recensione
Cosa pensate del fenomeno genericamente etichettato come “retro-rock”, ossia di quel recupero (o riciclaggio che dir si voglia) dell’hard rock dei primissimi anni ’70? È un movimento iniziato a fine anni ’90 e sta conoscendo in questi ultimi tempi un parossismo che, mi pare di poter prevedere con una certa sicurezza, sia l’annuncio della sua fine. La cosa più strana sta nel fatto che il pubblico abbia accettato positivamente tutta questa archeologia musicale. Negli anni ’80 e nei primi ’90 non mancavano certo gruppi dediti al recupero di sonorità datate, i Salty Dog, i Tea Party, gli I Love You, facevano le stesse, identiche cose che oggi propongono Graveyard o The Answer, e non solo non se li filava nessuno, ma spesso la critica non mancava di bastonare più o meno severamente queste bands, definendole sostanzialmente inutili, e in molti casi non aveva affatto torto. Forse era la minor distanza temporale dagli act presi come riferimento ad incattivire i critici, a cosa mi servono cloni dei primi Led Zeppelin, o dei Cream, o dei Doors, o dei Grand Funk Railroad quando posso tranquillamente ascoltare i loro dischi, sembravano suggerirci tutte quelle recensioni negative? Perché devo accontentarmi della fotocopia quando posso ammirare l’originale? La domanda è pertinente, ma la risposta, of course, è meno semplice di quanto possa sembrare a prima vista. Che allora o oggi certe bands sfiorino la parodia involontaria, come i Wolfmother o i già citati Graveyard, oppure che sfacciatamente e senza vergogna si diano al furto, come i Black County Communion, non deve indurci ad affossare la scena del suo complesso. Scena che comunque mi pare abbia ormai i minuti contati. Negli Stati Uniti, il nuovo fenomeno cinematografico, il musical ‘Rock of Ages’ (sì, proprio quella dei Def Leppard) minaccia di far esplodere come nuova moda quella dell’hard rock ottantiano più anthemico e festaiolo. Prepariamoci a vederne delle belle o, più probabilmente, delle bruttissime… Dicevamo che la mania del retro-rock è cominciata nei ’90, forse come corollario del grunge, il quale (sopratutto tramite i Pearl Jam) al rock di due decadi prima guardava con grande attenzione. Ma nei ’70 non c’erano solo Led Zeppelin, Black Sabbath o Kiss. C’erano anche i Free ed i Bad Company. Il rock retrò dei Cry Of Love alla musica delle due band di Paul Rodgers era ispirato, e voglio sottolineare quell’ “ispirato”. Le loro canzoni non erano risolte tramite sfacciati copia & incolla, e la devozione a quel sound non si spingeva al ridicolo di riprodurre anche il suono degli anni ’70, come oggi tanti (i Graveyard, per esempio) fanno, riempiendoci le orecchie di fruscii pseudo analogici e dando alle chitarre un suono cavernoso o gracchiante per fornire l’adeguato l’effetto vintage. Questa band ottenne anche un discreto successo a livello di singoli, piazzando due canzoni ai numeri uno e due della U.S. Mainstream Rock Chart di Billboard prelevate dall’esordio ‘Brother’ del 1992. Dopo la separazione dal cantante Kelly Holland, però, rimasero fermi la bellezza di cinque anni e anche se ‘Diamonds & Debris’ era un altro album eccellente (con l’ex Lynch Mob Robert Mason dietro il microfono), il troppo lungo silenzio discografico ne aveva minato la popolarità, e le vendite scarse portarono al loro quasi immediato scioglimento nel 1997. ‘Brother’ era dunque un concentrato di caldissimo rock settantiano, aperto dall’accattivante ritmo funky di “Highway Jones”, su cui la voce vellutata e potente di