E’ cominciato tutto a metà anni ’80. Ad aprire la strada sono stati i Great White e gli ZZ Top, a spianarla i Tesla, a trasformarla in un’autostrada a sei corsie gli Aerosmith. L’hard rock ritrovava il suo padre spirituale, il blues. E da questo ritorno a casa traeva linfa vitale, forza ed un fascino sconfinati. I nomi che si fecero devoti di questa causa quasi non si contano: Kingdome Come, Cinderella, Badlands, Dirty White Boy, Salty Dog, Lynch Mob, Delta Rebels, Tora Tora, Little Caesar, Katmandu, Black Crowes... un fiume che pareva inarrestabile, ma è finito invece inghiottito anche lui dal terremoto che il grunge provocò sulla scena musicale americana nei primi anni 90. Nell’ HARD BLUES DEPARTMENT di AORARCHIVIA, tutte le recensioni dei dischi delle bands che furono protagoniste di questa magica stagione.

 

 

 

HARD BLUES DEPARTMENT

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ROYAL COURT OF CHINA

 

 

  • GEARED AD PRIMED (1989)

Etichetta:A&M Reperibilità:scarsa

Nota:l'album  completo è scaricabile dal sito music.aol.com

 

C’è una storia riguardo il monicker di questa band. Non so quanto si possa considerare veritiera, comunque... Si dice che i futuri Royal Court Of China lo lessero nel testo di un’intervista a Jimmy Page. Pare fosse il nome che Jimmy aveva intenzione di dare a quelli che poi sarebbero divenuti i Firm, ma venne sconsigliato dalla sua label di adottarlo in quanto quest’espressione è un modo di dire che nell’ambiente della droga si riferisce all’oppio cinese. Ma ad una band che allora si faceva chiamare Enemy piacque tanto che corse a registrarselo e lo adottò come proprio monicker: quando poi Jimmy tentò di registrarlo per sé scoprì che quattro ragazzi di Nashville glielo avevano soffiato. Il tutto dovrebbe essere accaduto tra il 1986 ed il 1987, più o meno. Verità o leggenda... chi lo sa? Okay, questo è l’aneddoto, facciamo un paio di passi indietro, adesso.

