recensione
Eroici o incoscienti, questi californiani che in tempi di grunge imperante si presentavano con un look da desperados ed un suono bluesy e caldissimo? Qualche chance la Polydor doveva però ritenere che l’avessero, considerato che il confezionamento di questo loro esordio venne affidato a tre grossi calibri della produzione, Rick Neigher, Randy Nicklaus e Jay Baumgardner. Chance non tradottesi nella realtà, dato che la band scomparve per sei anni, rifacendosi viva in formazione rimaneggiata solo nel ’98 con ‘Bar and Grill’ (ripubblicato poi in Europa nel 2002 per un’altra etichetta con un diverso mix ed il titolo ‘Above the Law’), ancora un bel disco, dopo di cui le tracce si fanno un po’ confuse, dovrebbero essere sempre attivi come Rick Lieder & The Regulators, Rick Lieder entrò nella band per ‘Bar and Grill’, su questo album d’esordio cantava (e molto bene) Clifford Smith, l’apertura è affidata a “Trouble in Dallas” (unica incursione di songwriters esterni alla band, porta la firma di Marq Torien e Lonnie Vincent dei Bulletboys), hard boogie ispido e melodico alla Bad Company anni ’80, il testo non parla di pistoleros, rodei o di JR buonanima, il “guaio successo a Dallas” del titolo è l’assassinio del Presidente Kennedy. “Outskirts” ha un bel riffing nervoso e zeppeliniano su un telaio street metal ed a seguire c’è la semplice e trascinante ricetta southern di “Let it Ride”, ma lo spirito del rock sudista è presente anche su “Good to Go”, hard bluesy secco e intenso con pianoforte boogie, ritmo strepitoso e melodia impagabile. I Little Caesar occhieggiano sulla grande power ballad da film western “Last Chance”, che si snoda fra armonica e chitarre acustiche, ed ha una brusca, addirittura violenta impennata elettrica prima del finale. La band di Ron Young è fonte di ispirazione anche per “Lay Down Your Money”, altro boogie heavy ma melodico, con il plus della chitarra slide. “Texas Lawman” si rivela una piece elettroacustica su riff essenziali alla AC/DC con una bella melodia molto southern (diciamo, alla Molly Hatchet?), mentre “Need for Speed” torna sulle strade di Los Angeles, un metal californiano con belle rifiniture bluesy. “Boys Are Goin’ Out” è la perla del disco: si può descrivere solo come un party rock funky southern, pigro e divertente: grandissima. Ma eccellente è anche “Whiskey Fever” hard blues da saloon con una scoppiettante sezione fiati, un po’ Aerosmith, un po’ Little Caesar. Chiude la suggestiva “Crazy Circle”, per sola voce su un denso tappeto di chitarre acustiche. Se amate band come Dillinger, Soul Kitchen, Company of Wolves ed i Little Caesar del primo album, ‘The Regulators’ è sicuramente un disco da avere, meglio cercarlo su Amazon USA, dove si può prenderlo anche a quattro o sei dollari, mentre su eBay gira a cifre folli (l’ultima volta che l’ho visto, chiedevano trenta dollari). Una piccola perla del grande hard bluesy del bel tempo che fu.
