Lo street rock era un paradosso ed una sorta di cupo, violento sogno bagnato. Non aveva una forma propria, e i suoi elementi stridevano talvolta l’uno contro l’altro come gli ingranaggi di una macchina assemblata male per sbaglio o per scherzo. C’era la sciccheria da bassifondi del glam spalmata sul metal cromato che rotolava su e giù lungo l’Hollywood Boulevard, l’asprezza e la disperazione del punk e le lusinghe del rock mainstream, la nostalgia per gli anni ’70 e le premonizioni dei ’90, l’elettricità più brutale e il blues acustico… Un’etichetta, insomma, che sostanzialmente non diceva un beneamato cazzo del contenuto. Rock di strada. Cosa avrebbe dovuto o potuto significare? E cosa avevano mai in comune tutte le bands a cui è stato appiccicato quel bollino? Guns N’ Roses, L.A. Guns, Faster Pussycat, Jetboy, Lynch Mob, Spread Eagle, Tora Tora, Bang Tango, Love / Hate, Sea Hags, Vain, Salty Dog, The Throbs, Circus Of Power eccetera eccetera si muovevano lungo traiettorie divergenti, facendosi strada (più o meno bene) in territori niente affatto sconosciuti ma che l’hard rock dei Big 80s non aveva frequentato con assiduità e fervore. Ogni band faceva storia a sé, e associarle tutte sotto quella bandiera divenne una comodità, un male necessario, un modo per dire che – semplicemente – quei ragazzi non erano come gli altri. Se una cosa avevano in comune, tutti quanti, era la coscienza, più o meno acuta, che i bei tempi stavano per finire. La platinata Los Angeles dei gloriosi anni ’80 stava per dichiarare bancarotta, e loro ne erano consapevoli, magari non in maniera lucida ma, coerenti interpreti di un periodo di decadenza, ne cantavano l’agonia in maniera obliqua e indiretta, celebrandone nello stesso tempo e con pari intensità i fasti tramite la loro stessa esistenza. Ballavano con il viso rivolto verso le fiamme che divoravano la città, esaltandone nello stesso tempo la gloria effimera e corrotta con un sorriso di scherno sulle labbra. In questa variopinta armata, i Kik Tracee si inserirono alla perfezione, grazie sopratutto alla vocalità del loro singer, Stephen Shareaux (audizionato dai Mötley Crüe come possibile sostituto di Vince Neil), potente e beffardo come pochi altri, teatrale e consapevolmente sguaiato. Testi ambigui e irriverenti, provocatori e cinici andavano ad incastonarsi in una trama musicale che in più di una circostanza offriva anche qualche scampolo di originalità ma in linea di massima si inseriva nel vasto quadro del metal californiano, sfrondato però delle sue infiocchettature più melodiche e spensierate. Pure, la band non rinunciava alle sfumature glam, alle atmosfere da party, ambientandole però in quel clima decadente che, come dicevamo, caratterizzò il “movimento” street. Se “Don’t need no rules” è secca e nevrotica, con riverberi Slaughter e Jetboy, l’irriverenza dei Kik Tracee esplode nella cover assolutamente sconvolta della “Mrs. Robinson” di Simon & Garfunkel, di cui in pratica viene recuperato solo il celebre refrain – torto e sbeffeggiato in maniera impareggiabile da Stephen Shareaux – inserito in un tessuto di ruvido street urbano. “You’re so strange” è una sorta di power ballad ironica e stralunata, “Trash city” un devastante rock metallico molto Guns N’ Roses, con un riff portante zeppeliniano ed il coro come un anthem malato. “Hard times” è sensuale e provocante: se i Faster Pussycat ed i Bang Tango avessero avuto un cantante capace di cantare anziché miagolare (i primi) o guaire (i secondi), questa è la roba che sarebbe venuta fuori dai loro dischi… “Big western sky” è una pregevolissima power ballad dai toni