Dopo l’esplosione del grunge, molti act della scena del rock melodico voltarono la faccia al genere e si buttarono a capofitto nella nuova dimensione musicale codificata da Nirvana e Pearl Jam. Non fu certo una migrazione di massa, ma sicuramente una buona percentuale di act di varia importanza e notorietà si convertirono a quanto pareva stesse catalizzando l’interesse del grande pubblico. Bands nacquero da costole più o meno importanti di altri gruppi, come gli Arcade di Stephen Percy o i Freak of Nature di Mike Tramp. Fu un lesto mutare pelle che fece arricciare il naso a tutti quelli rimasti fedeli al genere, i quali trassero comunque una magra soddisfazione dal generale insuccesso che tutti questi progetti riscossero, forse non tanto per demerito quanto per sovraffollamento. Erano semplicemente troppi perché qualcuno li notasse tutti, e comunque il pubblico più giovane si rivolgeva con maggior fiducia a novizi dalla reputazione immacolata come gli Stone Temple Pilot, gli Spin Doctor o i Blind Melon, oppure a gente che poteva vantare già una certa militanza nel campo, come gli Smashing Pumpkins, piuttosto che a formazioni nuove di nome ma non di fatto. Io stesso ammetto di aver provato una certa soddisfazione sadica nel leggere dei fiaschi ripetuti degli Arcade, con cui Stephen Percy sperava di farsi una verginità garage dopo tanti anni di metal canzonettaro e poppeggiante, e dei Motley Crue di ‘Generation Swine’. Ma la storia non era affatto nuova. Quando era l’AOR a dettare legge, non pochi musicisti si tuffarono con più o meno convinzione nel calderone del rock melodico, provenendo da ambiti musicali molto diversi. Tanto per fare qualche esempio, Paul Sabu aveva cominciato la sua carriera di musicista e produttore nella Disco Music, il suo primo album era fatto di roba da discoteche (le discoteche dell’epoca), i Cult sappiamo che generi frequentavano prima di ‘Electric’, mentre 38 Special  e Blackfoot hanno cominciato suonando southern rock nella stessa tradizione di Lynyrd Skynyrd e Allman Brothers Band, e via di questo passo. Quando poi salì alla ribalta lo street metal, con le sue sonorità più ruvide e urgenti, la diga si spalancò nella direzione di tutte quelle bands che razzolavano tra il punk e il più tradizionale rock yankee. I TSOL furono un esempio di riconversione lenta, graduale, nient’affatto sfacciata, che culminò nel 1990 col bellissimo ‘Strange love’, mentre gli X, campioni del punk losangeleno, si posero all'attenzione del pubblico dell'hard rock con il notevole 'Ain't love grand' (prodotto da Michael Wagener) già nel 1985. Insomma: un certo genere di rock tirava, e esplorare quella nuova direzione pareva tutt’altro che un’eresia. I Royal Court Of China avevano pubblicato l’album d’esordio autointitolato nel 1987, un disco di punk rock ottantiano passato completamente inosservato. E allora, dovettero pensare i ragazzi, perché non giocare la carta dello street metal? Proviamoci e vediamo cosa succede... Non successe niente, purtroppo, e i RCOC svanirono nella nebbia. “Purtroppo” perché ‘Geared and primed’ era un album davvero eccellente, da cui avrebbero potuto nascere cose ancora più interessanti. Prodotto da Vic Maile (Motorhead, fra gli altri), ‘Geared and primed’ allargava lo spettro dello street rock alla psichedelia USA, al funk, all’heavy rock più adrenalinico, come nella conclusiva “Take me down”, palesemente ispirata dagli MC5, o nel gran rotolare di “Tijuana go!”, col suo refrain urlato e quasi punk, come negli L.A.Guns prima maniera. Chitarre secche, taglienti e metalliche incidono come rasoi i riff: convulso quello della title track, più funk quelli di “Six empty bottles” (il capolavoro del disco, col suo clima di disperazione stanca e sarcastica: sono qui con sei bottiglie vuote a tenermi compagnia/ aspettando che passi il tempo...), “Mr. Indecision” e “Dragon park” che nella scansione ritmica incalzante e mozzafiato riportano nel linguaggio dell’hard ottantiano la durezza abrasiva del miglior garage rock. “Half the truth” ha rifrazioni psych su un classico tessuto di rock yankee, una vera cavalcata spezzata da un assolo rock’n’roll, “It came crashing down the staircase” è una cupa, superba ballad elettrica, mentre “So, yer love is true” ha di nuovo una forte impronta psichedelica ma sovrapposta ad una bella melodia, quasi allo stesso modo di “This time around”, ballad elettroacustica non tanto distante da ciò che facevano i primi R.E.M.. Da rimarcare le belle timbriche, il suono spettacolare, ben lontano dalle tentazioni low-fi della scena underground americana, e la voce acida ed espressiva del singer e chitarrista ritmico Joe Blanton, che qualche anno dopo tenterà - senza molto successo - di riciclarsi cantante country.

Un’altra band, un’altra storia finita prima di cominciare.

 

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NEAL SCHON

 

 

  • PIRANHA BLUES (1999)

Etichetta:Shrapnel/Blues Bureau Reperibilità:scarsa

 

A Neal vengono così: all’improvviso, d’istinto. Una piccola deflagrazione ogni tanto, spontanea, irrefrenabile, violenta. Forse una specie di reazione di rigetto. Fra un disco e l’altro di AOR levigato, Neal Schon caccia qualcosa di elettrico, selvaggio, veemente, scatenato. E lo fa, in genere, di corsa, senza stare a pensarci troppo, una botta e via. Si sveglia una mattina, guarda la sua Paul Reed Smith e, invece che accarezzarla, come fa di solito, gli prende l’impulso di sottoporla ad un trattamento un po’ più rude. Gli H.S.A.S., gli Hardline, i Soul Cirkus sono i frutti di queste crisi, di questi attacchi di furore. Ma il punto più estremo che Neal si sia mai concesso di raggiungere è rappresentato dalle dodici canzoni di questo ‘Piranha blues’.

