C’è una storia riguardo il
monicker di questa band. Non so quanto si possa considerare veritiera, comunque... Si
dice che i futuri Royal Court Of China lo lessero nel testo di
un’intervista a Jimmy Page. Pare fosse il nome che Jimmy aveva
intenzione di dare a quelli che poi sarebbero divenuti i Firm, ma venne
sconsigliato dalla sua label di adottarlo in quanto quest’espressione
è un modo di dire che nell’ambiente della droga si riferisce
all’oppio cinese. Ma ad una band che allora si faceva chiamare Enemy
piacque tanto che corse a registrarselo e lo adottò come proprio
monicker: quando poi Jimmy tentò di registrarlo per sé scoprì che
quattro ragazzi di Nashville glielo avevano soffiato. Il tutto dovrebbe
essere accaduto tra il 1986 ed il 1987, più o meno. Verità o
leggenda... chi lo sa? Okay, questo è l’aneddoto, facciamo un paio di
passi indietro, adesso. Dopo l’esplosione del grunge,
molti act della scena del rock melodico voltarono la faccia al genere e
si buttarono a capofitto nella nuova dimensione musicale codificata da
Nirvana e Pearl Jam. Non fu certo una migrazione di massa, ma
sicuramente una buona percentuale di act di varia importanza e notorietà
si convertirono a quanto pareva stesse catalizzando l’interesse del
grande pubblico. Bands nacquero da costole più o meno importanti di
altri gruppi, come gli Arcade di Stephen Percy o i Freak of Nature di
Mike Tramp. Fu un lesto mutare pelle che fece arricciare il naso a tutti
quelli rimasti fedeli al genere, i quali trassero comunque una magra
soddisfazione dal generale insuccesso che tutti questi progetti
riscossero, forse non tanto per demerito quanto per sovraffollamento.
Erano semplicemente troppi
perché qualcuno li notasse tutti, e comunque il pubblico più giovane
si rivolgeva con maggior fiducia a novizi dalla reputazione immacolata
come gli Stone Temple Pilot, gli Spin Doctor o i Blind Melon, oppure a
gente che poteva vantare già una certa militanza nel campo, come gli
Smashing Pumpkins, piuttosto che a formazioni nuove di nome ma non di
fatto. Io stesso ammetto di aver provato una certa soddisfazione sadica
nel leggere dei fiaschi ripetuti degli Arcade, con cui Stephen Percy
sperava di farsi una verginità garage dopo tanti anni di metal
canzonettaro e poppeggiante, e dei Motley Crue di ‘Generation
Swine’. Ma la storia non era affatto nuova. Quando era l’AOR
a dettare legge, non pochi musicisti si tuffarono con più o meno
convinzione nel calderone del rock melodico, provenendo da ambiti
musicali molto diversi. Tanto per fare qualche esempio, Paul Sabu aveva
cominciato la sua carriera di musicista e produttore nella Disco Music,
il suo primo album era fatto di roba da discoteche (le discoteche
dell’epoca), i Cult sappiamo che generi frequentavano prima di ‘Electric’,
mentre 38 Special e
Blackfoot hanno cominciato suonando southern rock nella stessa
tradizione di Lynyrd Skynyrd e Allman Brothers Band, e via di questo
passo. Quando poi salì alla ribalta lo street metal, con le sue sonorità
più ruvide e urgenti, la diga si spalancò nella direzione di tutte
quelle bands che razzolavano tra il punk e il più tradizionale rock
yankee. I TSOL furono un esempio di riconversione lenta, graduale,
nient’affatto sfacciata, che culminò nel 1990 col bellissimo ‘Strange
love’, mentre gli X, campioni del punk losangeleno, si posero
all'attenzione del pubblico dell'hard rock con il notevole 'Ain't
love grand' (prodotto da Michael Wagener) già nel 1985. Insomma: un certo genere di rock tirava, e esplorare
quella nuova direzione pareva tutt’altro che un’eresia. I Royal
Court Of China avevano pubblicato l’album d’esordio autointitolato
nel 1987, un disco di punk rock ottantiano passato completamente
inosservato. E allora, dovettero pensare i ragazzi, perché non giocare
la carta dello street metal? Proviamoci e vediamo cosa succede... Non
successe niente, purtroppo, e i RCOC svanirono nella nebbia.