Kelly Holland ricamava in perfetto stile Paul Rodgers. Un riffing cangiante ed il calore dei Bad Company più western illumina la strepitosa “Pretty As You Please”, mentre “Bad Thing” si rivela quasi un anthem, ma pacato e privo di urgenza. “Too Cold In The Winter” è fatta di pigrizia southern ed un riff ipnotico a cui si contrappone un refrain secco ed aspro, con un bel crescendo finale, mentre “Hand Me Down” e “Carnival” ci riportano fra le praterie e le città fantasma del Far West, straordinariamente suggestive, la prima un mid tempo, la seconda arabescata di fitti ricami acustici e impreziosita da un lungo assolo. “Gotta Love Me” riporta ai tempi dei Free con il suo riff funk che si alterna ad un’altra frase di chitarra massiccia ed essenziale. In “Drive It Home” sale alla ribalta l’Hammond, lenta e bluesy, fascinosa e sensuale, con un altro assolo lungo e caldissimo. “Peace Pipe” è pura magia, con il suo riff dondolante, il refrain che si impenna su un tappeto elettrico, il canto maschio di Kelly che domina con una melodia policroma e impagabile anche la conclusiva “Saving Grace”, slow blues che alterna parti ruvide e carezze acustiche. Come già detto, ci vollero ben cinque anni per dare un successore a ‘Brother’, e ‘Diamond & Debris’ si presentava con un sound che se non era immutato nella sostanza, presentava però qualche distinguo nella forma. Con questo lavoro la band pareva volersi spingere ancora più a fondo nei ’70 e negli ultimi anni ’60, ma la voce tagliente e “moderna” di Robert Mason teneva lontano l’edificio sonoro dei Cry of Love dalla dimensione del recupero filologico di architetture che erano ormai (o almeno così si riteneva) soltanto storia. L’inizio era difatti affidato al rock Hendrixiano “Empty Castle”, suono rauco ma caldissimo e luminoso, con la melodia che si libra sul riffing secco ed un assolo tutto wah wah a manetta, acido e abrasivo, mentre “Hung Out to Dry” era basata su accordi liquidi, cupi, ipnotici prima della melodia splendente del refrain. “Sugarcane”, vivace, elettroacustica, suonava molto Free, come la successiva “Fire in the Dry Grass”, che procedeva tra riff tagliati con l’accetta ed un pigro flavour southern. “Georgia Pine” era un acido funky di nuovo molto Hendrixiano, ricamato di lunghi assoli, mentre “Warm River Pearl” era una ballad curiosamente sospesa tra southern rock e psichedelia, a tratti sognante ed a tratti elettrica. Joe Walsh faceva capolino fra le note di “Sweet Mary’s Gone”, sinuosa e notturna, “Revelations (Rattlesnakes & Queens)” si sviluppava lungo le linee di un funky nerissimo e infuocato. “Bring Me My Burden” era una ballad in crescendo che la Allmans Brothers Band avrebbe firmato con orgoglio, “Sunday Morning Flood” catturava lo spirito di Robin Trower con accordi scabri e rugginosi su cui Robert Mason stendeva una melodia calda e quasi soul prima di un lunghissimo assolo blues che sul pulsare del basso partiva lento e limpido diventando sempre più veloce, sporco e distorto. La title track coniugava ancora (splendidamente) il verbo dei Free, “Hung Out Redux” era un breve reprise di “Hung Out to Dry” con chitarre pesantemente effettate e concludeva “Garden of Memories”, ancora una lenta, nostalgica ballad southern divisa tra acustico ed elettrico. In definitiva, molti retro-rockers di oggi trarrebbero vantaggio da un ascolto accurato di questi due album, per capire come si può coltivare un certo sound senza snaturarlo, scopiazzarlo o ritrovarsi a farne involontariamente la caricatura.
