boogie fragoroso che ci proietta subito nell’ambiente giusto, dura e veloce, con il piano che martella ed una chitarra slide nel finale. “Kickin’ down the night” parte con un intro d’organo, poi entra un riff secco di scuola AC/DC che si trascina dietro la canzone con un ritmo pigro, “Three way love affair” introduce un ruvido clima western e sulla stessa falsariga procede “The girl’s gone western”, ma su un registro più scanzonato. “Down in the dirt” è una cavalcata piena di umori schiettamente southern, “Darlene” un altro heavy rock da bar con un cantato più che mai buffonesco (la Darlene del titolo, se ho afferrato bene i versi, dovrebbe essere una pornostar o qualcuno del genere...). “Rock-n-roll women” rotola via cadenzata fra chitarra ed organo con un cantato che è praticamente un rap, mentre “Used tires” è un hard blues lento e pesante segnato da chitarre slide strascicate, diventando quasi un boogie nel coro. “Just before midnight” replica le atmosfere di “Darlene” e chiude in gloria “Howlin’ at the moon” un hard dalle venature southern, suggestivo e intenso, sulla stessa scia di Company Of Wolves e primi Tangier. C’è tutto un mondo in queste dieci canzoni, un mondo che grida, scalcia, ride, piange, odia e ama. Un mondo che ha più ombre che luci. Forse, un mondo più vicino al nostro di quanto ci fa piacere pensare.
Fra tante storie finite male, quella dei Faster
Pussycat è una di quelle andate peggio. Tanto chiasso attorno a
questa band (e sopratutto nel suo ormai mitico night club
losangeleno, il Cathouse), tanto parlare, i Pussycat per un po’
sono stati sulla bocca di tutti, per qualche momento hanno
addirittura rivaleggiato in popolarità con i Guns N’Roses
nell’alba incerta del movimento street, ma i risultati pratici,
ossia i dischi venduti? Scarsi. Un altro caso di negligenza
criminale? Un’altra band che gli imprevedibili, crudeli umori
del pubblico hanno condannato ad un oblio ingiusto, cacciando i
loro album nel limbo dei capolavori ignorati? Diciamo: sì e no. I
Faster Pussycat erano giganti, sì, ma giganti con i piedi, anzi,
le corde vocali di argilla. Forse le cose sarebbero andate meglio
se la band avesse proseguito lungo la rotta tracciata con il primo
disco omonimo, ma lo sbarco con ‘Wake me
when it’s over’ in territori più distanti
dall’estetica glam scoprì inesorabilmente i limiti di Taime
Downe come cantante: quel suo tono sempre indeciso tra lo
stucchevole ed il frocesco era perfetto per le canzoncine sleaze e
malate di ‘Faster Pussycat’, ma
male si adattava al materiale ben più impegnato (e impegnativo!)
di ‘Wake me...’ e del successivo
e ancora più abrasivo ‘Whipped’.
Della triade che inaugurò la breve stagione dello street metal, i
Faster Pussycat furono l’ala più glam e festaiola, viziosa e
depravata. I Guns N’Roses erano, di nome e di fatto, quelli
con una pistola in una mano ed una rosa nell’altra, lirici e
selvaggi nello stesso tempo e con pari intensità, gli L.A. Guns
la nuova icona del decadentismo metallico, mentre i Pussycat
furono quello che i Poison erano troppo carini per poter essere,
glamster con la patta dei calzoni sempre sbottonata, feroci
animali da party sadomaso. Fossero rimasti solo questo, forse,
paradossalmente, sarebbero durati di più, magari avrebbero
venduto più dischi, solo Dio o il diavolo lo sà. Ma dopo due
anni (e tour con Guns
N’Roses,
Alice Cooper, Motorhead e D.L. Roth) i Pussycat smettono i panni
dei puttanieri allupati e scrivono un masterpiece del calibro di
‘Wake me when it’s over’, solo
che dietro il microfono c’è sempre Taime Downe (al secolo
Gustav Molvik), non il peggior cantante del mondo ma scarsamente
attendibile fuori dal ristretto contesto del party rock’n’roll.