“Purtroppo” perché ‘Geared and primed’
era un album davvero eccellente, da cui avrebbero potuto nascere cose
ancora più interessanti. Prodotto da Vic Maile (Motorhead, fra gli
altri), ‘Geared and primed’ allargava
lo spettro dello street rock alla psichedelia USA, al funk, all’heavy
rock più adrenalinico, come nella conclusiva “Take
me down”, palesemente ispirata dagli MC5, o nel gran rotolare
di “Tijuana go!”, col suo refrain
urlato e quasi punk, come negli L.A.Guns prima maniera. Chitarre secche,
taglienti e metalliche incidono come rasoi i riff: convulso quello della
title track, più funk quelli di “Six empty
bottles” (il capolavoro del disco, col suo clima di
disperazione stanca e sarcastica: sono
qui con sei bottiglie vuote a tenermi compagnia/ aspettando che passi il
tempo...), “Mr. Indecision” e “Dragon
park” che nella scansione ritmica incalzante e mozzafiato
riportano nel linguaggio dell’hard ottantiano la durezza abrasiva del
miglior garage rock. “Half the truth”
ha rifrazioni psych su un classico tessuto di rock yankee, una vera
cavalcata spezzata da un assolo rock’n’roll, “It
came crashing down the staircase” è una cupa, superba ballad
elettrica, mentre “So, yer love is true”
ha di nuovo una forte impronta psichedelica ma sovrapposta ad una bella
melodia, quasi allo stesso modo di “This time
around”, ballad elettroacustica non tanto distante da ciò che
facevano i primi R.E.M.. Da rimarcare le belle timbriche, il suono
spettacolare, ben lontano dalle tentazioni low-fi della scena
underground americana, e la voce acida ed espressiva del singer e
chitarrista ritmico Joe Blanton, che qualche anno dopo tenterà - senza
molto successo - di riciclarsi cantante country. Un’altra band, un’altra storia finita prima di cominciare.
A Neal vengono così:
all’improvviso, d’istinto. Una piccola deflagrazione ogni tanto,
spontanea, irrefrenabile, violenta. Forse una specie di reazione di
rigetto. Fra un disco e l’altro di AOR levigato, Neal Schon caccia
qualcosa di elettrico, selvaggio, veemente, scatenato. E lo fa, in
genere, di corsa, senza stare a pensarci troppo, una botta e via. Si
sveglia una mattina, guarda la sua Paul Reed Smith e, invece che
accarezzarla, come fa di solito, gli prende l’impulso di sottoporla ad
un trattamento un po’ più rude. Gli H.S.A.S., gli Hardline, i Soul
Cirkus sono i frutti di queste crisi, di questi attacchi di furore. Ma
il punto più estremo che Neal si sia mai concesso di raggiungere è
rappresentato dalle dodici canzoni di questo ‘Piranha
blues’. Nel booklet, Neal scrive che i
pezzi venivano registrati il giorno stesso della composizione, un paio
di prove e poi giù su nastro, e si sente. Quest’album ha un suono
impastato, a tratti sporco, acre. Solo nel conclusivo strumentale “Blues
for miles” si fa un po’ più limpido, le undici canzoni che
lo precedono sono un continuo rotolare tra le penombre di un qualche bar
saturo di fumo. Neal voleva fare il blues, non quello lindo e
spettacolare della varie ‘L.A. Blues Authority’
(cui pure aveva contribuito), ma qualcosa di imbastardito, primordiale,
all’occorrenza violento. Naturalmente, non c’era alcun bisogno di
far suonare questo CD come una ristampa di qualcosa incisa nel 1970 ma
tutto quadra se andiamo ad osservarlo dall’angolazione giusta. ‘Piranha
blues’ è uno sfogo. Un urlo non stai a provarlo per sentire
come ti viene fuori: lo lanci, perché ne hai bisogno, e poi basta. Neal
voleva suonare questa roba, a modo suo, senza preoccuparsi di lavorarci
troppo attorno. Chiamò un paio di amici fidati per fargli da sezione
ritmica - Ross Valory ed il primo drummer dei Journey, Prairie Prince -
trovò un cantante dalla voce al catrame, Richard Martin Ross (pensate
ad un Joe Cocker un po’ acido), e poi via, a rotta di collo. Poteva
venirne fuori un pastrocchio abominevole, ma Neal Schon è Neal Schon, e
così ‘Piranha blues’ risulta un
mosaico di hard rock bluesato da antologia. Non è pane per tutti i