Nel booklet, Neal scrive che i pezzi venivano registrati il giorno stesso della composizione, un paio di prove e poi giù su nastro, e si sente. Quest’album ha un suono impastato, a tratti sporco, acre. Solo nel conclusivo strumentale “Blues for miles” si fa un po’ più limpido, le undici canzoni che lo precedono sono un continuo rotolare tra le penombre di un qualche bar saturo di fumo. Neal voleva fare il blues, non quello lindo e spettacolare della varie ‘L.A. Blues Authority’ (cui pure aveva contribuito), ma qualcosa di imbastardito, primordiale, all’occorrenza violento. Naturalmente, non c’era alcun bisogno di far suonare questo CD come una ristampa di qualcosa incisa nel 1970 ma tutto quadra se andiamo ad osservarlo dall’angolazione giusta. ‘Piranha blues’ è uno sfogo. Un urlo non stai a provarlo per sentire come ti viene fuori: lo lanci, perché ne hai bisogno, e poi basta. Neal voleva suonare questa roba, a modo suo, senza preoccuparsi di lavorarci troppo attorno. Chiamò un paio di amici fidati per fargli da sezione ritmica - Ross Valory ed il primo drummer dei Journey, Prairie Prince - trovò un cantante dalla voce al catrame, Richard Martin Ross (pensate ad un Joe Cocker un po’ acido), e poi via, a rotta di collo. Poteva venirne fuori un pastrocchio abominevole, ma Neal Schon è Neal Schon, e così ‘Piranha blues’ risulta un mosaico di hard rock bluesato da antologia. Non è pane per tutti i denti, immagino: nessuna concessione al “bel suono”, lunghe parti soliste, poche sovrincisioni, una voce meravigliosamente catarrosa, produzione ridotta all’osso. Nessun trucco in questo baraccone delle meraviglie, solo l’essenza di quel suono magico che Neal e compagni ci offrono filtrata attraverso le rifrazioni abbaglianti di dodici schegge ardenti.