Se pensate che questa sia la recensione degli ultimi due album degli FM, vi sbagliate. Naturalmente, gli FM c’entrano, ma più che altro come spunto; o, meglio, come casus belli per uno sfogo che dal particolare temo finirà presto al generale. Una volta – qualcuno se lo ricorda? – esistevano le “etichette discografiche”: erano quelli che davano alle band i soldi per incidere i dischi. Quando quel ramo dell’industria ha cominciato a colare a picco, si è passati alla seconda fase: le band hanno dovuto aprire il portafogli e pagarsi da soli le incisioni, e le etichette sono diventate praticamente solo distributori. Ma c’era ancora qualche spicciolo che girava e la cosa, più o meno, funzionava. Ora siamo alla terza fase, perfettamente rappresentata da questi due album di una band, gli FM, tutt’altro che recente o alle prime armi, la quale per trovare il denaro occorrente a incidere ha dovuto lanciare una specie di raccolta fondi tramite Pledgemusic. Detto in altri termini: gli FM hanno dovuto chiedere l’elemosina ai loro fan per poter pubblicare un album. Sappiamo tutti fin troppo bene a cosa è dovuta la disintegrazione dell’industria musicale. E che i miei strali, il mio sacro furore, non fermeranno questa marea, questo tsunami distruttore che sta divorando gli ultimi lacerti dell’industria musicale, ha cominciato a mangiarsi quella cinematografica e, con l’introduzione dell’e-book, inghiottirà prima o poi anche quella editoriale. L’ultima offensiva contro lo scaricamento selvaggio è il blocco di una quantità di siti di filesharing e streaming video di cui si è fatto promotore proprio il nostro paese, ma il punto è che questo blocco è avvenuto in maniera maldestra ed è aggirabile con una facilità addirittura ridicola, così che questa iniziativa si riduce a poco più di un atto simbolico, destinata ad avere scarsissimi riflessi sul piano pratico. Chi scarica, continuerà a farlo, fottendosene allegramente dei blocchi, del destino dei musicisti o dei cineasti vittime del downloading, cianciando di “libertà” e “democrazia” per giustificare questo furto ormai legalizzato su cui basano le proprie fortune addirittura alcuni partiti politici in Europa (in Svezia, il Partito dei Pirati è riuscito perfino ad arrivare in parlamento!). Sì, mi rendo conto che di tutti questi discorsi avete le palle strapiene e che il novanta per cento di voi vuol solo sapere se i nuovi album degli FM sono buoni per andarseli a scaricare e la logica che governa gli eventi si basa sul qualunquistico principio così bene enunciato da un personaggio della commedia “Napoli milionaria” in una battuta che, parafrasata e tradotta in lingua madre, fa: “Tu scarichi e ascolti gratis ed io debbo pagare? Tu rubi? Rubo anch’io! Si salvi chi può!”. Ma da questa situazione, gli eventi stanno dimostrando che non si salva NESSUNO. Sta colando TUTTO a picco. Chi straparla di trovare “nuove forme di compenso per i musicisti” sta appunto straparlando. Il download legale ed a pagamento è una frazione irrisoria del mercato, e tale resterà fino a quando tutti avranno la possibilità di scaricare senza pagare un centesimo. Cosa si può fare? Tanto, almeno in teoria. In pratica, non fotte veramente niente a nessuno, e quindi nessuno fa veramente nulla. Nessuno campa più di musica? Chi se ne frega. La musica che ascoltiamo fa sempre più schifo perché non ci sono più soldi per registrarne di buona? Pazienza. Almeno è gratis… E in mezzo a tutto questo sfacelo, Steve Overland e compagni se ne vanno metaforicamente in giro col piattino teso per poter registrare un album, riuscendo a mettere assieme abbastanza soldi per pubblicarne addirittura due. È commovente, ma anche avvilente. Che poi questi due ‘Rockville’ siano dischi veramente ottimi, superiori anche al penultimo ‘Metropolis’, fatti del solito, azzeccatissimo impasto di hard rock, soul, e blues, con le solite reminiscenze Bad Company, e quel british style nelle melodie che ha reso gli FM una delle pochissime band inglesi di AOR e derivati caratterizzate da una cifra stilistica personale e inconfondibile (e molto copiata), ha importanza? Tanto non ci ricaveranno un soldo e chi se li scarica li ascolterà un paio di volte poi li butterà via per passare a riempirsi le orecchie con altri mp3 pure loro destinati a durare pochissimo, un download al giorno toglie medico e tristezza di torno, l’imperativo è scaricare tutto lo scaricabile, abboffare istericamente l’iPod di roba nuova, e poi non costa niente… Quando sono costretto a contemplare questo panorama mi prende un tale sconforto, una tale tristezza, una tale nausea che mi viene voglia di mollare tutto, perché so che ciascuna recensione pubblicata su questo sito si trasforma da un tentativo di aiutare persone che hanno gusti come i miei a trovare buona musica in un’indiretta istigazione al download: senza volerlo, alimento anch’io questo gioco al massacro che finirà per travolgere ogni cosa, se già non l’ha spazzata via del tutto, fra – ultima, macabra ironia – la gioia di chi si ritiene un privilegiato convinto di vivere in un’età dell’oro mentre in realtà è solo un imbecille intossicato dal fetore della merda in cui siamo tutti immersi fino al collo e sul punto di sprofondarci dentro senza speranza di poterne mai venire fuori.