nello stesso tempo spavaldi e malinconici, mentre “Generation express” ha un intro western che ci porta in un hard rock ritmato, secco e trascinante, un po’ Ratt, un po’ Babylon A.D.. La Los Angeles metallica dei bassifondi ispira “Soul shaker”, sinuosa ma dura come la roccia, ancora su base zeppeliniana, con un assolo spettacolare ed un bridge anticonvenzionale, e sulla stessa falsariga procede “Tangerine man” più ritmata, glam e notturna, con un refrain irresistibile. Si tira il fiato con “Lost”, ballad acustica un po’ Extreme dall’impeccabile tessitura prima di tuffarci tra le luci al neon di “Velvet crush”, perfetta fusione tra i Faster Pussycat e gli L.A. Guns più cupi e decadenti, e “Rattlesnake eyes”, immersa nello stesso clima ma con un’anima più anthemica. Chiude “Romeo blues”: lenta, morbida, si snoda tra luminosi fraseggi di chitarra e panneggi di tastiere su cui si staglia più beffarda che mai la voce del singer che svanisce nella coda “Fade dunaway” trenta secondi di chitarra acustica che fanno calare il sipario su canzone ed album. Nonostante il contratto major e l’assistenza del potente management di Sharon Osbourne, i Kik Tracee non riuscirono a farsi notare più di tanto e la pubblicazione dell’EP a sei pezzi ‘Field trip’ nel 1992 fu soltanto il preludio ad uno scioglimento che l’indifferenza del pubblico alla loro proposta aveva reso (purtroppo) inevitabile.
Degli FM ho già scritto a proposito di quello che viene considerato (a ragione) il loro capolavoro, ‘Tough it out’: ma di tutto quello che è venuto dopo ‘Tough it out’ non si è mai parlato a sufficienza. Il cambio di sound, dal melodic rock all’hard blues (ma sarebbe più corretto chiamarlo “hard soul”) ha confinato gli altri quattro album della band in una sorta di limbo: ingiustamente, perché questi dischi non hanno in realtà niente da invidiare al loro cromatissimo predecessore. Oltretutto, la transizione da un genere all’altro avvenne con estrema gradualità, completandosi in modo definitivo solo con gli ultimi due dischi. ‘Takin’ it to the streets’, il primo lavoro inciso con la Music For Nations (dopo che il fiasco - incomprensibile - di ‘Tough…’ gli era costato il contratto con la Epic) non si discostava infatti granché da ‘Tough it out’, almeno nel songwriting, mentre il sound si faceva più asciutto, gli arrangiamenti più essenziali, ridimensionando il ruolo delle tastiere (ridotte quasi solo all’organo Hammond). Tra i soliti anthem vigorosi e coinvolgenti ed un paio di ottime power ballads, il futuro in agguato si materializzava in un paio di episodi marcatamente blues e funk e nella cover di “I heard it through the grapevine’, un grande successo di Marvin Gaye, brillantemente riletto con il sostegno di una scoppiettante sezione fiati. ‘Aphrodisiac’ spostava di più l’equilibrio generale verso il blues ed il soul, pur non rinunciando al vigore anthemico in qualche episodio, ma è con ‘Dead man’s shoes’ che la conversione diventa completa. Persi per strada Chris Overland (sostituito da Andy Burnett alla chitarra solista già dopo ‘Tough it out’) e Didge Digital (che non doveva aver gradito il cambio di indirizzo sonoro e venne rimpiazzato alle tastiere a partire da ‘Aphrodisiac’ da Jem Davis), gli FM in questo disco danno praticamente addio all’AOR, riplasmando il proprio sound in una nuova dimensione fatta di blues e soul, ma sempre, vigorosamente hard rock e, sopratutto, restando fedeli al proprio stile senza concedersi ad un’interpretazione squisitamente root o, peggio, celebrativa (alla Thunder, tanto per capirci). “Nobody’s Fool” è una precisa dichiarazione d’intenti, ispirata