Whiskey, women and blues”: un titolo più appropriato per cominciare non potevano trovarlo: un riff funk che gratta come una sega sul metallo arrugginito, il basso sparato in faccia, la batteria in primo piano con i piatti mixati a volume altissimo e l’assolo che sembra venire da chissà quale distanza, il ringhiare di Martin Ross... Qui si fa sul serio, gente! E’ il blues allo stato brado, non la sua versione addomesticata a cui siamo ormai abituati. “Gonna get back to you” va ancora più lontano, un suono anni ’70, saturo, per un blues lento, da qualche parte c’è un organo Hammond, ma sepolto, ricacciato in fondo, il riff di chitarra ha quasi lo stesso sapore di quelli che Tony Iommi si inventava per i primi dischi dei Black Sabbath, nel finale il suono si impasta, l’assolo è remoto e velato, e la musica non cambia su “Lonesome road”, che ha un tempo più svelto e un Martin Ross - se possibile... - ancora più rauco. “Hole in my pocket” può ricordare alla lontana gli ZZ Top vecchia maniera, qui sembra che Neal faccia le sue parti soliste addirittura in un’altra stanza rispetto al resto della band, discosto e in sordina. “Walkin' out the door” è pura atmosfera: come una strada al crepuscolo dove le luci dei lampioni sono velate dalla nebbia che sale da paludi dove le chiome degli alberi sono festonate di muschio spagnolo e fuochi fatui, siamo in Louisiana, New Orleans, Baton Rouge, da quelle parti, insomma, e questo si chiama Voodoo Blues, baby... Le timbriche della chitarra quasi scintillano, il basso pulsa insinuante ma è l’Hammond a dare l’ossatura ritmica alla canzone, il passo è lento, felpato, felino. Un clima inquietante, sinistro, eppure sensuale e suadente. Il ritmo cresce piano piano, l’atmosfera si fa sempre più bollente spezzandosi nel finale in un assolo affilato e rarefatto. Capolavoro? Sicuro! Con “I’m in love” rimbalziamo ancora negli anni ’70, un riff rock, elettrico, essenziale, questa è quasi un anthem, sembra un outtake dei Cream, superba. “Love trance” rallenta il ritmo, qualche sprazzo rarefatto di keys, è tutto così intenso... “Slow down”: siamo tornati nella sala prove dei Led Zeppelin nel 1969 o giù di lì, brano essenziale, solo tre strumenti e voce, praticamente nessuna sovrincisione, Neal sembra che abbia messo la sordina alla sua chitarra, nel finale entra un fantasma di sezione fiati, lontanissima, a volume basso, come se fosse arrivata qui per caso da un bar vicino portata da un vento caldo... “Play the blues” è vivace, il suono torna brillante, pezzo agile, una cosa alla B.B. King, ma - ovviamente - più pesante. “A girl like you” è il festival della steel guitar. Pura, travolgente cowboy song, la melodia somiglia parecchio a quella di “Whiskey, women and blues”, ma chi se ne frega, l’assolo si incunea tra l’intreccio di lap steel, il finale è tutto elettrico, violento, debordante, con un’ultima pennellata alla chitarra d’acciaio per chiudere. I Blues Brothers sono i padri spirituali di “Hey, hey, babe”, swingante, con i fiati stavolta in bella evidenza: fortissima. “Blues for miles” e il disco è (già) finito, avrebbe potuto essere un pezzo di ‘Late nite’, c’è forse qualcosa del Gary Moore più blues, la chitarra di Neal ci porta per mano, adagio, lontano, sempre più lontano...

Da poco Neal è uscito con un nuovo disco solo, ‘I on u’, in linea con il materiale di ‘Late nite’, sempre grandissima musica, ma ogni ascolto di ‘Piranha blues’ ci fa sperare in un nuovo attacco di furia chitarristica, perché quando Neal si mette a suonare il blues non ce n’è davvero per nessuno...

 

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THUNDER

 

 

 

  • BACK STREET SYMPHONY (1990)

  • LAUGHING ON JUDGEMENT DAY (1992)

 

Etichetta:EMI Reperibilità:buona

 

Uno dei miti che a lungo hanno condizionato - sempre in peggio - le valutazioni critiche dei recensori nostrani è quello della “sincerità” delle bands britanniche di hard rock. Mentre la musica degli ensemble americani era plastificata, preconfezionata, troppo lustra e luccicante per essere “autentica”, quella dei britannici era (quasi) sempre “vera”, fatta con il cuore, lontana da tentazioni commerciali. L’hard inglese era sincero perché sempre blues based, perché i musicisti locali avevano come punti di riferimento Cream, Small Faces, Bad Company, Led Zeppelin, Mott The Hoople, Foghat, Savoy Brown eccetera, mentre gli yankees si limitavano solo a fotocopiare Bon Jovy... Non che bastasse avere la residenza nelle isole di Albione per attirarsi le simpatie degli scribacchini nostrani. I poveri Little Angels, per esempio, sono stati sempre trattati da raccomandati di ferro, accusati di imprecisati misfatti, derisi più o meno apertamente, e solo perché la loro musica (anzi: la loro splendida musica) era troppo varia, intelligente e di buon retrogusto americano per piacere a chi andava alla ricerca dei nuovi Mick Ronson o Paul Rodgers, quelle stesse persone che hanno sempre sostenuto e incensato i Thunder. Perché i Thunder sono stati l’ultima spiaggia per tutti i nostalgici del buon, caro, vecchio (sottolineiamolo: vecchio) hard britannico dei magici anni ’70. E quando una band non viene presa per quello che effettivamente è ma solo per ciò che può rappresentare nella fantasia dell’ascoltatore, qualsiasi valutazione critica oggettiva finisce per andare a farsi benedire.