Senza dubbio, la recensione che mi ha dato più da pensare tra tutte è stata quella che ho dedicato ai Cinderella. Partito con l’idea di trattare solo ‘Long Cold Winter’, dopo qualche tempo ho deciso che non poteva considerarsi completa senza comprendere anche ‘Heartbreak Station’. Quando poi il mio pensiero sull’ultimo album di studio, ‘Still Climbing’, è radicalmente mutato, ho avuto la tentazione di ampliarla per la seconda volta con una disanima completa anche di quel disco spesso bistrattato: non ho ancora avuto il tempo di farlo, ma prima o poi… Tanto rimuginare si deve alla natura enigmatica (o, almeno, che a me sembra enigmatica) di questa band. Mi è sempre parso che ci fosse nei Cinderella un qualcosa di poco chiaro, forse di irrisolto, un velo opaco che Tom Keifer non voleva o poteva dissolvere, anche per quei grossi problemi personali (è costretto a fare continuamente a pugni con le sue corde vocali malandate e le crisi depressive) che lo hanno costretto a lunghissimi periodi di inattività. Di un album solista, Tom cominciò a parlare addirittura a metà anni ’90, la scrittura e l’incisione sono cominciate materialmente solo nel 2003, trascinandosi per lunghissimo tempo a causa dei guai personali di cui sopra e di saltuari tour con i Cinderella che hanno fruttato anche un inutile live album, inutile perché il novantanove per cento dei live non serve a un cazzo, sono soltanto un modo spiccio per fare cassa senza sforzo. A conti fatti, dunque, da diciannove anni non ascoltavamo nulla di nuovo dai Cinderella, e anche se questo disco porta il solo nome di Tom Keifer, non mi pare si debba fare una gran discriminazione tra i monikers: dei Cinderella, Tom è sempre stato il padrone assoluto, il primo artefice. La decisione di presentare questo lavoro con il proprio nome poteva far sospettare che Tom volesse esplorare altri ambiti musicali, ma l’ascolto di ‘The Way Life Goes’ fuga qualsiasi dubbio, la materia sonora di cui sono fatte queste quattordici canzoni è identica a quella della band madre, e allora possiamo anche considerare quest’album come il quinto dei Cinderella (anche se l’unico dei suoi colleghi a contribuire è Jeff LaBar, che suona la chitarra su una canzone), l’ultimo capitolo (per ora) della storia cominciata con ‘Night Songs’ nel 1986 ed una band ottimamente schierata sul fronte del metal californiano. Di tutti i successivi, radicali cambiamenti nel sound ho già dato ampiamente conto, come pure di tutti i miei dubbi riguardo l’identità che i Cinderella non riuscivano a darsi. Chi erano, mi chiedevo, i Cinderella “veri”? ‘The Way Life Goes’ ci dà (finalmente) una risposta, indiretta ma inequivocabile: quelli di ‘Heartbreak Station’. Perché qui Tom, libero ormai da qualunque preoccupazione di natura commerciale, libero di fare quello che gli pare, riprende il discorso di quel disco fantastico anche se l’iniziale “Solid Ground” ha un guitar work rugginoso che ricorda più il sound era ‘Still Climbing’: ma quegli accordi familiari e l’inconfondibile cifra melodica… “A Different Light” si sviluppa lungo le linee di una power ballad elettroacustica con gran spiegamento di keys, solare con qualche maliosa ombra che fa tanto anni ’60, mentre “It’s Not Enough” ha uno shuffle blues micidiale che si apre alla melodia nel refrain, con un assolo di slide sporca ed allucinata. “Cold Day in Hell” è di nuovo classicissimo Cinderella sound, con begli interventi di sax e armonica, seguita da due ballad: “Thick and Thin”, di grande respiro, in cui spiccano il pianoforte e