Parecchi anni fa, prima che io nascessi, quando la televisione era monopolio statale e gli apparecchi erano solo in bianco e nero ed avevano il comando della sintonia e basta, perché esisteva unicamente il segnale di quella che molto tempo dopo sarebbe diventata RAI 1, c’era un gioco a premi che - come tante cose dei primi anni della TV, “Lascia o raddoppia” per primo - divenne una specie di tormentone. Ti facevano vedere un’ombra proiettata contro un lenzuolo bianco e tu dovevi indovinare cos’era che la gettava. Il gioco di chiamava “L’Oggetto Misterioso”, e ancora oggi l’espressione viene usata saltuariamente per definire qualcosa di cui non si riesce con esattezza a individuare la natura. I Tesla, per me, sono sempre stati una specie di Oggetto Misterioso. Non ho mai capito: 1) cosa si proponevano esattamente di fare; 2) cosa veramente gli piaceva fare; 3) perché abbiano avuto un tale successo. La domanda numero 3 è in relazione ad altri act più o meno contemporanei della band che, nonostante avessero un sound ben definito e talvolta canzoni migliori, non riuscirono ad attirare l’attenzione della gente quanto i Tesla, che nei loro anni di gloria inanellarono dischi d’oro uno dietro l’altro, e ancora oggi figurano regolarmente nel catalogo della Geffen (anche se la major li ha scaricati già da anni e il loro ultimo album è uscito per la Sanctuary). Non stò cercando di insinuare che questa band non valga un fico, solo mi pare che il successo, la rinomanza ed il credito ottenuti siano stati leggermente sproporzionati al valore reale dell’offerta (e vi prego di memorizzare bene quell’avverbio: leggermente). Non è da sottovalutare il fatto che i Tesla godettero dell’incondizionato ed entusiastico appoggio della propria label e poterono contare sui servigi del Q Prime Management, l’agenzia di rappresentanza di Metallica e Def Leppard, ma una promozione massiccia non porta necessariamente nei quartieri alti di Billboard. La mia teoria è che i Tesla si trovarono nel posto giusto al momento giusto: il (piccolo) ciclone dell’hard blues stava per scatenarsi e loro ne divennero i portabandiera anche se la proposta della band era tutt’altro che monocromatica, spaziando lungo un arco che comprendeva ampiamente il metal californiano, una componente mai venuta a mancare nella musica di questa band e che per qualche ragione incomprensibile nessun critico/recensore ha mai sottolineato, come se associare i nomi dei Motley Crue e sopratutto dei Ratt, ai Tesla ne sminuisse in qualche modo il valore... Ed è proprio la coesistenza di questi elementi così (apparentemente?) contrastanti sotto lo stesso tetto che ha generato le domande numero 1 e 2; in sostanza: i Tesla ci servivano un minestrone di generi perché erano tipi eclettici o soltanto per accontentare quanta più gente possibile? Era spontaneità o cerchiobottismo? C’erano o ci facevano? ‘Mechanical Resonance’ uscì nel 1986, ma la band (Jeff Keith al canto, Tommy Skeoch e Frank Hannon alle chitarre, Brian Wheat al basso e Troy Luccketta dietro i tamburi) aveva già conquistato una certa notorietà grazie alla sua attività di supporter per Dokken, Y&T e Eddie Money (quando era ancora senza contratto!); e che attorno a loro ci fosse un movimento notevole è testimoniato anche dal fatto che il primo demo lo produsse nientemeno che Ronnie Montrose. Alla registrazione di ‘Mechanical Resonance’ lavorarono però con il team Steve Thompson / Michael Barbiero, mettendo assieme dodici canzoni che riassumevano bene tutto quanto era scaturito dalla Los Angeles metallica dei mid 80s, aggiungendo però al piatto robuste dosi di blues. Apre “Ez come ez go”, un bell’incrocio Ratt / Great White rovinato a tratti da un cantato lamentoso e con un assolo heavy metal che non c’entra un beneamato cazzo in questo contesto. “Cumin’ atcha live” parte con un intro di assoli incrociati di chitarra e si sviluppa come un classico heavy rock americano alla Montrose, molto settantiano, con una bella fase solista. “Getting better” inizia con altri lamenti da parte di Jeff Keith, una chitarra acustica, poi entra un riff quadrato, aerosmithiano, su cui posa un coro quasi anthemico. “2 late 4 love” è la prima vera perla del disco, il coro è pura matrice Ratt/Crüe, le strofe hanno un fervore che rimanda ai Led Zeppelin, mentre “Rock me to the top” segue gli stilemi dell’ L. A. Metal in un contesto più ispido, con qualche ombra Malice. “We’re no good