dalle stesure più raffinate dei Bad Company, dal riff, alle venature funk, ai cori soul: si può descrivere compiutamente con una sola parola: classe. “Ain’t No Cure For Love” è più dinamica, impostata su una melodia emozionante, semplicemente favolosa. La cover del classico rhythm and blues di Smokey Robinson, “Get Ready”, è affrontata dalla band con un piglio deciso e risolta brillantemente, “Don’t Say” è un mosaico di chitarre dal sapore western e cori anthemici su un riff secco di chitarra completato da un bridge soul: grande! E che aggettivi posso usare per trasmettere le sensazioni che dà “Mona”, una soul ballad dalla melodia tanto cool quanto seducente, dove la band sparge ancora classe a secchiate? “Sister” è un crescendo intenso e avvincente, elettrico e fascinoso, potente eppure delicato, “You’re The One” una power ballad con qualche ombra southern ed un suggestivo bridge AOR, “Tattoo Needle” un hard melodico dalla melodia incantevole. E il finale è di nuovo tutto all’insegna dell’atmosfera western, prima con la strepitosa “Misery” – ancora un po’ Bad Company, con un bridge sinfonico e maestoso – poi con il capolavoro “Dead Man’s Shoes”, la colonna sonora di un film mai girato, epica e romantica, misteriosa e solare. ‘Paraphernalia’, uscito solo in Giappone, chiudeva temporaneamente nel 1996 la carriera di questa band, con un lavoro sempre impostato sulle coordinate di ‘Dead Man’s Shoes’, ma decisamente più soft, meno elettrico: non trascurabile ma di sicuro meno incisivo ed ispirato del suo stratosferico predecessore. La reperibilità di tutti questi dischi è buona, in quanto sono stati ristampati qualche anno fa dalla Escape che li ha raggruppati nelle raccolte ‘Long time no see’ (comprendente ‘Aphrodisiac’, ‘Paraphernalia’ ed un live) e ‘Long lost friends’ (‘Takin’ it to the streets’ e ‘Dead Man’s Shoes’) con l’ulteriore aggiunta di bonus tracks. Mentre scrivevo queste note – strana coincidenza – è uscito il nuovo disco degli FM, ‘Metropolis’, ed è stato quasi giocoforza allungare il discorso al recentissimo parto discografico. Considerato che il sound della band ha continuato a vivere quasi integralmente attraverso i vari progetti di Steve Overland, gli Shadowman ed i The Ladder, non mi pare che ci sia uno iato particolarmente lungo tra ‘Paraphernalia’ e ‘Metropolis’, a parte l’uso del monicker (non conto il pure recente disco solo di Steve, impostato sull’AOR) quel discorso non si è mai interrotto davvero e difatti ‘Metropolis’, nonostante le presentazioni interessate dei venditori che hanno cercato di spacciarlo come un nuovo ‘Tough it out’, è impostato sulle coordinate più recenti codificate dalla band, anche se con qualche distinguo. Le atmosfere western sono sparite, l’elettricità è aumentata e, se proprio dovessi proporre similitudini con i lavori passati, direi che ‘Metropolis’ ricorda più da vicino ‘Aphrodisiac’ che i due ultimi lavori, spaziando con una certa ampiezza tra i generi e offrendo qua e là qualche spunto moderno, comunque modesto e mai soverchiante. Il nuovo membro, Jim Kirkpatrick, è autore unico di tutte le parti di chitarra, dato che Steve Overland da diversi anni ha appeso la chitarra al chiodo e si limita solo al canto, resa fonica e produzione sono impeccabili. “Wildside” apre benissimo il disco, con un riffing alla vecchi Whitesnake (per essere più precisi, quelli di “Don’t break my heart again”), mentre nel refrain i riferimenti vanno invece all’ultimo lavoro di David Coverdale e compagni, ‘Good to be bad’. “Hollow” e “Unbreakable” sono due fini stesure melodiche, la prima con qualche leggera rifrazione