l’Hammond; “Ask Me Yesterday”, più elettrica che acustica, suggestiva, carezzevole e ruvida nello stesso tempo. “Fools Paradise” incunea in un impasto elettrico dal flavour esotico un refrain gigantesco, “The Flower Song” ha un meraviglioso calore southern, “Mood Elevator” pare anche lei schizzata dalle session di ‘Sill Climbing’ con il suo riffing urticante ed il cantato nevrotico e beffardo. Se “Welcome To My Mind” è un hard bluesy ipnotico e turbinante, “You Showed Me” ci riporta al Sud con un’altra big ballad, molto power, che scivola via tra pianoforte e tastiere, e in quelle lande restiamo per “Ain’t That A Bitch”, con le sue chitarre caldissime e l’organo Hammond, in una perfetta fusione di energia e melodia che ricorda anche gli Aerosmith dei ’70, chiamati in causa pure sulla title track, beffardo hard bluesy condito di armonica e sezione fiati. Gran finale con “Babylon” (scritta assieme a Doug Gordon dei Tangier), insinuante, notturna e cromata. Se proprio una differenza vogliamo trovare con quanto abbiamo ascoltato in passato, dobbiamo rivolgerci ai testi delle canzoni, molto meno cupi e disperati di un tempo: evidentemente Tom, nonostante le sue vicissitudini, ha infine trovato una serenità d’animo in grado di mostrargli il rosa dove prima riusciva a vedere solo un nero profondo ed opaco.
È veramente difficile restringere l’inquadratura ad un solo album quando un artista ha una discografia vasta e variegata come quella di cui è titolare Pat Travers. Ho scelto ‘School of Hard Knocks’ perché questo è probabilmente l’album di Travers più imparentato con tematiche class rock, e dunque può soddisfare sia i patiti dell’hard blues che quelli del melodic rock. Che sia poi raro e difficilissimo da trovare è un corollario che mi auguro non incrementerà la leggenda che vuole il vostro webmaster scelga di proposito i dischi dalla reperibilità più problematica per far dannare l’anima ai suoi bravi lettori… Canadese, nato nel ’54, partito come devoto seguace di Jimi Hendrix, Pat Travers venne scoperto mentre suonava in un club da quell’impagabile degenerato di Ronnie Hawkins (entrato negli annali della depravazione rock dopo aver dichiarato: “Durante i miei tour devo essermi scopato almeno un milione di ragazze, qualche ragazzo e saltuariamente anche una capra. Anche la capra era OK, solo che per baciarla dovevi girarle attorno”). Lasciata la backing band di Hawkins, Pat ottenne un contratto con la Polydor ed ebbe un notevole successo con la propria band sopratutto come live act, sia da solo che andando a supportare artisti di grosso calibro come Rainbow e Rush, riuscendo anche a piazzare diversi singoli nei quartieri alti di Billboard; dalla metà degli anni ’70, cercò poi di dare un certo smalto pop alla propria musica, con il risultato di perdere fans e contratto (nonostante il bel recupero conseguito con ‘Hot Shot’ nel 1984). Per sei anni, Pat Travers non riuscì a trovare uno straccio di deal e per sopravvivere come musicista dovette tornare ad esibirsi nei night club (lui che aveva suonato davanti a 35.000 persone durante il festival di Reading), solo nel 1990 la piccola Episode Records gli dette fiducia per l’album in esame. Album che, come anticipato, cercava di dare un colpo al cerchio (dell’AOR) ed uno alla botte (del blues), e ci riusciva abbastanza bene, anche grazie a Jerry Riggs (il leader dei Riggs, che nel 1982 fecero uscire un disco di eccelso hard melodico, ristampato nel 2011 dalla Wounded Bird) che coadiuvava Pat come seconda chitarra (ed aveva anche una gran bella voce: purtroppo, Pat non venne neppure sfiorato dall’idea di passargli il microfono, infliggendoci come d’abitudine la propria voce, sguaiata e in qualche modo sempre sopra le righe) L’apertura affidata a “The Fight Goes On” era difatti un bell’omaggio all’AOR hard edged più sofisticato, con una discreta carica anthemica, raffinati tocchi di keys e addirittura un synth bass, ma “Chevrolet” correggeva immediatamente il tiro con un hard bluesy cromato quanto basta, divertente e divertito. Anche il funk entrava nel teorema sonoro di ‘School…’ tramite “If You Want Love” e “Help Me”, rudi ma melodiche, la prima con un gran ritmo. “Purple Jazz” era uno scherzoso, brevissimo intermezzo di cool jazz che precedeva “Whatcha Gonna Do Without Me” (aperta, quasi per compensazione, da un urlo bestiale…), serrata e martellante sul suo riffone anni ’70. La title track scivolava via come uno slow hard blues cromato ma nient’affatto patinato, ma anche “Misty Morning (In New Orleans)” era uno splendido slow di grande atmosfera con belle sfumature AOR. Lo strumentale “Via Veneto” si articolava in un lungo assolo elettrico che viaggiava su una base acustica dal sapore zeppeliniano mentre “All or Nothing” prendeva ottimamente a prestito le atmosfere degli album primi ’80 di Bryan Adams. Dopo la ballad “Only Man”, sognante e delicata, più acustica che elettrica, veniva “Don’t Say You Love Me”, bella stesura di AOR robusto con precisi riferimenti a Survivor e Boston, ma si tornava immediatamente all’hard blues più torrido (qui un po’ Van Halen) tramite “Daddy Long Legs”. In chiusura, un altro strumentale con “Guitars From Hell”: serratissima, puro heavy metal a tratti epicheggiante in altri momenti più class, dove il chitarrismo di Pat pare ispirato a quello di Ritchie Blackmoore. ‘School of Hard Knocks’, nonostante i suoi pregi, passò inosservato, e Pat Travers dovette aspettare qualche altro anno per tornare in auge, grazie al contratto con la Blues Bureau che lo riportò sulla strada maestra del blues, un sentiero che il Nostro segue ancora oggi, nel 2012 con ‘Blues On Fire’ (procuratevelo!) ci ha dato la sua personale interpretazione di una manciata di grandi classici rifatti in chiave molto elettrica dalla sua chitarra sempre in bilico tra crudezza hard rock e morbidezza blues.
Certi dischi sembra che vengano pubblicati al solo scopo di diventare delle lost gems… Era il 1994 quando l’americana Tamara Champlin fece il suo debutto con questo ‘You Won’t Get to Heaven Alive’: un album di hard rock melodico dalle intense tinte blues, che certo non poteva far presa sul pubblico yankee intossicato da Nirvana ed Alice In Chains. Difatti, Tamara trovò solo la indie tedesca Long Island disposta a pubblicarlo. Non fu un fiasco (un paio di singoli estratti dall’album ottennero buoni piazzamenti in Germania e Spagna) ma certo neppure un trionfo, sopratutto se consideriamo che negli USA arrivò qualche copia solo come import. L’anno successivo, Tamara ritentò la sorte sempre con una label tedesca, la MCI, adottando il monicker Baton Rouge (in quel periodo non reclamato da Kelly Keeling e soci), per un disco che puntava più sul rock mainstream e con un mixaggio che dava al materiale inciso un flavour a tratti quasi cantautorale. Stavolta, nonostante la MCI avesse una distribuzione major, proprio nessuno si accorse dell’album (intitolato ‘St. Anne’s Wheel’), e Tamara tornò alla sua carriera di songwriter e corista, in solitario o assieme al marito, Bill Champlin dei Chicago. E che delitto che una voce come quella di