I Thunder, per me, sono la classica band che al primo ascolto ti entusiasma, al secondo ti fa borbottare: “Ma allora era tutto qui?”, al terzo (che è sempre, bene o male, una specie di prova del nove) ti induce a chiederti se ti non conveniva aspettare che il disco venisse declassato nelle collane a metà prezzo prima di comprarlo, e che finisci per tirare fuori un volta ogni tanto dallo scaffale quando hai terminato di risentire per l’ennesima volta tutti i tuoi dischi degli Whitesnake.

Danny Bowes (voce), Luke Morley (chitarra solista) e Gary James (batteria) venivano dai Terraplane, una band da due album e scarsissima fortuna. Con l’aggiunta di un secondo chitarrista, Ben Matthews, e del bassista Mark Luckhurst  si ribattezzarono Thunder e agguantarono un contratto con la EMI che li spedì in studio con Andy Taylor, l’ex - Duran Duran da poco convertito alla fede dell’hard rock.

Back street symphony’ era una specie di Bignami dell’hard rock inglese, o come quegli omnibus di romanzi condensati che erano la specialità del Reader’s Digest: una dozzina di dischi spremuti in uno solo. “She’s so fine” già diceva tutto: cominciava come i Cream, proseguiva come i Led Zeppelin e finiva come i Bad Company, e via di questo passo per tutto l’album. Non che nelle undici canzoni di ‘Back street...’ non ci fosse del buono, “Don’t wait for me” era un blues con i controfiocchi, “Love walked in” una power ballad veramente ispirata, la title track aveva un riff spaccaossa, ma il gioco di seguire la tradizione citando a più non posso supportando tutta l’impalcatura con arrangiamenti scarni finiva per non portare il disco da nessuna parte. Le canzoni piacciono non per se stesse ma perché ricordano costantemente questa o quella composizione di bands di ben altra caratura. E, peggio di tutto, c’è una sgradevole atmosfera di calcolo che aleggia, come se tutto fosse stato premeditato accuratamente per colpire un certo bersaglio, quello dei nostalgici ad oltranza o dei ragazzini convinti che Eric Clapton avesse sempre portato gli occhiali e indossato vestiti di Armani. Perfino la cover di “Gimme some loving” finisce per lasciare uno strano sapore in bocca, troppo scolastica, sfacciata, come se la band ci volesse dire: sentite quanto siamo bravi a rifare lo Spencer Davis Group... “An englishman on holiday” è il picco di questa ambiguità, con il suo testo che parla delle intemperanze dei sudditi di sua maestà in vacanza all’estero, e ondeggia tra il sarcasmo e la più sordida spacconeria con quella che potrebbe essere solo furbizia per accattivarsi le simpatie del pubblico autoctono o pura grossolanità stile coro da pub gremito di ubriachi.