funky, la seconda con un certo modern edge, sopratutto nel coro. “Flamingo Road” è uno scatenato hard boogie con un impareggiabile coro rhythm and blues ed un finale strumentale incandescente, mentre la title track è un bellissimo strumentale d’atmosfera che fa quasi da intro a “Over You”, un hard melodico dalla melodia coinvolgente dove spiccano i sofisticati arrangiamenti di cori e tastiere (ma che c’entra quell’assolo heavy metal alla Thin Lizzie?). “Days Gone By” è una power ballad ben giostrata fra chitarre elettriche, acustiche e tastiere imponenti, con un refrain che però è ricalcato palesemente su quello della “Photograph” dei Nickelback… Tirata d’orecchie a Steve e soci e passiamo a “Bring Back Yesterday”, più delicata, che ricorda certe cose degli Shadowman del primo disco, mentre “I Ain't the One” è vivace, spruzzata di funky, con un riff galoppante molto Bryan Adams ed un coro soul. “I Don’t Need Nothing” è, per me, il top del disco, un hard rhythm and blues anthemico con tanto di fiati e preziosi intarsi funky.“The Extra Mile” si rivela uno slow blues intenso e suggestivo, mentre “Who'll Stop the Rain” è la sorpresa dell’album, un hard melodico con tastiere high tech che non avrebbe sfigurato su ‘Tough it out’. Chiude “Still the Fight Goes On” lenta, solenne e d’atmosfera, con qualche elemento moderno nel guitar work, forse solo un pelo troppo lunga. In definitiva, un ritorno gradito e nient’affatto superfluo per una delle poche band inglesi capaci di dire la propria nell’AOR.
Se in certi casi è veramente difficile chiarire il complesso di motivi responsabile dell’insuccesso di una band, ce ne sono altri in cui le ragioni che hanno confinato un gruppo nel limbo appaiono addirittura palesi e/o clamorose. Senza allargare il discorso e considerarne tutti i lati, i risvolti e le appendici, mettiamoci semplicemente nei panni del fruitore tipico di hard rock (americano, età generalmente inferiore ai venticinque anni) in quel 1991, che fruga nel settore del suo negozio di dischi dedicato alle novità e si imbatte in questo ‘Horses & hanwg’. Prende lo scatolotto oblungo di cartone in cui il CD è racchiuso (all’epoca si usava questo genere di confezione per facilitare il maneggio dei Compact Disc e pareggiare le dimensioni con gli ancora diffusi dischi di vinile). Dopo aver dato un’occhiata alla cover, inevitabilmente il nostro fruitore gira lo scatolotto e si trova di fronte ad una foto della band al completo… ed è qui che – per i Dillinger, almeno – cominciano i guai. Se due membri della band hanno un aspetto abbastanza normale, difatti, altri due (non saprei dirvi precisamente chi, dato che alle foto non sono accoppiati i nomi) ostentano un look per il quale non ci sono aggettivi adeguati a renderne la ridicolaggine. All’estrema sinistra abbiamo un tizio dalle braccia magroline che sembra portare appoggiata sulla testa (spiovendogli sulla fronte fino alle sopracciglia) una spazzola o una scopa con le setole tinte di un biondo che vira decisamente sul giallo banana. All’estrema destra compare invece un individuo che ostenta una barba alla Rino Gattuso che non gli sta affatto bene, abbigliato con un completino e stivali in pelle di mucca bianconera che mi fa pensare alla pubblicità del Fruttolo e ancora di più ad un personaggio che chiunque guardava da ragazzino i cartoni animati di Lamù ricorderà sicuramente, ovvero quel tipo vestito da manzo che si proclamava Difensore Della Carne e che al nostro sosia lungocrinito del calciatore milanista basterebbe solo la maschera da mucca ed il mantello per riprodurre in carne ed ossa. Vi pare che l’hard