Tamara Champlin sia confinata sullo sfondo, a fare da tappeto a vocals altrui: immaginate una Alanna Myles più pulita e meno espressiva, o una Janis Joplin senza isterismi, controllata e potente. La voce è un indiscutibile plus di ‘You Won’t Get to Heaven Alive’, che vanta anche un songwriting efficace ed eclettico, ed una pattuglia di esecutori e produttori da infarto (il consorte Bill Champlin, Jeff Paris, Randy Cantor, Bruce Gaitsch, Nicky Hopkins – il tastierista di Beatles e Rolling Stones –, Danny Timms ed una ventina di altri). “Backstreets Of Paradise” apre l’album con un grande hard rhythm and blues vellutato ma deciso, ben lubrificato da piano e sezioni fiati, mentre la title track sublima il big sound della grande stagione dell’AOR in un clima da arena rock addolcito da una punta di blues, con un refrain secco e vigoroso. Whitesnake e Heart si fondono alla perfezione nella ballad “Chasin’ The Moon”, sull’hard bluesy scanzonato “Rock And Roll Tragedy” rifanno la loro comparsa il pianoforte e gli ottoni, “Purple, Black And Blond” è un’altra power ballad fuori dagli schemi più triti. “Stone Cold” è la stessa che Tamara aveva scritto tre anni prima per i The Law (per saperne di più, seguite il link), una grande variazione sul sound dei Bad Company più classici (e la voce di Tamara Champlin non fa rimpiangere affatto quella di Paul Rodgers), ma anche la successiva “Only Love” omaggia la band di Mick Ralphs: panneggi di Hammond, un intreccio elettroacustico che si dipana in un crescendo emozionante. Giro di boa con “Crawl”, hard funk molto anni ’70 con incisivi flash di ottoni che porta l’inconfondibile marchio di Jeff Paris nelle linee melodiche, poi “Meet My Maker” innalza una sfrontata preghiera elettrica sull’alternanza dei tappeti di keys su cui scivolano i versi e lo sfrigolare del riff funky nel ritornello soul. Sulla power ballad “Tragic Black”, Tamara suona amara e beffarda come la miglior Joanna Dean, “St. Anne’s Wheel” si rivela un hard rock dalle cadenze metalliche, con un arioso bridge Beatlesiano ed un refrain tempestoso di netta marca Scorpions e chiude alla grande “Roll The Bones”, caldissimo, notturno, insinuante e travolgente hard blues. Nonostante la relativa rarità e la qualità elevatissima, ‘You Won’t Get to Heaven Alive’ non è però riuscito a conquistarsi (fino ad oggi, almeno) lo status di lost gem: non sarà giusto, ma è indubbiamente un vantaggio per chi vuole acquistarlo, dato che i prezzi a cui gira sono del tutto ragionevoli. Per chi ama quelle grandi voci femminili ruvide e policrome che sembrano sparite dall’odierno panorama rock dominato da ugole flautate, acute e zuccherose, recuperare ‘You Won’t Get to Heaven Alive’ diventa quasi un dovere.
A volte le band ottengono fama (in certi casi, una fama postuma) per le ragioni più stravaganti o idiote. Senza divagare con esempi o esponendo una casistica comunque ricchissima, puntiamo subito l’obiettivo sui Rock City Angels, che una minuscola fama l’hanno ottenuta diverso tempo dopo il loro scioglimento, quando Johnny Depp è diventato un divo. Perché il notissimo attore è stato per qualche tempo membro di questa band, non abbastanza a lungo da partecipare alle registrazioni del loro esordio ma un periodo sufficiente da lasciare qualche traccia nel songwriting, visto che una delle canzoni di ‘Young man’s blues’ porta la firma di Johnny (il quale lasciò la band molto prima che firmasse il contratto con la Geffen, contrariamente a quanto è scritto su Wikipedia: ennesima conferma che tutto ciò che si