Era veramente azzardato supporre che i Little Caesar avessero ancora qualcosa da dire dopo quel disco torpido e tedioso che è stato ‘Redemption’. Nella mia recensione di quel bruttissimo album, scrissi che i Little Caesar stavano invecchiando molto male, e dato che l’età è una di quelle malattie per cui non si è trovato ancora (per fortuna?) una cura, si poteva ragionevolmente credere che questa band avesse imboccato il viale a senso unico del tramonto. E invece, ‘American Dream’ arriva a smentire le previsioni più pessimistiche del sottoscritto, riconsegnandoci dei Little Caesar in gran forma. Comunque si giustifichi questa resurrezione (intervento soprannaturale, robuste iniezioni di Gerovital, o la pura e semplice presa di coscienza da parte di Ron e compagni che ‘Redemption’ faceva pena), ‘American Dream’ riporta la band ai bei tempi di ‘Influence’ tramite un songwriting brillante e cazzuto. “Holy Roller” è veloce e beffarda, come degli ZZ Top incarogniti e fatti di anfe, la title track ruota attorno a pochi accordi rugginosi ed ha un testo corrosivo e amaro, “Prisoner Of Love” è molto AC/DC, con un variegato assolo di chitarra. Fantastica “Hard Rock Hell” hard blues dal riff mastodontico, con un refrain alla Bad Company, e altrettanto grande risulta “In My Mirror” con il suo riffing incalzante e quasi ipnotico, l’andamento sinuoso, l’apertura melodica a metà canzone e l’assolo bluesy. “Only A Memory Away” è una di quelle ballad soul ed elettriche che solo Ron ed i suoi ragazzi sanno servirci con tale intensità, poi “The Girl is Rockin’” ci trasporta nel solito bar pieno di bikers mezzi ubriachi, un boogie festaiolo con tanto di pianoforte martellante. Il southern rock di “Is Your Crazy Getting Lazy” è figlio illegittimo dei Georgia Satellites, mentre sono i Foreigner degli anni ’70 che presiedono alla divina “Own Worst Enemy”, dove ad un refrain delizioso si contrappone un assolo dalle timbriche sature e sporche. La grande estensione melodica di “Drama Queen” si sviluppa magicamente su un nudo tappeto elettrico e in chiusura, “Dirty Water” ci porta tra le praterie del Far West tramite un hard blues polveroso e magico con intro e outro acustico. Se ‘Redemption’ mi aveva depresso, ‘American dream’ mi ha esaltato. I Little Caesar sono tornati davvero solo con quest’album, che è irriverente, sincero ed elettrico proprio come quelli degli anni più belli.
L’influenza che i Led Zeppelin hanno avuto sulla scena rock è talmente vasta, ha una portata così immensa che se volessimo fare un elenco anche solo sommario di band che li hanno avuti come punto di riferimento più o meno diretto non la finiremmo mai di inanellare monikers. Possiamo però individuare una tendenza, abbastanza chiara e magari anche un tantino curiosa. A parte le fluttuazioni dovute al sempre mutevole scenario musicale che ne hanno periodicamente alzato e abbassato le quotazioni fra la critica, pare che l’interesse verso i Led Zeppelin si sia coagulato sempre attorno a periodi precisi della vita della band. Negli anni ’80, i dischi che i musicisti pareva si tenevano costantemente sotto il cuscino erano ‘IV’ e ‘Physical Graffiti’: dai Kingdom Come ai The Cult, dai Bonham agli Whitesnake, dai Badlands ai Crimson Glory, il sound zeppeliniano a cui queste band si ispiravano era sempre, regolarmente quello più sontuoso e sofisticato della seconda fase, quella che comincia appunto con il quarto album senza nome. Il grunge ha inaugurato l’interesse per la prima fase zeppeliniana ed oggi il retro rock o come accidente preferite chiamarlo ha santificato ‘Led Zeppelin I’ al punto che l’ultima ristampa dei dieci album di Page & Co. ha visto proprio il primo album in cima alle classifiche di vendita. Un disco, giova rammentarlo, che negli anni ’80 era considerato poco più che una prova generale di tutto quello che verrà poi, l’album su cui Jimmy suonava ancora la Telecaster e Percy urlava a più non posso. E chi, nei Big 80s, sceglieva di esprimersi su quel registro, di solito faceva una brutta fine, discograficamente parlando: pensate ai Salty Dog. Oggi sguazziamo in mezzo a controfigure dei New Yardbirds del 1969, si moltiplicano come amebe o parameci, non fai in tempo a scrollartene uno di dosso che te ne ritrovi alle calcagna altre cinque, con i loro camicioni a fiori, i jeans a zampa d’elefante, le pettinature che fanno tanto hippy e tutta la paraphernalia archeologica che ha trasformato una scena potenzialmente interessante in una sorta di pantomima al limite (e talvolta molto oltre il limite) del ridicolo. I The Answer spiccano in mezzo a questa masnada per la loro capacità di rielaborare quel sound senza scadere nella riproposta puramente filologica. Nelle loro canzoni, naturalmente, non mancano citazioni e copia & incolla, ma tutto sta a saperle ambientare bene, e questa band sa farlo. Col tempo è cresciuta, e nell’ultimo ‘Revival’ ha saputo