denti, immagino: nessuna concessione al “bel suono”, lunghe parti
soliste, poche sovrincisioni, una voce meravigliosamente catarrosa,
produzione ridotta all’osso. Nessun trucco in questo baraccone delle
meraviglie, solo l’essenza di quel suono magico che Neal e compagni ci
offrono filtrata attraverso le rifrazioni abbaglianti di dodici schegge
ardenti. “Whiskey,
women and blues”: un titolo più appropriato per cominciare non
potevano trovarlo: un riff funk che gratta come una sega sul metallo
arrugginito, il basso sparato in faccia, la batteria in primo piano con
i piatti mixati a volume altissimo e l’assolo che sembra venire da
chissà quale distanza, il ringhiare di Martin Ross... Qui si fa sul
serio, gente! E’ il blues allo stato brado, non la sua versione
addomesticata a cui siamo ormai abituati. “Gonna
get back to you” va ancora più lontano, un suono anni ’70,
saturo, per un blues lento, da qualche parte c’è un organo Hammond,
ma sepolto, ricacciato in fondo, il riff di chitarra ha quasi lo stesso
sapore di quelli che Tony Iommi si inventava per i primi dischi dei
Black Sabbath, nel finale il suono si impasta, l’assolo è remoto e
velato, e la musica non cambia su “Lonesome road”,
che ha un tempo più svelto e un Martin Ross - se possibile... - ancora
più rauco. “Hole in my pocket” può
ricordare alla lontana gli ZZ Top vecchia maniera, qui sembra che Neal
faccia le sue parti soliste addirittura in un’altra stanza rispetto al
resto della band, discosto e in sordina. “Walkin'
out the door” è pura atmosfera: come una strada al crepuscolo
dove le luci dei lampioni sono velate dalla nebbia che sale da paludi
dove le chiome degli alberi sono festonate di muschio spagnolo e fuochi
fatui, siamo in Louisiana, New Orleans, Baton Rouge, da quelle parti,
insomma, e questo si chiama Voodoo
Blues, baby... Le timbriche della chitarra quasi scintillano, il
basso pulsa insinuante ma è l’Hammond a dare l’ossatura ritmica
alla canzone, il passo è lento, felpato, felino. Un clima inquietante,
sinistro, eppure sensuale e suadente. Il ritmo cresce piano piano,
l’atmosfera si fa sempre più bollente spezzandosi nel finale in un
assolo affilato e rarefatto. Capolavoro? Sicuro! Con “I’m
in love” rimbalziamo ancora negli anni ’70, un riff rock,
elettrico, essenziale, questa è quasi un anthem, sembra un outtake dei
Cream, superba. “Love trance” rallenta
il ritmo, qualche sprazzo rarefatto di keys, è tutto così intenso... “Slow down”: siamo
tornati nella sala prove dei Led Zeppelin nel 1969 o giù di lì, brano
essenziale, solo tre strumenti e voce, praticamente nessuna
sovrincisione, Neal sembra che abbia messo la sordina alla sua chitarra,
nel finale entra un fantasma di sezione fiati, lontanissima, a volume
basso, come se fosse arrivata qui per caso da un bar vicino portata da
un vento caldo... “Play the blues” è
vivace, il suono torna brillante, pezzo agile, una cosa alla B.B. King,
ma - ovviamente - più pesante. “A girl like you”
è il festival della steel guitar. Pura, travolgente cowboy song, la
melodia somiglia parecchio a quella di “Whiskey,
women and blues”, ma chi se ne frega, l’assolo si incunea tra
l’intreccio di lap steel, il finale è tutto elettrico, violento,
debordante, con un’ultima pennellata alla chitarra d’acciaio per
chiudere. I Blues Brothers sono i padri spirituali di “Hey,
hey, babe”, swingante, con i fiati stavolta in bella evidenza:
fortissima. “Blues for miles” e il
disco è (già) finito, avrebbe potuto essere un pezzo di ‘Late
nite’, c’è forse qualcosa del Gary Moore più blues, la
chitarra di Neal ci porta per mano, adagio, lontano, sempre più
lontano... Da poco Neal è uscito con un nuovo disco solo, ‘I on u’, in linea con il materiale di ‘Late nite’, sempre grandissima musica, ma ogni ascolto di ‘Piranha blues’ ci fa sperare in un nuovo attacco di furia chitarristica, perché quando Neal si mette a suonare il blues non ce n’è davvero per nessuno...