trova sotto il marchio della pur valida enciclopedia gratuita non deve mai essere preso per oro colato). La storia dei Rock City Angels è contorta e presenta strane zone d’ombra mai chiarite, l’unica sicurezza sta nel fatto che la Geffen li individuò quale next big thing facendogli firmare un contratto principesco (si sussurrano cifre nell’intorno dei sei milioni di dollari) e strappandoli alla minuscola New Renaissance Records che li aveva scovati in qualche posto della Florida. La band aveva registrato del materiale molto glam oriented che fu pubblicato solo diversi anni dopo lo scioglimento dalla New Renaissance, cambiando decisamente pelle quando entrò in studio con Joe Hardy (l’ingegnere del suono degli ZZ Top) per registrare il debutto su major. Debutto che, nonostante le buone critiche e tour di supporto per qualche big (Joan Jett ed i Georgia Satellites), non vendette in proporzione alle aspettative, così che dopo essersi data tanto da fare per scritturarli, la Geffen li scaricò (fra – tanto per cambiare – l’indifferenza generale). Venendo a ‘Young Man's Blues’, non si può non sottolineare la poca coerenza del titolo con il contenuto, dato che in questo disco di blues ce n’era veramente pochino. La proposta dei Rock City Angels era in linea con quanto altre band facevano in quel torno d’anni (Jetboy e Faster Pussycat, tanto per fare due nomi), nel loro mosaico sonoro non si trovava molto di personale né di originale, spiccavano piuttosto per la buona efficacia del songwriting, gli arrangiamenti curati, la bravura dei due chitarristi Mike Barnes e Doug Banx, con l’unica nota negativa rappresentata dalla voce sguaiata e sempre troppo sopra le righe del cantante Bobby Durango. “Deep Inside My Heart” apriva l’album (in vinile, era un doppio LP) con un boogie abrasivo molto ZZ Top inghirlandato da qualche flash di ottoni, gli hard ‘n’ roll “Hard to Hold” e “Our Little Secret” facevano pensare a dei Jetboy più ruvidi (la seconda, con un riffing di nuovo molto ZZ Top), mentre “Mary” era uno street rock fascinoso, cupo e bluesy. Il southern di grana grossa stile Georgia Satellites irrompeva su “Damned Don't Cry” e “Wild Tiger”, mentre “These Arms of Mine” era il classico soul blues di Otis Redding violentato dai guaiti di Bobby Durango. “Rumblefish” viaggiava su un riffone alla AC/DC, alternando parti lente ed altre convulse mentre “Boy From Hell's Kitchen” era un hard blues a tempo di boogie, cadenzato ed insinuante. Sia “Liza Jo” che “Ya Gotta Swear” erano classiche, calde ballad sulla scia dei Rolling Stones, mentre “Beyond Babylon” sorprendeva con le sue chitarre funk, le evoluzioni della sezione fiati che culminavano con un assolo di sax nel finale. “Hush Child” riportava la band nei territori del più ruvido street rock, “Rough 'N' Tumble” era un’altra scheggia sui generis, con Bobby Durango che sceglieva per una volta di esprimersi su toni soavi mentre in sottofondo le chitarre tessevano un tappeto scabro e dissonante; per concludere, “South of the Border”, malinconica track da spaghetti western con tanto di tromba messicaneggiante. Dopo lo scioglimento, ci furono due reunion. La prima fruttò l’album ‘Use Once & Destroy’ (pubblicato nel 2008, contenente materiale registrato a partire dal 2001), la seconda contava su una nuova line up che ha svolto una certa attività live prima della morte nel 2012 di Bobby Durango, evento che ha segnato la fine definitiva di una delle tante – troppe… – band che al tramonto degli anni ’80 erano state designate come “i nuovi Guns ‘n Roses”.