together”: dov’è finito il metal? Questo è blues (con un occhio puntato ai Great White), che parte lento e accelera nel finale, chitarra slide, pianoforte... super! “Modern day cowboy”: eccolo di nuovo, il metal! Questa è la cosa più Ratt del disco, anche se il canto abrasivo di Jeff Keith fa piazza pulita di qualsiasi tentazione pop. Su “Changes” al pianoforte si unisce l’hammond per un superbo hard melodico bluesato, i ragazzi hanno lasciato Los Angeles e si sono incamminati verso il Sud, le praterie, irrompe “Little Suzi” (cover dei Phd), hard folk blues ruspante con tanto di acustiche e banjo. Sono scatenati, ormai: “Love me” è di nuovo hard blues, tosto, un bridge funkeggiante con tanto di chitarra wah wah, e assolo veemente degno del miglior Joe Perry che si staglia contro le armonie dell’hammond. “Cover queen”: per me, l’apoteosi: un infuocato funk zeppeliniano con Jeff che planteggia sfacciatamente ed un finale accelerato e febbrile. “Before my eyes” conclude ancora in clima blues, ma stavolta metallico, intenso, cupo, quasi sabbathiano, dominato da lunghi assoli ricchi di venature psych. L’impressione poteva essere che la band si muovesse un po’ indecisa, in un clima di “vorrei ma non oso” analogo a quello in cui i Cinderella registreranno due anni dopo ‘Long cold winter’: la facile tentazione del metal per scalare la classifica di Billboard opposta ad una sconfinato bisogno di blues. Ma nel 1989, il secondo album ‘The great radio controversy’ (senpre diretto dalla coppia Thompson/Barbiero) riproponeva pari pari il mosaico di ‘Mechanical...’, senza variazioni di sorta. L’apertura stavolta era affidata ad un episodio di notevole hard rock settantiano metallizzato, “Hang Tough” (ma il coro non fa un po’ troppo Scorpions?), con a seguire il solito metal californiano sulla scia Ratt/Crue di “Lady luck”. “Heaven’s trail” è una festa di slide guitar, un grande hard blues impostato sulla direttrice Montrose-Aerosmith, replicato da “Be a man” in una dimensione più melodica e ottantiana. “Lazy days, crazy nights” è ancora un magnifico tributo ai Led Zeppelin, mentre “Did it for the money” un solido hard rock non tanto distante dalle produzioni contemporanee dei Guns N’ Roses. “Yesterdaze gone” torna a guardare al metal melodico californiano, un pezzo bello sodo, a tratti addirittura convulso, e la stessa fonte alimenta la spettacolare “Makin’ magic”, squisita connection Ratt / Malice con un tocco dei Great White più zeppeliniani. “The way it is” è un superbo hard blues (a cui Slash sgraffignerà il coro per la sua “Beggars and hangers on”, su ‘It’s five o’clock somewhere’) con sfumature southern, veramente bello l’assolo di Frank Hannon. Con “Flight to nowhere” torniamo nella Los Angeles metallica di fine anni 80, “Love song” è una power ballad intensa e bluesata, tramata di hammond e chitarre acustiche. “Paradise” forse è la vetta del disco, parte come una power ballad con il piano a sottolineare una melodia struggente, poi accelera nella seconda metà con un ardore quasi southern sostenuto da un assolo lungo, infuocato, velocissimo. Ma il finale è di nuovo all’insegna dei Ratt, “Party’s over” è quasi un omaggio alla band di Stephen Percy, anche nel cantato di Jeff Keith. La musica non cambierà (in senso letterale ed in senso lato) né su ‘Psichotyc supper’ né su ‘Bust a nut’: sempre un’alternanza di elementi contrastanti che raramente si congiungono, un po’ metal ed un po’ blues, un po’ anni 70 ed un po’ anni 80... in mezzo venne ‘Five man acoustical jam’, testimonianza del loro tour acustico che fu il principale responsabile dello scatenarsi di quella follia collettiva che venne battezzata unplunged e ci afflisse con centinaia (ma forse sono migliaia...) di album più o meno live in cui le chitarre acustiche prendevano il posto delle elettriche per un risultato finale che spesso e volentieri scivolava verso il grottesco. Dopo ‘Bust a nut’, gli ormai cinque milionari si divisero amichevolmente e con la benedizione della Geffen (e questo nonostante il contratto firmato con la major prevedesse altri due album) per dedicarsi a band parallele ed esperienze soliste, salvo tornare assieme nel 2001, prima per un nuovo disco dal vivo, ‘Replugged live’, poi per il recente (2004) ‘Into the now’, che non cambia di una virgola il loro sound, aggiungendoci solo le indispensabili sfumature “moderne” e lasciandoci ancora con quell’amletico dubbio: ci sono o ci fanno...?
