Perché questo disco è andato così male nelle
classifiche? Il peggior risultato dai tempi di ‘Done
with mirrors’ e qualcuno ha già detto che per Steven Tyler e
compagnia la seconda luna di miele con il pubblico USA è finita.
Intanto, le scarse vendite di ‘Honkin’ on bobo’
hanno determinato uno stop, una pausa di riflessione che ormai va avanti
da quattro anni, un silenzio rotto solo dal lavoro solista di Joe Perry,
che pure non ha fatto sfracelli, ed un live inutile. La mia opinione è che ‘Honkin’
on bobo’ sia arrivato troppo tardi. La breve stagione dei blues
cover album si era già consumata, e la gente è rimasta fredda di
fronte all’ennesima raccolta di classici del genere rifatti in chiave
rock. E poi… Certe interpretazioni di Steven Tyler non mi sono
piaciute per niente. Hanno un sapore quasi caricaturale. Fanno sorgere
il dubbio che questo disco, in certi suoi momenti, sia una parodia più
che un omaggio. D’accordo che agli Aerosmith il sense
of humor non ha mai fatto difetto, ma non è con le pagliacciate che
si rende onore a qualcosa. E ascoltando Steven che rantola balbettando
con una voce rugginosa su “Temperature”
non si può fare a meno di pensare che in studio, mentre registrava,
tutti si stessero rotolando per terra dal gran ridere. Anche “Eyesight
to the blind” è interpretata dal cantante sul confine della
presa per il sedere, sembra che Steven ci dica: sentite come sono bravo
a fare il verso al blues singer
dalle corde vocali incatramate e i toni cavernosi. Insomma: questo non
è il blues, è la satira del blues. Non è un tributo, ma uno sfottò
da far rivoltare nella tomba Robert Johnson e Muddy Waters. Steven si
produce in performances molto più godibili negli altri pezzi, in
particolare su “Baby please don’t go”,
ma il suo cantato resta sempre sopra le righe, salvo sull’unica
canzone scritta apposta dalla band per questo disco, “The
grind”: qui, Steven Tyler ridiventa “serio”, e canta come
sa, come avrebbe dovuto cantare anche nel resto dell’album. Due
canzoni, “Back back train” e “Stop
messin’ around” le canta Joe Perry e sappiamo tutti che razza
di voce ha Joe Perry, eppure, in confronto ai lazzi di Steven, le sue
interpretazioni asciutte e misurate risultano molto più gradevoli,
sopratutto sull’ipnotica e misteriosa “Back
back train”, dove duetta con Tracy Bonham (a
proposito di questa canzone: suona molto, forse troppo simile alla
“When the levee breaks” dei Led Zeppelin, ma la somiglianza è pura
casualità: questa è stata scritta da Mississippi Fred McDowell, mentre
la canzone dei Led Zeppelin è basata su un blues con lo stesso titolo
di Memphis Minnie ispirato dalla grande inondazione del Mississippi
avvenuta nel 1927). Se l’idea di Steven e compagnia era far fare quattro
risate alla gente registrando buffonescamente un po’ di vecchie
canzoni mi sembra che la missione sia stata compiuta fin troppo bene,
almeno in parte. Se doveva essere un omaggio al Gran Padre del Rock,
ha toppato alla grande. Se poi Steven era sincero quando ripeteva a
tutti quelli che lo intervistavano all’indomani dell’uscita di ‘Honkin’
on bobo’: “Non chiamiamolo un cover album blues, questo è solo il nuovo disco
degli Aerosmith”, si deve concludere che la band ha lavorato al
suo nuovo disco con una grande confusione in testa, e allora questa
pausa di riflessione non è affatto fuori luogo…
Non si finisce mai di stupirsi.
Mai. E questa band, per me, è stata una notevole fonte di stupore.