Uno dei miti che a lungo hanno
condizionato - sempre in peggio - le valutazioni critiche dei recensori
nostrani è quello della “sincerità” delle bands britanniche di
hard rock. Mentre la musica degli ensemble americani era plastificata,
preconfezionata, troppo lustra e luccicante per essere “autentica”,
quella dei britannici era (quasi) sempre “vera”, fatta con il cuore,
lontana da tentazioni commerciali. L’hard inglese era sincero perché
sempre blues based, perché i
musicisti locali avevano come punti di riferimento Cream, Small Faces,
Bad Company, Led Zeppelin, Mott The Hoople, Foghat, Savoy Brown
eccetera, mentre gli yankees si limitavano solo a fotocopiare Bon Jovy...
Non che bastasse avere la residenza nelle isole di Albione per attirarsi
le simpatie degli scribacchini nostrani. I poveri Little Angels, per
esempio, sono stati sempre trattati da raccomandati di ferro, accusati
di imprecisati misfatti, derisi più o meno apertamente, e solo perché
la loro musica (anzi: la loro splendida
musica) era troppo varia, intelligente e di buon retrogusto americano
per piacere a chi andava alla ricerca dei nuovi Mick Ronson o Paul
Rodgers, quelle stesse persone che hanno sempre sostenuto e incensato i
Thunder. Perché i Thunder sono stati l’ultima spiaggia per tutti i
nostalgici del buon, caro, vecchio (sottolineiamolo: vecchio)
hard britannico dei magici anni ’70. E quando una band non viene presa
per quello che effettivamente è ma solo per ciò che può rappresentare
nella fantasia dell’ascoltatore, qualsiasi valutazione critica
oggettiva finisce per andare a farsi benedire. I Thunder, per me, sono la classica
band che al primo ascolto ti entusiasma, al secondo ti fa borbottare:
“Ma allora era tutto qui?”, al terzo (che è sempre, bene o male,
una specie di prova del nove) ti induce a chiederti se ti non conveniva
aspettare che il disco venisse declassato nelle collane a metà prezzo
prima di comprarlo, e che finisci per tirare fuori un volta ogni tanto
dallo scaffale quando hai terminato di risentire per l’ennesima volta
tutti i tuoi dischi degli Whitesnake. Danny Bowes (voce), Luke Morley
(chitarra solista) e Gary James (batteria) venivano dai Terraplane, una
band da due album e scarsissima fortuna. Con l’aggiunta di un secondo
chitarrista, Ben Matthews, e del bassista Mark Luckhurst
si ribattezzarono Thunder e agguantarono un contratto con la EMI
che li spedì in studio con Andy Taylor, l’ex - Duran Duran da poco
convertito alla fede dell’hard rock. ‘Back
street symphony’ era una specie di Bignami dell’hard rock
inglese, o come quegli omnibus di romanzi condensati che erano la
specialità del Reader’s Digest: una dozzina di dischi spremuti in uno
solo. “She’s so fine” già diceva
tutto: cominciava come i Cream, proseguiva come i Led Zeppelin e finiva
come i Bad Company, e via di questo passo per tutto l’album. Non che
nelle undici canzoni di ‘Back street...’
non ci fosse del buono, “Don’t wait for me”
era un blues con i controfiocchi, “Love walked
in” una power ballad veramente ispirata, la title track aveva
un riff spaccaossa, ma il gioco di seguire la tradizione citando a più
non posso supportando tutta l’impalcatura con arrangiamenti scarni
finiva per non portare il disco da nessuna parte. Le canzoni piacciono
non per se stesse ma perché ricordano costantemente questa o quella
composizione di bands di ben altra caratura. E, peggio di tutto, c’è
una sgradevole atmosfera di calcolo che aleggia, come se tutto fosse
stato premeditato accuratamente per colpire un certo bersaglio, quello
dei nostalgici ad oltranza o dei ragazzini convinti che Eric Clapton
avesse sempre portato gli occhiali e indossato vestiti di Armani.