evitare quei parossismi (sopratutto a livello vocale) e le tentazioni più radicalmente retrò che rendevano meno godibili i due dischi precedenti. La matrice zeppeliniana resta però sempre la base imprescindibile di una buona parte del materiale, a partire dall’iniziale “Waste Your Tears” (che ha un refrain molto Free), e proseguendo con “Trouble” (qualche afrore Aerosmith) e “Tornado” (con un refrain fascinoso che si avvolge attorno al riff portante). “Vida (I Want You)” ha sprazzi funky e soul sul tessuto melodico decisamente vintage, su “Use Me” e “Caught On The Riverbed” ammiccano ripetutamente gli U2, “Destroy Me” gira attorno ad una chitarra spagnoleggiante e misteriosa, come una spirale elettrica che sfocia in un refrain diretto ed energico. Il riff pulsante ed intricato di “New Day Rising” si contrappone alla fresca melodia di “Nowhere Freeway”, “Can’t Remember, Can’t Forget” è un pelo troppo grunge per i miei gusti, mentre su “One More Revival” suonano come dei Bad Company rudi e sporchi ma sempre splendidamente soul. “Lights Are Down” chiude il disco con strofe liquide ed ipnotiche tra cui esplode il solito refrain imponente. La seconda parte di ‘Revival’ è un po’ meno interessante della prima, la band fatica ad uscire da un certo styling nelle melodie, anche se sarebbe perfettamente in grado di farlo (e lo dimostra su “One More Revival”). Qualcuno ha parlato di disco della consacrazione, io penso che i The Answer si trovino invece di fronte ad un bivio: possono continuare a recitare (sia pure con buon gusto) la parte dei replicanti o cercare di conquistarsi un’autonomia di linguaggio che però è tutta da inventare.
Possiamo ascoltare questo ultimo album dei Lynyrd Skynyrd in due modi. Confrontarlo con i dischi degli anni ‘70 e dei primi anni ‘90 e chiederci dov’è finita la band di southern rock che conoscevamo. Oppure fregarcene allegramente di quello che il moniker dovrebbe rappresentare e goderci ‘Last of a Dyin’ Breed’ in tutta la sua forza e bellezza. Non si può certo negare che il southern classico, quell’impasto di rock, blues e country che gli Skynyrd contribuirono a portare al successo tanti anni fa, da ‘Last…’ manchi quasi del tutto. Il precedente album ‘God & Guns’ ha segnato una svolta in direzione hard rock a cui non deve certo essere stato estraneo Rick Medlocke, oggi vero leader di una band che suona sempre più come i suoi Blackfoot e addirittura come quelle band dei Big 80s – Tangier, Company of Wolves, Dillinger, Tattoo Rodeo, Graveyard Train e via elencando – che cercavano di trasporre il southern in una dimensione più hard rocking. La produzione lussuosa e caldissima di Bob Marlette avvicina ancora di più gli Skynyrd a quelle band ottantiane ed al loro universo sonoro in un gioco di specchi che se a qualcuno sembrerà indecente a me appare invece affascinante e convincente. Certo, quelle sfumature alla Nickelback che vengono fuori inequivocabili da due canzoni sembrano messe lì apposta per far venire l’amaro in bocca a tutti i patiti del suono della Stars & Bars. E Johnny Van Zandt che ha smesso (finalmente) di cantare con quell’accento strascicato da vecchio sudista? Insomma, i fan del southern puro & duro hanno tutto il diritto di mugugnare. Ma il livello di ‘Last of a Dyin’ Breed’ è così alto che anche loro dovrebbero inchinarsi di fronte ad una band che pur cambiando in maniera abbastanza radicale il proprio approccio alla musica si mantiene in forma smagliante e confeziona un masterpiece che mette in fila (per me) tutto quanto è uscito finora quest’anno nell’ambito dell’hard rock di matrice più tradizionale, con la sola eccezione dell’ultimo Little Caesar. Quindici canzoni (nell’edizione De Luxe: in quella “normale” sono solo undici) fenomenali, niente filler, ben un’ora di musica strepitosa che ridisegna i confini del suono Skynyrd ancora meglio rispetto al pur eccelso ‘God & Guns’, spaziando liberamente da un classico southern energizzato (la title track, col suo intro slide; “Poor Man’s Dream”), ad atmosfere western (“One Day at a Time”; la rude, superba “Life’s Twisted”; “Honey Hole”, lenta e fascinosa prima di esplodere in un refrain devastante; la malinconia amara di “Sad Song”), dall’ hard blues (“Good Teacher”, con i suoi echi anni 70; “Nothing Comes Easy”; l’hard rock da saloon con tanto di fiati e piano “Do It Up Right”) all’hard boogie (“Mississippi Blood”, cantata da Johnny in duetto con Rick Medlocke), al blues puro e semplice (“Start Livin’ Life Again”, più acustica che elettrica, patinata ma efficace), a ballad mai banali (gli archi ed il pianoforte di “Ready to Fly”, la nostalgica e totalmente southern “Something to Live For”) a quelle contaminazioni che impastano il riffing secco e ritmato dei Nickelback al blues (“Homegrown”, che ha perfino un po’ di voce filtrata; “Low Down Dirty”). Insomma, un disco da godere dal principio alla fine senza pregiudizi.