La sua vocetta condiziona pesantemente ‘Wake
me...’, talvolta svilisce canzoni grandissime che, ironia
delle ironie, sono scritte per la gran parte da Taime stesso... “Where there’s a wip
there’s a way” (cupa, serrata, rotolante, quasi come
dei Mötley Crüe sporchi e più cattivi del solito) e “Tattoo”
(più glam e scanzonata) sono una continuazione dei temi dal primo
album omonimo (ma andate a leggere i testi, molto più
intelligenti di quanto si possa supporre a prima vista, anche se
“Where there’s a wip there’s a way”
parla di una ragazza che ha un debole per le fruste e “Tattoo”
di un’altra che portava il nome di Taime tatuato sul culo...),
ma su “Little dove” spira già
un’altra aria, canzone funk e sinuosa, con un finale in cui la
chitarra elettrica disegna geometrie lente ed ossessive, e sullo
stesso registro viaggia “Pulling weeds”,
con il suo riff pulsante ed il coro cupo ed heavy, mentre “Slip
of the tongue” propone del solido street rock’n’roll
e “Ain’t no way around it” ha
un coro punkeggiante su un bel telaio metallico vagamente Tesla. Con
“Poison ivy”, “Gonna
walk”, “Cryin’ shame”
e “Arizona indian doll” la band
entra in territori blues, ma a modo proprio, dimostrando
un’insospettata (e forse insospettabile) capacità di trattare
la materia in maniera poco convenzionale e sempre altamente
efficace. “Poison ivy” è la più
lineare esercitazione sul tema, ma “Gonna
walk” è un blues mutante, nello stesso tempo aggressivo
e scanzonato, il riff molto tradizionale viene rigirato in modo
insolito e originale,“Cryin’ shame”
è sleaze e morbosa, se Taime avesse lasciato perdere i toni
leziosi sarebbe stata ancora più stuzzicante, “Arizona
indian doll” è uno slow immenso, con il pianoforte ed il
basso che segnano il tempo e le chitarre che sfarfallano ed un
Taime Downe appena sufficiente. Dove Taime si rende però
veramente insopportabile è sulle due power ballad, “House
of pain” e “Please dear”,
se la seconda (pigra, solare, un po’ southern) sopporta – bene
o male – la voce imperfetta di Taime, la prima viene
semplicemente strangolata da quel suo miagolare che fa a pugni con
un tessuto elettroacustico struggente ed un testo intenso e
crudele. “House of pain” è una
di quelle canzoni che possono concorrere al titolo di più grande
hit mancata di tutti i tempi, un capolavoro perduto perché
affidata alla voce di uno che non sapeva interpretare certe
atmosfere e non ha avuto il buon senso e l’umiltà di starne
alla larga. ‘Wake me...’ segna l’inizio della caduta libera per le fortune dei Pussycat, che dopo il nuovo flop di ‘Whipped’ verranno licenziati dalla Elektra e si scioglieranno senza che quasi nessuno ci faccia caso, salvo ritornare nei primi anni del nuovo millennio in formazione rimaneggiata come tanti altri act ottantiani del più diverso valore. Le vicende attuali della band non vale la pena approfondirle, tra un album orrendo come “The power and the glory hole” che vede il solo Taime Downe guidare una line up praticamente mutuata da quella del suo nuovo gruppo, i Newlydeads, cercando invano di sposare il vecchio glam sound all’industrial (“invano” sopratutto perché il livello generale delle composizioni è indecentemente basso) e la guerra a colpi di carte bollate tra Taime da un lato e Brent Muscat ed Eric Stacy dall’altro per il diritto a fregiarsi di quel monicker glorioso ma ormai poco più di un bel ricordo: patetici o ridicoli, decidete pure voi: come due branchi di cani randagi che si contendono un osso spolpato.
Rileggendo il pezzo già pubblicato
sui Thunder, mi sono chiesto se con questa band non sono stato
troppo duro. Non mi rimangio quanto detto, ma c’è un punto che
potrebbe lasciare perplesso chi mi legge: nonostante tutto ciò
che ho scritto – e
penso – dei Thunder, continuo imperterrito a comprare i loro
dischi. Come dire: nonostante tutto, mi piacciono lo stesso. E
perché non dovrebbero piacermi, poi? Magari recitano, ma lo fanno
bene. Non sono dei fuoriclasse, ma sfornano sempre album
piacevoli. Hanno i loro limiti, ma se volessimo ascoltare solo
capolavori, dovremmo limitare la nostra discoteca ad una trentina
di titoli o giù di lì. I Thunder, insomma, sono un surrogato, ma
un valido surrogato, e – sopratutto – non hanno mai preteso di
essere altro che controfigure. Le punte di acredine del mio pezzo
dedicato ai loro due primi dischi erano generate proprio da questo
ripiegarsi della band in una dimensione celebrativa quando
avrebbero potuto puntare verso orizzonti meno angusti, crescere
anziché stagnare. Ma ormai è inutile piangere su un latte che
non solo non si è mai versato ma non ha neppure cominciato a
bollire. Meglio prendere i Thunder per quello che posso darci, e
che in fondo non è poco, sopratutto se consideriamo quello che il
convento passa ai nostri giorni. ‘Robert
Johnson’s tombstone’ è solo un altro capitolo della
solita storia, ma questa vicenda non ci annoia per nulla e
continuiamo a seguirla anche se sappiamo sempre benissimo come
andrà a finire. Rispetto alle puntate precedenti,
c’è comunque qualcosa di diverso in questo nuovo episodio? Mi
pare che Luke Morley si sia ripassato più del solito gli album
dei Led Zeppelin, che il suo riffeggiare sia più secco e
asciutto, ma per il resto, come cantava Percy tanti anni fa, the
song remains the same, in senso lato e almeno in qualche
occasione in quello letterale. “What a
beautiful day” è la più classica delle Thunder song, la
risentiamo sempre in ogni disco, cambia il titolo, il testo e
qualche nota qua e là, ma ci segue dai tempi di ‘Back
street simphony’, un appuntamento inevitabile nel
percorso attraverso album che però offrono sempre spunti
piacevoli. Anche la title track si presenta come una tessitura
dalle trame arcinote, salvo per l’intro e l’outro blues, più
interessante il riffeggiare tagliente di “Dirty
dreams” (con un coro quasi anthemico) e della beffarda
“Andy Warhol said”, le tinte
cangianti di “Don’t wanna talk about
love”, la trama boogie della divertente “The
devil made me do it”. “Last man
standing” è lunga, cadenzata, zeppeliniana e sulla
stessa falsariga sta la più scontata “Stubborn
kinda love”. “My darkest hour”
è una sensibile stesura acustica, mentre “A
million faces” e “It’s all
about you” sono le power ballad, calda e intensa la
prima, suggestiva e intessuta di melodia beatlesiana la seconda. Splendida qualità audio,
produzione adeguata, e la voce di Danny Bowes più pastosa che
mai. Tre quarti d’ora di musica piacevole, tutto qui. Non potrà
mai dare i brividi, ma soltanto divertire e intrattenere. E,
almeno a me, questo basta e avanza. |