Perfino la cover di “Gimme some loving”
finisce per lasciare uno strano sapore in bocca, troppo scolastica,
sfacciata, come se la band ci volesse dire: sentite quanto siamo bravi a
rifare lo Spencer Davis Group... “An englishman on holiday”
è il picco di questa ambiguità, con il suo testo che parla delle
intemperanze dei sudditi di sua maestà in vacanza all’estero, e
ondeggia tra il sarcasmo e la più sordida spacconeria con quella che
potrebbe essere solo furbizia per accattivarsi le simpatie del pubblico
autoctono o pura grossolanità stile coro da pub gremito di ubriachi. Con il secondo album, ‘Laughing
on judgement day' le cose cambiavano in meglio. Gli arrangiamenti
diventavano più complessi e variegati, il suono più curato, le canzoni
non viaggiavano unicamente sull’asse voce/chitarra, le tastiere
diventavano ospiti praticamente fisse, e poi giù con l’armonica, i
fiati, la dodici corde... Basta, insomma, con la musicologia anni 70 e
avanti con la musica. Musica non più soltanto di stretta derivazione
britannica, ma a volte tramata di piacevoli umori yankees, come su “Does
it feel like love?”, con quell’arpeggio western e la slide
guitar e l’armonica, atmosfera che ritorna su “Baby
I’ll be gone” con il plus di un fascinoso intervento di Ben
Matthews alla dodici corde elettrica, mentre sul riff secco di “Everybody
wants her” impazza un’indiavolata sezione fiati. La band si
riconferma molto ispirata nel settore della melodia robusta con “Low
life in high places”, “Long way from
home” (come dei Cinderella in versione inglese) e “Like
a satellite”, ma toppa sull’unica ballad, “A
better man”, leziosamente acustica e manierata. Il top è “Empty
city”, che alterna parti fascinose e bluesate a violente ed
apocalittiche tempeste elettriche di schietta matrice Sabbathiana: una
canzone così nessuno credeva fosse nelle possibilità dei Thunder e
difatti per un po’ girò la voce - poi rivelatasi completamente priva
di fondamento - che su questo pezzo avesse messo mano (senza esserne
accreditato) David Coverdale... Anche nei pezzi più diretti la band non
rinuncia all’apporto delle keys (sempre “tradizionali”, però:
piano, Hammond, organo) e la pianta comunque di solleticare la
proverbiale volgarità dei suoi connazionali con cori da bar: “The
moment of truth”, “Flawed to perfection”,
“Fire to ice”, “Feeding
the flame”, pur con i soliti riferimenti a band più o meno
illustri degli anni 70, hanno una propria identità. L’unico vero
tributo al (recente) passato è la title track, comunque meglio
strutturata e arrangiata rispetto alla totalità di quanto compariva sul
primo album. La strada sembrava insomma quella
buona e invece, i Thunder cosa fanno? Con ‘Behind
closed doors’ effettuano una virata a centottanta gradi e
tornano quasi pari pari al sound di ‘Back street
symphony’. Il disco vende (naturalmente) quattro copie e la EMI
li licenzia. E ben gli sta. Cosa si proponevano di fare, cosa volevano
dimostrare con questo ritorno al citazionismo furibondo del primo album?
Ma si era ormai nel 1994, il clima musicale era mutato in maniera
definitiva, e forse la EMI li avrebbe messi alla porta anche se ‘Behind
closed door’ fosse stato la prosecuzione logica del discorso
iniziato con ‘Laughing...’ anziché un
ritorno alle tronfie asperità del passato. Il passaggio alle labels indipendenti non ha
cambiato la sostanza della proposta della band, che dopo un periodo di
scioglimento è tornata assieme e da poco è uscita con il nuovo 'Robert
Johnson’s tombstone'. Resta il fatto che i Thunder sono stati
molto probabilmente una grande occasione perduta. Potevano essere per
l’hard inglese quello che Tesla, Cinderella e Black Crowes sono
stati per quello americano, invece hanno finito per diventare la
versione british rock dei Badlands, ma senza la classe, l’intensità e la
pura forza che possedeva la
band di Ray Gillen. Con un cantante dalla voce straordinaria e un
chitarrista che per poco non divenne il solista degli Whitesnake, i
Thunder avrebbero potuto arrivare dovunque, ma sono rimasti confinati
nel pub sotto casa. Perché lo hanno voluto loro, certo. Ma siamo sicuri
che fosse davvero questo ciò
che volevano? Magari hanno solo esagerato nel fare i furbi. Voglio dire:
hanno ripetuto fino alla nausea la litania del “amiamo il rock dei 70,
quello senza fronzoli, diretto, cazzuto”, e alla fine la gente ci ha
creduto. Ma siamo proprio sicuri che ci credessero fino in fondo anche
loro? Perché ci sono tanti modi per
rifarsi alla tradizione e quello adottato dai Thunder ha sempre avuto
qualcosa di falso e artificioso. I Kiss Of The Gipsy tecnicamente non
erano alla loro altezza, non avevano canzoni così buone, eppure il loro
unico album – modellato con la stessa materia utilizzata dai Thunder
– possiede un calore, un entusiasmo, una spontaneità che nessun disco
dei Thunder ha mai avuto. Sul versante opposto, quello delle bands
esperte e navigate, confrontateli con gli FM di ‘Aphrodisiac’
e sopratutto ‘Dead man’s shoes’:
blues fino al midollo, ma in maniera personale, autonoma, pur nel
rispetto assoluto della tradizione. I Thunder hanno preferito battere
una strada più sicura: quella della celebrazione. Ma temo che
l’abbiano fatto perché glielo diceva la testa, non il cuore.