Era il titolo di una canzone dei
Foreigner... sporco ragazzo bianco.
Un monicker che era tutto un programma, scartato quello iniziale di
China Bull, il quale - a meno di doppi sensi di cui sono all’oscuro -
non so come potesse rappresentare adeguatamente il carattere di una
delle più esplosive e straordinarie band dell’hard rock blues
americano. Una band che c’ha lasciato un solo disco, un lampo
solitario, un fulmine a ciel sereno; una band che venne silurata dalla
sua stessa label per quei calcoli da ragioniere che hanno ammazzato più
gruppi del grunge e della recessione messi assieme. Il suo perno, il suo
fondatore, era il veterano Earl Slick, un chitarrista che poteva vantare
nel proprio carnet collaborazioni con gente del calibro di David Bowie
(il David Bowie vero, non il
manichino sbiadito a cui da lungo tempo siamo abituati). Reclutato come
drummer l’ex-Autograph Keni Richards e per il ruolo di bassista lo
sconosciuto F. Kirk Alley, Slick trattò in un primo tempo con il
cantante dei grandi Heavy Pettin’, Steve Hayman, ma nella line up
definitiva il posto di vocalist fu occupato da David Glen Eisley, fresco
di licenziamento dagli House of Lords. Per Eisley era un cambiamento di
rotta abbastanza brusco, perché il materiale blues oriented scritto da
Slick nulla aveva a che fare con il pomp muscolare dei Giuffria e
l’hard melodico cromato degli House of Lords, ma la scelta si rivelò
azzeccata, non solo per le indubbie doti del cantante, ma sopratutto
perché quel suo vocione pastoso e ruvido nello stesso tempo riusciva
molto più appropriato ai territori scabri dell’hard rock che a quelli
più levigati e rarefatti in cui s’era mosso in precedenza (questa - of
course - è opinione del tutto personale dello scrivente). Prodotto
dal grande Beau Hill, mixato dalla premiata ditta Thompson/Barbiero, ‘Bad
Reputation’ era un magnifico e personalissimo concentrato di
hard blues dalle tonalità cangianti, dieci superbe interpretazioni
della materia hard rock filtrata attraverso le maglie ora fini ora
ruvide del setaccio del blues. La title track apre le danze imbastendo
suggestioni root su un telaio AC/DC, ma concedendo largo spazio alla
melodia, “Lazy crazy” ha un intro da
cowboy song poi spara un mid tempo infarcito di slide, flavour southern
con tanto di armonica ed un assolo che è un delirio di svisate degno
del Mick Moody più scatenato. Ancora umori southern per “Let’s
spend momma’s money”, caratterizzata anche dal martellare di
un piano boogie, poi la power ballad “You give
me love”, tra gli Aerosmith ed i Tesla, smalti di hammond e
grande melodia. “Dead cat alley” è un
blues che alterna breaks suadenti e notturni ad un coro stradaiolo e
cadenzato, dura, inquietante, fascinosa, con un lungo finale
strumentale: capolavoro! Su “Hammer on the heart”
i DWB sembrano dei Cinderella più massicci e violenti o dei Riverdogs
al testosterone, quella melodia maschia, l’intensità nel cantato di
David mette i brividi... “Hard times”
è ancora melodia di grande effetto distesa su un tappeto chiodato di
chitarre luccicanti, spezzata da un breve bridge di keys grandiose. “Soul
of a loaded gun” è tesa su una chitarra che si muove tra
riverberi psych, tentazioni root e suggestioni zeppeliniane, i flashes