rocker americano in discorso si porterebbe a casa il parto di gente combinata in maniera tanto ignobile? No, naturalmente. Ecco perché i Dillinger non se li è filati nessuno. Tutto il resto – sempre che un resto ci sia – è superfluo. Punto. Ed è un peccato che questo misto di capigliature simil-ramazza e look vaccaro-chic abbia allontanato i possibili acquirenti da una band che musicalmente sapeva il fatto suo ed avrebbe potuto dare ampie soddisfazioni a chi prediligeva l’hard rock melodico venato di country & western e southern rock alla maniera di Tattoo Rodeo, Tangier, Company Of Wolves eccetera. E proprio nel segno di Tattoo Rodeo e Tangier si inaugura il disco, con “Home for Better Days”, un ruvido hard rock innestato su un telaio country & western elettroacustico, subito replicato da “Can It Be Love” con l’aggiunta di una maggior dose di southern rock e di melodia nel refrain. Ancora più al Sud scende “Free Ride Home”, arricchita da un insolito, ma per niente fuori luogo, intervento di sax, e le stesse strade batte “We Had it All”, tramata di slide guitar, come dei Lynyrd Skynyrd in versione hard rock. Se “Captain of My Life” è una ballatona ruspante ma piacevole, “Bad Love” è un notevole mid tempo bluesy, sinuoso e notturno, deva fa ancora capolino il sax. Pure molto ispirato risulta “The Bad One”, un hard melodico che richiama nuovamente i Tattoo Rodeo. C’è invece qualcosa dei Cinderella (e sempre degli Skynyrd), su “Die For You”, una bella power ballad dai toni crepuscolari che si sciolgono in un ritornello avvincente spalmato su un tappeto d’archi. “Take Time” è un riff palpitante ed un’armonica sgusciante prima del refrain anthemico e a tempo di boogie, “Nothing (Without You)” è ancora una power ballad (scritta da Mark Baker) dal bel refrain arioso, mentre la band onora i suoi principali ispiratori, i Lynyrd Skynyrd, con una cover energizzata e davvero autorevole del loro classico “Whiskey Rock-A-Roller”, e chiude “Red White and Blue” che, nonostante grondi di retorica patriottarda, è un’altra piacevole power ballad elettroacustica dal refrain molto country. Considerato che su eBay questo disco gira in abbondanza e si può avere per un dollaro o giù di lì, non posso che consigliarne caldamente l’acquisto agli amanti del genere bluesy. Richiederlo per posta, in questo caso, dà anche il non trascurabile vantaggio di comprarlo senza aver visto prima una foto della band: forse neppure le mie garanzie sulla qualità della proposta musicale riuscirebbero ad avere ragione del naturale sentimento di obbrobrio scatenato dalla vista di quella foto sul retro della copertina…
Per introdurre il discorso su questa band devo seguire sostanzialmente la stessa strategia adottata da poco per Zeno Roth, con il necessario cambio di latitudine: Zeno Roth è tedesco, i Great King Rat sono invece una band svedese. I miei rapporti con la comunità hard rock scandinava non sono poi tanto più cordiali di quelli che intrattengo con la fraternità germanica. Se i tedeschi suonano tronfi, gli svedesi spesso – troppo spesso – suonano melensi, o scemi tout court. Ci seppelliscono sotto colate di tastiere scintillanti e arrangiamenti pomposi che finiscono per essere sempre più o meno la fotocopia l’uno dell’altro: ai bei tempi che furono (e in genere anche in quelli attuali, tutt’altro che belli) ci voleva un orecchio davvero fino per cogliere la differenza tra Glory, Treat, 220 Volt e compagnia, se le canzoni non erano intercambiabili da una band all’altra davvero poco ci mancava. Sì, la produzione era sempre di gran classe, gli arrangiamenti superbi, i cantanti avevano