Non sempre lavorare con un grande produttore ti porta fortuna. Lauren Smoken, quando venne contattata nientemeno che da Jack Douglas –l’uomo che ha prodotto album di Aerosmith, John Lennon, Starz, Rough Cutt – il quale si offrì di trovarle un deal e produrle il disco, dovette ritenersi una prediletta della dea bendata. Purtroppo, alla fine degli anni ’80, Jack Douglas non era più tanto in auge nel music business, l’ultima band che aveva prodotto erano stati i Gypsy Queen delle sorelle Mattioli, ed a loro era riuscito a reperire solo un contratto per un’etichetta indipendente. A Lauren andò anche peggio: la label fu la stessa dei Gypsy Queen, ma l’album divenne seduta stante una rarità. Lei praticamente svanì, ricomparendo solo nel 2005 per un nuovo disco intitolato ‘Spoonful of Stars’ (autoprodotto, naturalmente) che nessuno si prese la briga di ascoltare. Oggi, Lauren Smoken per vivere canta ai matrimoni e ogni commento è superfluo. Il disco? Una lost gem molto più degna del titolo rispetto ad altre. C’era la voce di Lauren, straordinaria emula di Janis Joplin (se volete coordinate più vicine al nostro genere, provate ad immaginare un ugola che impasta e fonde quelle di Joanna Dean, Robin Beck e Pat Benatar), un chitarrista davvero completo, George Mazzola (marito di Lauren), un songwriting eccellente ed una produzione perfetta: un album così avrebbe dovuto salire alle vette della classifica di Billboard, invece è rimasto una delizia per pochissimi. L’apertura è affidata a “Haven’t I Had Enough”, un bel rock robusto che impasta blues, soul e rhythm & blues tra sezioni fiati, pianoforte e, naturalmente, la voce acuta, nervosa, rauca e potente di Lauren. “Rock A Bye Baby” è assolutamente perfetta nella sua fusione di voodoo blues e metal californiano, notturna, insinuante, un crescendo che sfocia in un refrain anthemico spezzato da un bridge di tastiere avvolgenti. “Smile” è la prima ballad, un vecchio successo di Nat King Cole, piano ed archi si intrecciano in una caldissima stesura soul blues per un’altra interpretazione magistrale di Lauren ed un assolo luminoso e sporco di Mazzola. “Gonna Give Love One More Try” è un immenso slow hard blues reso incandescente dall’organo Hammond, tagliato da un altro assolo intenso e bellissimo, Lauren è assolutamente stre-pi-to-sa, la sua voce si impenna, urla, sussurra, carezza, graffia… Con “I Need The Money” torna l’r&b, una track divertente ed ancheggiante, tra fiati, piano ed Hammond, e sempre nello stesso genere si inquadra “The Trouble With Me Is You”, decisamente anni 70, pigra ed intensa nello stesso tempo, con qualche sprazzo funky. “License To Love” ci riporta in California, un hard melodico fatto in parti uguali di energia ed atmosfera con un ritornello notevole. Ancora una ballad, “Come To Me”, elettrica e caldissima, e poi arriva il top assoluto del disco, “Cry Wolf”, un grandioso hard boogie, vivace, divertito e danzereccio con le sue punteggiature di piano sui veli diafani delle tastiere: immaginate degli Headpins in versione rhythm & blues. “Little Boy Dreams” è una splendente, favolosa power ballad AOR, molto Heart, a seguire un’altra ballad, sempre un po’ bluesy, “Never Learn To Say Good Bye”, un gran crescendo con la melodia che veleggia su tappeti d’archi, pianoforte e chitarre via via più potenti e Lauren che sale in cattedra con la sua voce incredibile che muta come un camaleonte con bravura inarrivabile praticamente da un verso all’altro. Chiude “Best Of Me”, serrata, secca e veloce, addolcita da un bel ritornello AOR. Non chiedetemi a quanto giri questo disco tra eBay ed Amazon, non lo so e in un certo senso non lo voglio sapere. Sarebbe giusto e corretto che lo vendessero a peso d’oro. Se invece andasse via a pochi dollari… Be’, una fortuna per chi vuole entrarne in possesso, certo, ma anche l’ultimo sfregio ad un’artista di grandissimo talento.