Play that funky music, white boy… Beh, fortuna che c’erano i ragazzi bianchi a suonarlo, dato che alla fine degli anni ’80 i neri sembravano essersi disamorati anche del funk. E, tra i tanti ragazzi bianchi che si erano buttati a capofitto nel crossover tra hard rock e funk, gli Electric Boys non sfiguravano, tutt’altro. Venivano dalla penisola scandinava, come i Sons of Angels, ma erano (sono, dato che si tratta di una band ancora in attività) svedesi. Non avevano lo squisito gusto commerciale dei loro colleghi norvegesi, praticavano un sound più viscerale, con un pizzico di follia, ma non risultavano meno divertenti di Solli e soci, perfino gli yankee dovettero riconoscerlo, facendogli firmare un contratto dopo aver sentito il loro strepitoso esordio, quel ‘Funk-O-Metal Carpet Ride’ di cui esistono due versioni: l’originale pubblicata prima solo in Svezia e poi in tutta Europa e quella americana, uscita nel 1990, con tre canzoni prese da quella svedese e altre otto registrate dalla band assieme a Bob Rock (nel 2004, un’opportuna ristampa comprendeva tutto il materiale delle due diverse edizioni di ‘Funk-O-Metal Carpet Ride’). Dopo due anni, il presente ‘Groovus maximus’ non trovò una buona accoglienza, in parte per il mutato scenario musicale, ma anche perché la band aveva ampliato il proprio orizzonte in direzioni meno ossessivamente funky e questo non piacque – evidentemente – a chi aveva apprezzato invece la stretta ortodossia a quella particolare figura ritmica che impregnava l’esordio (in entrambe le edizioni) fino al midollo. Ma un ascolto senza pregiudizi e/o confronti con quanto fatto tre anni prima metteva in luce una massa di materiale sonoro di eccellente caratura, sempre sostenuto da arrangiamenti variegati e fantasiosi, che se era certamente meno funk in superficie manteneva in sottofondo quella inconfondibile scansione, come un fiume sotterraneo che percorreva ‘Groovus maximus’ dal principio alla fine. Che poi la band fosse sempre capace di coniugare il verbo del funk in anthem micidiali lo dimostrava nella title track, col suo profumo di Aerosmith d’annata, passando però subito con “Knee Deep in You” ad un groove molto Van Halen condotto da una chitarra agile e beffarda e ben lubrificato dai fiati. Le tentazioni Beatles già emerse su ‘Funk…’ si materializzavano qui tramite “Mary in the Mystery World”, piece melodica ma sempre molto elettrica, contraddistinta dal canto volutamente sciatto del singer Conny Bloom, spaccata a metà da un assolo tagliente. “Fire in the House” era fatta da un riffone croccante, un canto ad un pelo dal rap ed un discreto flavour anni ’70 e sulla stessa scia proseguiva “The Sky Is Crying”, con il plus di un refrain breve e melodico. Un bel crescendo caratterizzava invece “Bed of Roses”, che partiva come una pigra, suggestiva ballad elettroacustica, aumentando via via di volume in un caleidoscopio di keys e chitarre policrome. Veloce tappa in California per “She’s into Something Heavy”, con il suo riffing serrato stile party rock ed il solito cantato beffardo di Conny, per un risultato generale non distante da quello ottenuto dagli Extreme al tempo di ‘Pornograffitti’. “Dying to Be Loved” era aperta da un fitto intreccio di chitarre limpide, sfociando in una power ballad molto Guns ‘N Roses con un bel bridge di tastiere. “Bad Motherfunker”: il titolo già dice tutto: breve, feroce, ritmata, divertita, con un incrociarsi di assoli acidissimi. Si tornava in territorio Van Halen con “When Love Explodes”, swingante, spaventosamente cool con il suo intrecciarsi di cori R&B ed i brevi, ficcanti interventi di pianoforte, mentre “Tambourine” alternava morbide armonie acustiche a feroci scoppi di melodia elettrica, un assolo di batteria ed un intervento finale di chitarra dissonante (e tutto questo, in poco più di due minuti). “Tear It Up” era invece un anthem dal riff dondolante, con furibondi interventi di armonica, parti vocali sempre ad un pelo dal rap ed un refrain luminoso. La chiusura era affidata a “March of the Spirits”, folle strumentale dal ritmo quasi bandistico, un delizioso, ispiratissimo melange di psichedelia, prog e hard rock. Dopo ‘Groovus…’ gli Electric Boys si rifecero vivi nel ’94 con ‘Freewheelin’’, pubblicato solo in Europa, scomparvero fino al 2011, quando la Escape gli pubblicò ‘And them boys done swang’, di cui potete leggere seguendo il link. ‘Groovus Maximus’ si trova in giro a prezzo vile (difficile che chiedano più di cinque dollari) e rappresenta – per me, almeno – il miglior prodotto di una band capace come poche altre di mettere a punto un sound che coniugava aggressività, freschezza, melodia e quella particolare figura ritmica ormai dominio dei white boys.
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