volume e timbri accattivanti ma sentito un disco li avevi sentiti tutti. E anche da quelle parti le cose andavano meglio – molto meglio – quando le bands puntavano lo sguardo verso quelle terre che i loro antenati che navigavano sui drakkar avevano inconsapevolmente scoperto prima del nostro connazionale ligure, come fecero i Sons Of Angel (che erano norvegesi) o gli Electric Boys. O, appunto, i Great King Rat. Band che purtroppo sono veramente pochissimi ad aver potuto apprezzare perché pubblicarono questo formidabile disco d’esordio per la minuscola label svedese Planet. Anche se venne stampato pure in Giappone, la sua diffusione fu limitatissima e oggi è uno dei pezzi più ricercati e cari su eBay, l’edizione giapponese su etichetta Fandango viene pagata sui cento dollari, quella svedese raramente rimane sotto i quaranta. L’esborso è congruo? La spesa vale l’impresa? Sì e no. Insomma: questo è un grandissimo disco, ma è innanzitutto la sua rarità a determinare quotazioni tanto alte. Se l’avessero ristampato, i canonici quindici euro li varrebbe sicuramente fino all’ultimo centesimo. Venendo alla musica contenuta del disco in oggetto, il miglior complimento che si può farle (almeno, per me si tratta di un complimento, e non da poco) è che non sembra assolutamente il parto di un gruppo svedese. I Great King Rat suonavano in tutto e per tutto come una band americana. Per essere più precisi, suonavano sopratutto come una band americana, i Tora Tora, o meglio, come una loro (ipotetica) versione meno ruvida ed un po’ più melodica, grazie anche ad una somiglianza tra le voci dei due cantanti (Leif Sudlin per i Great King Rat e e Anthony Corder per i Tora Tora) stupefacente al punto da autorizzare fantascientifici sospetti riguardo l’identità dell’autore delle parti vocali dell'album. Album che è aperto dalla spettacolare “Bright Lights”, grandiosamente zeppeliniana secondo la lezione dei Kingdom Come, dal riffing fino al bridge di tastiere d’archi. “Good Times”, invece, è uno scanzonato metal californiano che fa tanto Ratt, mentre “Woman In Love” si sviluppa lungo un hard bluesy sexy e agile dai contrappunti funky, un po’ Van Halen, un po’ Bad Company anni ’70. I Tora Tora del primo album, ‘Surprise attack’, ispirano “Ball & Chain”, secca ma melodica, “Take Me Back” è una power ballad elettroacustica di notevole spessore, ruvida e sofisticata, fra Tesla e Riverdogs, mentre “Follow The Rains” impasta di nuovo i Tora Tora (quelli di ‘Wild America’, stavolta), i Dirty White Boy ed i Tattoo Rodeo con fiati e slide guitar per un hard blues fenomenale. “One By One” parte come uno slow blues da cowboy, con tanto di armonica e slide, poi entra un chitarrone enorme, un’altra chitarra prima sfrigolante poi secca e tagliente che disegna un crescendo quasi soul e abbastanza Tangier. “Dirty Old Man Stomp” è un riff pulsante, piano boogie, un formidabile hard rock da saloon, ancora molto Tora Tora. Un riff rotolante, zeppeliniano, un po’ alla “Black Dog” porta dentro “Calling For My Angel”, dall’atmosfera molto Badlands nonostante il refrain melodico e accattivante. Torniamo in California con “Top Of The World”, metallica e vagamente Van Halen e chiude “Bad Woman”, perfettamente in linea con i brani più Whitesnake oriented dei Badlands. Da rimarcare i contributi della chitarra solista di Pontus Norgren, con assoli sempre incisivi e pertinenti. Come ho anticipato, questo strepitoso album era praticamente irreperibile all’epoca della sua pubblicazione e oggi, stante l’inspiegabile disinteresse verso una sua riedizione da parte delle etichette dedite al settore ristampe, le