di hammond, la melodia sudista, il drumming militaresco impostato sul
rullante, un bridge anthemico, l’assolo
come un patchwork elettrico... super! La grande melodia elettroacustica
di “One good reason” (diciamo Tesla,
Riverdogs e qualcosa dei Beggars & Thieves, con un assolo di nuovo
sublime) prelude alla conclusiva “Badlands”,
dove la band riesce nella missione quasi impossibile di sposare il pomp
alla cowboy song ottenendo un risultato che per suggestione, fascino e
fisicità resta praticamente senza pari (solo i Tangier di ‘Four
winds’ erano riusciti ad avvicinare queste atmosfere, ma non
con tanta forza). La produzione di Beau Hill sa coniugare potenza ed eleganza,
le timbriche della chitarra di Earl Slick sono sempre magnifiche, ricche
di colore e sfumature, non si cede mai alla tentazione del suono scarno
fine a se stesso (tentazione a cui finirono per soccombere a volte i
Badlands: e mi chiedo cosa sarebbe stato il loro primo album se a
sovrintenderlo fosse stato chiamato proprio Beau Hill anziché il
“metallico” Paul O’Neill: probabilmente il risultato finale
sarebbe stato ancora più eclatante di quello che conosciamo). Detto che
delle non irrilevanti parti di tastiere si occupa David Glen Eisley (e
non c’è da meravigliarsi che siano tanto autorevoli e fascinose,
considerato che David ha avuto come maestro un certo Greg Giuffria...),
resta solo da rammaricarsi della brevissima vita di questa band
eccezionale, che dopo un solo tour andò in pezzi, con Earl Slick che
finì per unirsi ai Little Caesar (anche loro grandissimi, comunque), e
D.G. Eisley che andrà vagando tra un progetto e l’altro e nel 2000,
con l’album ‘Lost tapes’, ci renderà
conto di quello che poteva essere e non è stato, pubblicando i demo di
tre canzoni che erano destinate ad un secondo disco mai inciso:
malinconica coda di un progetto che avrebbe meritato vita molto più
lunga di quella che un pubblico poco attento gli concesse.
N.B.
Tutto quanto viene dopo gli asterischi è stato ovviamente scritto prima che questo disco venisse (finalmente) ristampato nel 2012.
* * *
Prima di cominciare a leggere, per
favore meditate bene su un dato fondamentale
connesso a questo disco che ho ricavato da un noto ed attendibile sito
web dedicato all’hard melodico: la sua quotazione media nelle aste su
eBay si attesta intorno ai sessanta dollari. Riflettete, ponderate,
tirate bene le somme. Se, come il sottoscritto, siete assatanati cultori
dell’hard rock blues ma, esattamente
come il sottoscritto, spendere sessanta dollari per un CD è qualcosa di
superiore alle vostre forze, fermatevi qui e non procedete oltre.
Cacciate Joanna Dean in un angoletto della memoria collegato ad un
allarme destinato a squillare solo quando (e se) ‘Misbehavin’’
verrà ristampato. Fine della storia. Non voglio essere considerato
vostro complice in un consistente ammanco nei conti di casa (magari
gestiti da un’inflessibile e vendicativa consorte) né tormentarmi
pensando allo sguardo smarrito dei vostri figli quando fissano il piatto
pieno di cicoria bollita che gli avete servito per cena mentre dalle
casse del vostro stereo esce la voce di Joanna che canta “Dirty
fingers”... Ovviamente, la prima domanda da
porsi è: li vale, questi sessanta biglietti verdi, ‘Misbehavin’’?