Con il secondo album, ‘Laughing on judgement day' le cose cambiavano in meglio. Gli arrangiamenti diventavano più complessi e variegati, il suono più curato, le canzoni non viaggiavano unicamente sull’asse voce/chitarra, le tastiere diventavano ospiti praticamente fisse, e poi giù con l’armonica, i fiati, la dodici corde... Basta, insomma, con la musicologia anni 70 e avanti con la musica. Musica non più soltanto di stretta derivazione britannica, ma a volte tramata di piacevoli umori yankees, come su “Does it feel like love?”, con quell’arpeggio western e la slide guitar e l’armonica, atmosfera che ritorna su “Baby I’ll be gone” con il plus di un fascinoso intervento di Ben Matthews alla dodici corde elettrica, mentre sul riff secco di “Everybody wants her” impazza un’indiavolata sezione fiati. La band si riconferma molto ispirata nel settore della melodia robusta con “Low life in high places”, “Long way from home” (come dei Cinderella in versione inglese) e “Like a satellite”, ma toppa sull’unica ballad, “A better man”, leziosamente acustica e manierata. Il top è “Empty city”, che alterna parti fascinose e bluesate a violente ed apocalittiche tempeste elettriche di schietta matrice Sabbathiana: una canzone così nessuno credeva fosse nelle possibilità dei Thunder e difatti per un po’ girò la voce - poi rivelatasi completamente priva di fondamento - che su questo pezzo avesse messo mano (senza esserne accreditato) David Coverdale... Anche nei pezzi più diretti la band non rinuncia all’apporto delle keys (sempre “tradizionali”, però: piano, Hammond, organo) e la pianta comunque di solleticare la proverbiale volgarità dei suoi connazionali con cori da bar: “The moment of truth”, “Flawed to perfection”, “Fire to ice”, “Feeding the flame”, pur con i soliti riferimenti a band più o meno illustri degli anni 70, hanno una propria identità. L’unico vero tributo al (recente) passato è la title track, comunque meglio strutturata e arrangiata rispetto alla totalità di quanto compariva sul primo album.

La strada sembrava insomma quella buona e invece, i Thunder cosa fanno? Con ‘Behind closed doors’ effettuano una virata a centottanta gradi e tornano quasi pari pari al sound di ‘Back street symphony’. Il disco vende (naturalmente) quattro copie e la EMI li licenzia. E ben gli sta. Cosa si proponevano di fare, cosa volevano dimostrare con questo ritorno al citazionismo furibondo del primo album? Ma si era ormai nel 1994, il clima musicale era mutato in maniera definitiva, e forse la EMI li avrebbe messi alla porta anche se ‘Behind closed door’ fosse stato la prosecuzione logica del discorso iniziato con ‘Laughing...’ anziché un ritorno alle tronfie asperità del passato.

Il passaggio alle labels indipendenti non ha cambiato la sostanza della proposta della band, che dopo un periodo di scioglimento è tornata assieme e da poco è uscita con il nuovo 'Robert Johnson’s tombstone'. Resta il fatto che i Thunder sono stati molto probabilmente una grande occasione perduta. Potevano essere per l’hard inglese quello che Tesla, Cinderella e Black Crowes sono stati per quello americano, invece hanno finito per diventare la versione british rock dei Badlands, ma senza la classe, l’intensità e la pura forza che possedeva la band di Ray Gillen. Con un cantante dalla voce straordinaria e un chitarrista che per poco non divenne il solista degli Whitesnake, i Thunder avrebbero potuto arrivare dovunque, ma sono rimasti confinati nel pub sotto casa. Perché lo hanno voluto loro, certo. Ma siamo sicuri che fosse davvero questo ciò che volevano? Magari hanno solo esagerato nel fare i furbi. Voglio dire: hanno ripetuto fino alla nausea la litania del “amiamo il rock dei 70, quello senza fronzoli, diretto, cazzuto”, e alla fine la gente ci ha creduto. Ma siamo proprio sicuri che ci credessero fino in fondo anche loro? Perché ci sono tanti modi per rifarsi alla tradizione e quello adottato dai Thunder ha sempre avuto qualcosa di falso e artificioso. I Kiss Of The Gipsy tecnicamente non erano alla loro altezza, non avevano canzoni così buone, eppure il loro unico album – modellato con la stessa materia utilizzata dai Thunder – possiede un calore, un entusiasmo, una spontaneità che nessun disco dei Thunder ha mai avuto. Sul versante opposto, quello delle bands esperte e navigate, confrontateli con gli FM di ‘Aphrodisiac’ e sopratutto ‘Dead man’s shoes’: blues fino al midollo, ma in maniera personale, autonoma, pur nel rispetto assoluto della tradizione. I Thunder hanno preferito battere una strada più sicura: quella della celebrazione. Ma temo che l’abbiano fatto perché glielo diceva la testa, non il cuore.  