cose vanno ancora peggio. Che sia rimasto fino ad oggi una delizia per pochi intimi è un crimine contro l’umanità degno di essere portato davanti al tribunale dell’Aja con imputati unici quelli della Planet, che si comportò con i Great King Rat in un modo degno delle più piratesche e cialtrone labels indipendenti italiane degli anni ’70 e ’80, prima ritardando di un anno l’uscita del disco (che era pronto già nel 1991), poi stampandolo in quelle quattro copie che oggi vengono contese su eBay, infine rifiutandosi di pagare lo studio in cui la band era andata a registrare a fine ’91 altre cinque canzoni destinate ad un futuro ed improbabile secondo album che si materializzerà solo nel 1999, ‘Out of the can’, in effetti una raccolta di demo, composto dalle cinque tracks anzidette, da una canzone scartata per il disco d’esordio ed altri quattro pezzi incisi nel 1992. Pur essendo, ripeto, dei demo, tutte le undici canzoni hanno una qualità audio ed una produzione di alto livello e, cosa forse ancora più sorprendente, mostrano una continuità nel songwriting che non tradisce affatto lo iato temporale tra una registrazione e l’altra. Dulcis in fundo, ‘Out of the can’, nonostante abbia ormai più di dieci anni, è ancora reperibile ed a prezzo onesto (tra i sette ed i dodici euro, generalmente). Rispetto a ‘Great King Rat’ le cose non cambiano gran ché, c’è solo una più accentuata vena bluesy che esplode nella cover impeccabile di “Be My Friend” dei Free, mentre le tastiere, che pure erano ospiti fisse sul primo album, fanno sentire ancora di più la loro presenza, fin dall’iniziale “Wide Awake In Dreamland”, introdotta da pochi accordi rugginosi di chitarra, uno spettacolare hard blues sempre debitore dai Bad Company. “Lovin’ You” è calda, bollente: un basso palpitante, chitarre che disegnano un riffing prima altalenante poi secco e affilato su cui si staglia una pregevole linea melodica: come dei Badlands cromati e luccicanti. Sulla stessa falsariga procede “Don’t Stop Believin’ ”, con una più accentuata vena anni ’70 ed un refrain che richiama i Tyketto. “Long Time” è una splendida variazione sul tema di “Kashmir”, “Lay Down Our Guns” spalma un ritornello metallico ma arioso su un rovente telaio bluesy, “Make It Last” ha un riffeggiare nervoso e molto californiano aperto da un refrain ultramelodico con sottofondo di cori polifonici. I Led Zeppelin vengono di nuovo omaggiati con “Leavin’ This World”, imponente e fascinosa, mentre echi dei Tora Tora ritornano in “Restless One”, dura e veloce, rifinita da una slide abrasiva, e chiude “Won’t Look Back”, power ballad intensa ed elettrica. Insomma, l’unica cosa brutta di questo disco è la copertina, ripugnante più che umoristica, a meno che non abbiate una qualche speciale predilezione per le pantegane o toponi di fogna che dir si voglia… La storia dei Great King Rat finisce con questo disco, anzi, si conclude ancora prima, dato che lo split ufficiale avvenne nel 1993, i membri si sparpagliarono in bands locali e non (MSG, Talisman, Electric Boys, Thunder, John Norum, Jekyll & Hyde, Titanic Truth), che rabbia pensare a quanti ossi da morto continuano imperterriti la loro carriera tra ghiacci e fiordi mentre quella che è probabilmente la miglior band mai uscita dalla Svezia resta ancora oggi un articolo quasi sconosciuto al grande pubblico. Sulla loro scia, quantomeno a livello di sound, si metteranno i soli Snakes In Paradise, che pur bravi non sono però mai riusciti a raggiungere le vette stratosferiche di una band che meritava molto più di quanto ha avuto.
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