Dato che, come ci insegna (maccheronicamente) Einstein, tutto è
relativo, la risposta potrebbe essere: dipende dall’ascoltatore. Se
costui gradisce l’hard rock bluesato più bollente ed impetuoso, root
e amplificato, senza fronzoli ma pure senza rozzezze ed ha un debole per
le voci femminili toste, la spesa - come si suol dire - vale l’impresa (almeno in
teoria: approfondire il discorso in tutte le sue implicazioni,
sopratutto morali, ci porterebbe lontano). Ma chi è questa signora per cui ci
si accapiglia a furia di rilanci bestiali nelle aste on line? Prima
della pubblicazione di questo suo primo ed unico disco, Joanna Dean
aveva girato gli USA lavorando non solo come cantante e corista ma anche
come batterista (e questo dato già potrebbe dare indicazioni sul
carattere della ragazza). Rientrata nella natia Memphis, riuscì ad
agguantare un contratto per la Polygram e ad incidere l’album in esame
con una support band che si faceva chiamare Big Noise, composta
dall’’ex-Creed Steve Ingle (chitarre), Roy Vogt (basso) e Roger Cox
(batteria). Prodotto da R. Eli Ball, ‘Misbehavin’’
non era sicuramente un prodotto concepito per sbancare le classifiche.
Il materiale era tutto scritto dalla band, salvo per una cover del
classico dei Rolling Stones “Gimme shelter”,
un brano composto da Taylor Rodes e Tom DeLuca, la già citata “Dirty
Fingers”, e l’apripista “Saturday
Night”: rock blues ad elevato voltaggio, dominato dalla voce
superba di Joanna, quasi una Bonnie Rait più potente e meno raschiante,
come velluto ruvido incrostato di diamanti. Naturalmente, nulla avrebbe
vietato a questo disco di vendere qualche milione di copie (l’avevano
fatto anche Tesla e Guns N’Roses in quello stesso periodo, proponendo
del materiale che non era certo più commerciale di quello contenuto in
‘Misbehavin’’), ma il problema stava
piuttosto nel far sapere alla gente che il disco esisteva. La solita,
irrisolta questione della promozione: registriamo pure un disco, ma poi
lasciamolo a prendere polvere negli scaffali dei negozi... Capisco che
una label non possa spendere milioni di dollari per pubblicizzare ogni
album che pubblica, ma un minimo di supporto in più agli esordienti
(quelli che ne hanno davvero bisogno) sarebbe sempre opportuno.
Sopratutto se l’esordiente aveva tirato fuori un disco di tale e tanto
valore come ‘Misbehavin’’. “Saturday
night” apre le danze, in senso letterale e in senso lato, un
boogie alla Georgia Satellites perfetto nella sua essenzialità, assolo
di slide guitar, e quella voce che graffia e carezza... “Kiss
this” parla la lingua degli AC/DC, ha un coro anthemico ed un
testo irriverente e la title track
segue sulla stessa scia ma con un feeling più blues, suadente e
notturno. “I miss the money” e “She’s
been hearing about me” arano lo stesso terreno battuto da
Bangles e 4 Non Blondes, ma con un’energia ed una classe che gli ensemble
citati potevano solo sognarsi, “Burning rubber”
sembra rubata al repertorio dei Tesla (sapesse cantare Jeff Keith come
Joanna...), “Dirty fingers” è la
scheggia più metallica, anthemica, un refrain degno dei Ratt più
ruvidi, se questa canzone fosse capitata fra le mani di Alannah Myles
sarebbe diventata un hit mondiale (la incise in quello stesso anno - con
il testo opportunamente variato dal femminile al maschile - anche Paul
Dean nel suo album 'Hardcore'). “Once is
enough” è una power ballad stratosferica, ruvida e drammatica,
un crescendo intenso e privo di manierismi scandito dal piano e da una
chitarra scabra e implacabile (c’è qualcosa dei Cinderella?).