Finalmente, dopo undici anni, arriva il nuovo disco di studio degli Aerosmith (non contando ‘Honkin’ on bobo’ che era un cover album). Joe Perry e Steven Tyler hanno smesso di punzecchiarsi, farsi dispetti a vicenda, divagare fra show televisivi e dischi solo, minacciarsi reciprocamente di licenziamento e con il solito team di produttori e songwriters hanno registrato questo mastodontico album, disponibile in varie versioni, con o senza bonus tracks, live tracks, alternate tracks… ‘Music from another dimension!’, smentendo il suo titolo, non ci porta affatto in una nuova dimensione musicale, sono i soliti Aerosmith che passano con disinvoltura dall’hard rock più ruvido alla ballad più patinata, provano qualche soluzione anticonvenzionale, giocano un po’ col blues. Potremmo dire che sono diventati prevedibili: da ‘Pump’ in poi nulla è cambiato nel loro sound, ma questo è un limite? Quello che conta è il songwriting, ed il songwriting di questa band continua ad essere straordinariamente buono. L’unico vero difetto di questo disco sta nel fatto che ci costringe a subire la tortura della voce orrenda di Joe Perry su ben due canzoni (tre nella de luxe edition), ma il bilancio finale è sempre largamente positivo. Insomma, sono i “soliti” Aerosmith, ma chi ha comprato ‘Music from another dimension’ voleva qualcosa di diverso dai “soliti” Aerosmith? Io, no di certo. In queste quindici canzoni le cose più ardite le sentiamo su “Beautiful”, quasi rap nelle strofe che cavalcano un riff minimale mentre il ritornello è melodico e vagamente moderno. Ma anche “Luv XXX” ha qualcosa di insolito nella ritmica danzereccia su cui Joe Perry inanella una notevole collezione di riff. Una canzone dalla struttura semplicissima come “Oh Yeah” viene nobilitata dalla solita produzione faraonica e rifinita da cori femminili e sezioni fiati che ritornano nel grande hard blues da saloon “Out Go the Lights”, mentre la coinvolgente “Legendary Child” viene sostenuta tramite un gigantesco riff zeppeliniano. “Street Jesus” e “Lover Alot” sono veloci, ispide, beffarde, la seconda ha un testo risolto da Steven Tyler nel suo solito stile da scioglilingua nevrotico, mentre “Closer” è un hard bluesy dalle atmosfere mutevoli che si apre alla melodia nel refrain. Joe Perry ci impone la sua voce tremenda su “Freedom Fighter” e “Something”: la prima è il solito hard bluesy diretto e senza fronzoli che Joe pratica dai tempi del Project e abbiamo sentito anche di recente sui suoi dischi solo; la seconda risulta invece uno splendido hard rock, lento e sempre sporcato di blues ma con una chiara ascendenza Purple/Rainbow, rovinato o quasi da quel guaito stanco, sfiatato e sempre sul filo della stonatura che Joe Perry si ostina a imporci anche quando ci sono fior di cantanti a cui affidare il microfono. Completano il tutto ben cinque ballad: “Tell Me”, elettroacustica e ben arrangiata; la molto più power “What Could Have Been Love”; “Can’t Stop Loving You”, notevolissima, in duetto con Carrie Underwood, piena di umori country e Southern; “We All Fall Down”, drammatica, arricchita da pianoforte e sezioni d’archi; “Another Last Goodbye”, per sola voce, pianoforte ed archi. Tirando le somme, un gran bell’album, con una di quelle produzioni sofisticate e lussuose diventate ormai una rarità. Non chiedetemi di fare graduatorie fra i dischi degli Aerosmith, ‘Music from another dimension!’ è “solo” un altro tassello di quel mosaico che la band ha iniziato a comporre nei tardi anni ’80, e preferire l’una o l’altra di quelle tessere è una pura questione di gusti personali. Rallegriamoci piuttosto per l’inserimento di questo nuovo tassello e speriamo che il mosaico sia ancora ben lontano dall’essere concluso.
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