 

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GLENN HUGHES

 

 

  • BLUES (1992)

Etichetta:Shrapnel/Blues Bureau Reperibilità:scarsa

 

Ecco l’uomo che è andato vicino, vicinissimo, a diventare la più grande voce di tutti i tempi dell’hard rock. E non c’è riuscito solo ed esclusivamente perché non lo ha voluto lui stesso. Dopo i Trapeze, era venuta l’occasione d’oro con i Deep Purple, solo come bassista, d’accordo, ma Glenn riusciva comunque ad imporre il suo sigillo vocale fra una canzone e l’altra, quando l’amico David Coverdale non gli lasciava del tutto il microfono, come su “This time around” (da ‘Come and taste the band’, un disco che i fanatici vecchi e nuovi dei Purple immagino manderebbero volentieri al rogo). Ma dopo i Deep Purple la sua dipendenza dalla droga divenne talmente grave da imporgli frequenti stop che prima tagliarono le gambe alla sua carriera solista, poi lo relegarono al ruolo di ospite eccellente. L’opportunità più grossa per rientrare nel giro buono venne con i Black Sabbath, ma già durante i concerti che fecero seguito a ‘Seventh star’ Glenn collassò, costringendo Tony Iommi ad interrompere il tour americano e cercare un nuovo singer. Anni ed anni di stenti e comparsate e visite alla clinica di Betty Ford, solo nei primi anni ’90 Glenn vede l’uscita dal pozzo nero della droga, e ritrova salute ed entusiasmo. Non la sua voce straordinaria, però. Le armoniche più basse, quelle che davano profondità e spessore alla sua vocalità, svaniscono. L’estensione è meno ampia, il registro più acuto ed acidulo. Quasi una voce da black singer, insomma, eppure sempre potente, squassante, anche se non superba come in passato. Questo ‘Blues’ nacque in principio come secondo volume della serie ‘L.A. Blues Authority’, Mike Varney chiamò Glenn per sapere se gli interessava cantare nuovo materiale per le compilations della Blues Bureau dopo la cover di “Messin’ with the kids” registrata per il primo episodio tutto dedicato a classici del genere (ne riparleremo presto), e il progetto divenne un album solista, il primo dopo ‘Play me out’, ma fatto solo di hard blues incandescente composto da Glenn per l’occasione, una cosa abbastanza nuova per il Nostro, che aveva piuttosto manifestato uno sviscerato amore per il funky ed il soul (‘Play me out’, in effetti, era un disco soul). Ma The Voice, da quel grande interprete che è, entra nel contesto con la consueta autorevolezza, ed in appena due settimane di registrazioni sforna un bollente trattato di hard rock bluesato, jammando in studio con una frotta di amici prestigiosi. Se di tutte le parti di chitarra ritmica si occupa Craig Erickson (uno dei moderi maestri della chitarra blues, che compone con Glenn nove pezzi su dodici), le parti soliste sono gestite dallo stesso Erickson e poi da John Norum, Warren DeMartini, Mark Kendall, Richie Kotzen, Darren Housholder, Paul Pesco e Mick Mars, mentre al basso si alternano lo stesso Glenn e Tony Franklin, con Gary Ferguson dietro i tamburi e Mark Jordan alle tastiere (poche, per la verità).

Tra ovvie rimembranze funk e soul, il disco procede sulla direttrice blues senza tentennamenti, Glenn urla la sua rinnovata voglia di vivere attraverso canzoni che sono dichiarati frammenti autobiografici, e quale genere meglio del blues può rendere l’odissea di un uomo passato attraverso gli ambigui inferni della droga e che ha ritrovato infine la forza ed il coraggio di uscirne? Dodici schegge infuocate, da godere una dietro l’altra, senza soste o pause, non faccio titoli, voglio solo spezzare una lancia in favore di Mick Mars, un chitarrista mai abbastanza considerato e che in questa sede sfodera un fervore blues da far vergognare gli scettici.