Conclude la già citata “Gimme Shelter”,
riproposta in una chiave decisamente hard rock, sei minuti dove c’è
gloria anche per la chitarra di Steve Ingle. ‘Misbehavin’’ non fu un
successone, ma bastò a Joanna per conquistarsi un certo credito e
mettere su un’altra band, i Bad Romance (con l’aiuto di Eric
Brittingham, che assicurò un deal con lo stesso management dei
Cinderella). ‘Code of Honour’ (1991),
il primo ed unico album dei Bad Romance, seguiva sulla falsariga di ‘Misbehavin’’
in un contesto meno blues e più hard rocking,
ma neppure stavolta successe granché, forse a Joanna mancava il fisico
(carina, ma non precisamente una venere come Alannah Myles) e pare che
quando una donna si mette dietro un microfono a cantare il rock la voce
non basti, anche l’occhio deve avere la sua (maledetta) parte, è solo
una speculazione, forse fu solo sfortuna, e Joanna Dean svanì
anche lei nella nebbia che ha inghiottito tanti interpreti sopraffini. Mi chiedo se sia al corrente delle zuffe telematiche che si
scatenano attorno ai suoi album, cosa pensi delle quotazioni stellari
che hanno raggiunto, forse commenterebbe tutto con quella gran risata
noncurante e sarcastica che chiude “I miss the
money”... Mi mancano
tanto i soldi... A noi manchi tu, Joanna. Tanto.
Quella dei Badlands, tutto
considerato, è una storia curiosa. Godettero di un successo di vendita
solo moderato, ma oggi non è azzardato ritenerli oggetto di un culto
quasi fanatico (e i loro album sono sicuramente quelli più richiesti da
coloro che mi scrivono: “quand’è che recensisci i Badlands?” è
diventata quasi una domanda di routine). I loro primi due dischi sono
fra i principi delle aste su e-bay, al centro di rilanci frenetici che
fanno lievitare i prezzi quasi sempre alle stelle. Meritano tante
attenzioni? Sembra quasi troppo facile rispondere di sì. Che fossero i migliori,
in assoluto, non lo credo. Una grande band, non si discute, ma, per fare
qualche nome, i Lynch Mob di ‘Wicked sensation’, i Salty Dog, i
Katmandu, i Dirty White Boy potevano guardarli senza arrossire, i
Kingdom Come ed i Cult invitarli senza imbarazzo a fargli compagnia
nella folta schiera dei Led Clones. Come abbiano potuto diventare una cult band, francamente
non so spiegarmelo: non sto provando a sminuirli, cerco solo di capire
per quale motivo l’attenzione di tanti sia stata catalizzata proprio
da questa band e non da una di quelle citate prima. E mi sorge il dubbio
(sgradevole) che tanta devozione al loro nome scaturisca più che altro
dalla fine prematura del singer, Ray Gillen. E’ la solita vecchia
storia: gli unici eroi veri, sono gli eroi morti. E nel rock (pare)
tutti continuano ad avere un maledetto bisogno di eroi. Eroi di cosa e,
sopratutto, per cosa, non lo so: tutta questa parte dell’immaginario rock è
degenerata, è stata mercificata ed ha perso qualsiasi senso già alla
fine degli anni ’60, sempre che si possa dire ne abbia mai avuto uno.
Il rock and roll fu un’invenzione a mente fredda di Chuck Berry per
far ballare i ragazzi bianchi: questa è una cosa che nessuno dovrebbe
dimenticare, mai. Ed i Sex Pistols non intitolarono il loro film “La grande
truffa del rock’n’roll”? Ma stiamo divagando. Tutto comincia quando Jake E. Lee
lascia la band di Ozzy (si vuole che avesse mal digerito il ‘Randy
Rhoads Tribute’, ma fu il madman
in persona a licenziarlo), e decide di mettere su un gruppo che abbia un
suono risolutamente blues oriented, entrando subito in contatto con Ray
Gillen. Come bassista venne arruolato Greg Chaisson (ex Steeler), mentre
il drummer fu Eric Singer, zingaro e turnista di super lusso per una
miriade di bands, segnalato a Jake da Ray Gillen, che lo aveva
conosciuto all’epoca della sua breve militanza nei Black Sabbath
durante il tour di ‘Seventh Star’ e le
registrazioni di ‘The eternal idol’,
(anche se poi le vocals di Gillen vennero eliminate dopo la sua