Ecco l’uomo che è andato vicino,
vicinissimo, a diventare la più grande voce di tutti i tempi
dell’hard rock. E non c’è riuscito solo ed esclusivamente perché
non lo ha voluto lui stesso. Dopo i Trapeze, era venuta l’occasione
d’oro con i Deep Purple, solo come bassista, d’accordo, ma Glenn
riusciva comunque ad imporre il suo sigillo vocale fra una canzone e
l’altra, quando l’amico David Coverdale non gli lasciava del tutto
il microfono, come su “This time around” (da ‘Come
and taste the band’, un disco che i fanatici vecchi e nuovi dei
Purple immagino manderebbero volentieri al rogo). Ma dopo i Deep Purple
la sua dipendenza dalla droga divenne talmente grave da imporgli
frequenti stop che prima tagliarono le gambe alla sua carriera solista,
poi lo relegarono al ruolo di ospite eccellente. L’opportunità più
grossa per rientrare nel giro buono venne con i Black Sabbath, ma già
durante i concerti che fecero seguito a ‘Seventh
star’ Glenn collassò, costringendo Tony Iommi ad interrompere
il tour americano e cercare un nuovo singer. Anni ed anni di stenti e
comparsate e visite alla clinica di Betty Ford, solo nei primi anni
’90 Glenn vede l’uscita dal pozzo nero della droga, e ritrova salute
ed entusiasmo. Non la sua voce straordinaria, però. Le armoniche più
basse, quelle che davano profondità e spessore alla sua vocalità,
svaniscono. L’estensione è meno ampia, il registro più acuto ed
acidulo. Quasi una voce da black singer, insomma, eppure sempre potente,
squassante, anche se non superba come in passato. Questo ‘Blues’
nacque in principio come secondo volume della serie ‘L.A.
Blues Authority’, Mike Varney chiamò Glenn per sapere se gli
interessava cantare nuovo materiale per le compilations della Blues
Bureau dopo la cover di “Messin’ with the kids” registrata per il
primo episodio tutto dedicato a classici del genere (ne riparleremo
presto), e il progetto divenne un album solista, il primo dopo ‘Play
me out’, ma fatto solo di hard blues incandescente composto da
Glenn per l’occasione, una cosa abbastanza nuova per il Nostro, che
aveva piuttosto manifestato uno sviscerato amore per il funky ed il soul
(‘Play me out’, in effetti, era un
disco soul). Ma The Voice, da
quel grande interprete che è, entra nel contesto con la consueta
autorevolezza, ed in appena due settimane di registrazioni sforna un
bollente trattato di hard rock bluesato, jammando in studio con una
frotta di amici prestigiosi. Se di tutte le parti di chitarra ritmica si
occupa Craig Erickson (uno dei moderi maestri della chitarra blues, che
compone con Glenn nove pezzi su dodici), le parti soliste sono gestite
dallo stesso Erickson e poi da John Norum, Warren DeMartini, Mark
Kendall, Richie Kotzen, Darren Housholder, Paul Pesco e Mick Mars,
mentre al basso si alternano lo stesso Glenn e Tony Franklin, con Gary
Ferguson dietro i tamburi e Mark Jordan alle tastiere (poche, per la
verità). Tra ovvie rimembranze funk e soul,
il disco procede sulla direttrice blues senza tentennamenti, Glenn urla
la sua rinnovata voglia di vivere attraverso canzoni che sono dichiarati
frammenti autobiografici, e quale genere meglio del blues può rendere
l’odissea di un uomo passato attraverso gli ambigui inferni della
droga e che ha ritrovato infine la forza ed il coraggio di uscirne?
Dodici schegge infuocate, da godere una dietro l’altra, senza soste o
pause, non faccio titoli, voglio solo spezzare una lancia in favore di
Mick Mars, un chitarrista mai abbastanza considerato e che in questa
sede sfodera un fervore blues da far vergognare gli scettici.
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