dipartita dai Sabbath, e il ruolo di vocalist fu assunto dal bravo Tony
Martin, che incise quelle della versione ufficiale e conosciuta del
disco: ma da anni girano nella più grande clandestinità bootlegs di ‘The
eternal idol’ con Ray alla voce). Il cantante
veniva dalla infelice esperienza con i Blue Murder (se volete saperne di
più, seguite il link
) e con i Badlands trovava (finalmente!) un
terreno stabile su cui costruire qualcosa con continuità dopo una lunga
teoria di progetti falliti e bands in cui finiva sempre per recitare più
o meno la parte dell’ospite. Pubblicato dalla Titanium,
etichetta indipendente distribuita dall’Atlantic, di proprietà del
direttore della rivista Hit
Parader Andy Secher, l’omonimo esordio era diretto da Paul O’Neill
- lo storico producer dei Savatage - e mixato da David Thoener. La scelta di O’Neill era
quantomeno curiosa, con il suo nome legato ad un gruppo prettamente
metal, e nonostante abbia letto quintali di interviste rilasciate dai
vari membri della band non ho mai trovato dichiarazioni che la
giustificassero: non è chiaro se lavorare con lui fu una volontà
precisa di Jake e Ray, o una mezza imposizione, dato che Paul O’Neill
era anche il loro manager. Comunque sia andata, è sempre la coppia
produttore-mixer ad incidere maggiormente sul suono di un album, e
dunque dobbiamo sopratutto ad O’Neil
il clima elettrico, il suono scarno, settantiano, con la sezione
ritmica in evidenza, la scarsità di overdubs, il mixaggio senza
fronzoli. Personalmente, questa è una scelta che non condivido, si può
suonare blues ispido ed avere un bellissimo sound, e chissà cosa
sarebbe stato questo disco se dietro il banco del mixer ci fossero stati
Bob Rock (che aveva meravigliosamente prodotto Cult e Kingdom Come, per
non parlare del primo Little Caesar...), Beau Hill (il suo lavoro con i
Dirty White Boy era superbo), John Jansen (pensate solo ai Cinderella di
‘Heartbreak station’) o il principe Bruce Fairnbairn (l’uomo che
ha reinventato il suono degli Aerosmith). Ma è molto probabile che Paul
O’Neill si sia limitato a seguire le indicazioni di Jake, ricostruendo
quelle atmosfere anni ’70 che il chitarrista aveva in animo di
evocare. Perché se c’è un disco derivativo, che si appropria
sfacciatamente ma con classe immensa di quel certo clima musicale è
proprio ‘Badlands’. Jake e Ray avevano
due punti fissi di riferimento: Led Zeppelin e Whitesnake. Ed a quei
capisaldi rimangono abbarbicati, saldamente, a volte spudoratamente. “High
wire” dice già tutto: il riff rotolante, il gran tuonare della
batteria, Zep, Zep, Zep a più non posso, il planteggiare sfacciato di
Ray, l’assolo dal suono sporco e valvoloso, e poi “Dreams
in the dark”, una scheggia che pare presa da ‘Ready
and willing’, e Ray che passa con bravura mostruosa ai toni
sexy/rauchi del David Coverdale dei bei tempi. “Jade
song” è un minuto e mezzo di arpeggi acustici che fanno da
intro a “Winter’s call”, di nuovo Zep
a manetta, fra ‘III’ e ‘Physical
graffiti’, il folk arcano, le loro marce esotiche, il blues più
fascinoso, un pizzico di sitar, un fantasma di keys in lontananza,
assolutamente fantastica. “Dancing on the edge”
è un riffone massiccio come un blocco di granito, la rotta è ancora
quella del dirigibile di Jimmy Page, con qualche evoluzione presa a
prestito da Cinderella e Great White ma con inflessioni più metalliche
e dirette. “Street cry freedom”: di
nuovo Whitesnake, quelli più metallici di ‘1987’,
e magari i Blue Murder del primo album, la seconda parte della canzone
è più veloce e diretta della prima e fa da rampa di lancio per un
assolo lungo e allucinato di Jake. Più canonica “Hard
driver”, ancora su base Whitesnake, poi i quasi sei minuti di
“Rumblin’ train” ci portano lontano,
giù, giù al Sud, Lousiana, Texas, quello che preferite, un mid tempo
che più classico non si può, ma condotto da una chitarra imponente,
lacerante, qui Ray sembra quasi un Glenn Hughes meno acuto, l’assolo
è sporchissimo, straripante, Jake chiamava questa roba voodoo
blues e aveva ragione sacrosanta... “Devil’s
stomp” inizia quasi country, acustiche e atmosfera folk, poi
entra un riffone ondeggiante e tutto si tinge di torrido blues, per la
prima volta escono fuori con decisione le tastiere, un organo Hammond
incandescente. Chiudeva l’LP “Seasons”:
i Led Zeppelin la chiamavano “Ten years gone”, ma più che di plagio
qui possiamo parlare di riscrittura, quasi sei minuti e mezzo di magia,
una vera piece de resistance,
quel riff pulsante, l’alternanza elettrico/acustico, la drammaticità
nel cantato... anche i Tesla c’avevano pensato a saccheggiarla, ma qui
c’è un’altra classe, e Jeff Keith, quando Ray cantava, poteva solo
tapparsi la bocca e ascoltare, in silenzio... Sul CD era stata aggiunta
una canzone, “Ball & chain”, sulla
stessa falsariga di “High wire” ma con
un pizzico di blues in più. Il secondo album è del 1991, Eric
Singer va via e lascia il suo posto a Jeff Martin, l’ex-cantante dei
Racer X (che si rivela ottimo batterista) ‘Voodoo
Highway’ (la cover varrebbe da sola l’acquisto...) affonda
ancora di più in territori root, risultando sicuramente ostico per chi
aveva apprezzato le tonalità più metalliche dell’esordio, con una
resa fonica volutamente fumosa negli episodi più hard blues, a
inseguire quegli anni ’70 su cui la band faceva ormai rotta senza più
incertezze (ma che nei seventies tutti i dischi suonassero in maniera
così schifosa è puro mito ed è sufficiente ascoltare un qualunque
album dei Rainbow o dei Led Zeppelin per rendersene conto... Tanto per
fare un esempio, ’Raising’, che è del
1976, ha un suono molto più brillante e definito di ‘Voodoo
Highway’). Ma a questo punto qualcosa si rompe nei rapporti tra Ray Gillen e Jake E. Lee, contrasti mai chiariti che portano il cantante fuori dai Badlands, i quali prima cercano di tamponare inserendo quale nuovo singer una ragazza, Debbie Holyday, poi supplicano Ray di ritornare per completare un mini tour in Gran Bretagna, tentano ancora di proseguire con John West dietro il microfono (dopo il gran rifiuto di Rob Lamothe, il cantante dei Riverdogs), infine si sciolgono fra (è doveroso sottolinearlo) l’indifferenza generale (dopo aver firmato per la Columbia, i Badlands registrarono però diversi demo che poi - dopo lo scioglimento della band - gireranno come bootlegs col titolo ‘Tribal moon’ finché Gregg Chaisson e Jake E. Lee non metteranno di nuovo mano ai nastri, pubblicandoli per la giapponese Pony Canyon nel 1998 intitolando questo terzo album postumo ‘Dusk’). Jake E. Lee si perderà in un grigio anonimato dal quale è venuto fuori solo molto di recente, Greg Chaisson e Jeff Martin proveranno con i Red Sea a ritrovare la magia dei Badlands in un contesto meno blues e root, Ray Gillen registrerà con i Sun Red Sun, contribuirà a ‘Sacred Groove’ di George Lynch e saluterà questo mondo, ammazzato dall’AIDS, e perfino il finale tragico del film avrà un preludio grottesco, come se il destino proprio non volesse lasciarlo in pace, neanche concedergli un’uscita di scena dignitosa e pulita all’ultimo atto di una vita fatta di delusioni e fregature, c’è MTV che annuncia la sua morte in diretta e Ray che deve telefonargli di persona per informarli di essere ancora vivo... Ma dopo qualche mese, nel dicembre del 1993, l’annuncio non troverà (purtroppo) smentite, Ray Gillen se n’è andato, il circo può mettersi in moto, lo show più macabro, quello che trasforma i perdenti in vita in morti di successo, i Badlands diventano una cult band, i loro dischi - finiti regolarmente nei forati e venduti a metà prezzo perché non li voleva nessuno - vengono ricercati da un pubblico composto (temo) per la gran parte da quelli che non se n’erano mai curati in vita e come necrofori s’attaccano oggi in maniera morbosa ad una band che proprio la loro indifferenza ha ammazzato senza pietà.
|