Nascevano dalle ceneri dei Jagged Edge, gli Skin, la mente creativa
era sempre la stessa, il chitarrista Myke Gray. E dei Jagged Edge
avevo avuto un’impressione tutt’altro che positiva. Dopo
numerosi ascolti del loro primo ed unico album, lo avevo rifilato
senza incertezze al negozio dei CD usati. Una band modesta, i Jagged
Edge. Non mi piaceva il taglio essenziale degli arrangiamenti, la
voce acerba e insignificante del cantante Matt Alfonzetti, la
produzione ridotta all’osso, il songwriting tentennante. I soliti
inglesi (con batterista italiano) alle prese con l’hard melodico,
senza convinzione e forse senza neppure i mezzi per affrontare il
genere come si deve. E non dovevo essere l’unico a pensarlo, dato
che i Jagged Edge furono – nonostante l’appoggio partigiano ed
acritico della stampa locale – un completo flop e si sciolsero in
un niente, e Myke Gray ed il bassista Andy Robbins misero su questa
nuova band, registrando subito un album prodotto da Keith Olsen. La
mia ammirazione per il lavoro di questo grandissimo produttore
l’ho già manifestata, sopratutto nella recensione del primo album
dei Wild Horses, ma era tale e tanta la disistima per Myke Grey che
neppure questo bastò a convincermi a investire denaro sugli Skin.
Poi, ecco che da uno scaffale di quello stesso negozio di CD usati
che aveva inghiottito i Jagged Edge spuntano fuori gli Skin, ed a
prezzo vile. Chiamatela curiosità, chiamatelo autolesionismo…
comunque, in virtù di qualche processo mentale sicuramente contorto
e ben poco razionale, il disco alla fine era mio. Oddio, forse era
soltanto fiducia cieca: come se non riuscissi davvero a credere che
Keith Olsen potesse produrre un brutto
disco. Di certo, non uno scialbo e noioso come quello dei Jagged
Edge. Bene: sia stato il tocco magico di Keith Olsen o un improvviso
ingenialimento (parola comunque troppo grossa) di Grey, ma
quest’album non è neppure lontano parente di quella bruttura.
Tanto per cominciare, gli Skin facevano un altro genere rispetto ai
Jagged Edge, hard rock bluesato, settantiano, caldo e avvolgente,
sulla scia dei primi Whitesnake, dei Cult era ‘Sonic
temple’, dei Thunder e dei Kiss Of
Gipsy. Poi avevano un cantante straordinario, Neville McDonald (già
frontman dei Kooga, band che pubblicò un solo disco nel 1986, di
cui si disse un gran bene) dalla voce calda ed intensa, negroide,
potente, come un Lenny Kravitz più colorato e profondo o un Jeff
Scott Soto dai toni acuti. Il
torrido funk “Money”
apre il disco, e sembra davvero di ascoltare qualcosa di Lenny
Kravitz, un Lenny Kravitz più caldo ed heavy. “Shine
your light” fa molto anni 70,
serpeggiando tra Cult e Badlands, cadenzata ma con un finale veloce,
quasi convulso. “House of love”
ricorda gli Whitesnake, e sopratutto i loro epigoni Wild Horses,
band prodotta proprio da Keith Olsen. Anche “Colourblind”
ha forti reminiscenze Cult, con quel riffeggiare secco e sinuoso
nello stesso tempo e l’alternanza tra acustico ed elettrico. “Which
are the tears” è una power ballad
molto soul con bei cori femminili, “Look
but don’t touch” un hard blues
strepitosamente anthemico. Jeff
Paris contribuisce alla perfetta riuscita di “Nightsong”
con il suo inconfondibile gusto melodico innestato su un bel telaio
bluesy (e Grey restituirà il favore, comparendo sui due ultimi
dischi di Jeff, ‘Smack’
e ‘Freak flag’),
“Tower of strenght”
è ancora una power ballad su base soul, con qualcosa dei Little
Caesar epoca primo album. Anche “Revolution”
porta una firma prestigiosa, a Grey e McDonald si unisce Bob Held
per un hard rock drammatico ed incalzante che ci riporta ai Thunder
di ‘Laughing on judgement day’. “Raised
on radio” è un anthem fantastico,
addirittura geniale nella sua semplicità, un perfetto innesto
Thunder/Cult, e chiude il disco “Wings
of an angel”, ancora il soul sugli
scudi per una ballad delicata e sognante, con un assolo struggente e
cristallino. Dopo un secondo disco, ‘Lucky’,
non all’altezza dell’esordio e già largamente compromesso con
la scena grunge, la strada della band si complica con il
licenziamento da parte della EMI e la registrazione di un album per
il solo mercato giapponese, 'Big Fat
Slice Of Life', poi pubblicato in Gran
Bretagna nel 1997 come 'Experience
Electric' con una scaletta diversa,
completamente calato nelle atmosfere sonore che andavano ormai per
la maggiore: scelta incomprensibile per una band che con ‘Skin’
aveva raggiunto il numero 9 delle combattutissime classifiche
britanniche e voltò di botto le spalle al proprio pubblico per la
ricerca di un successo su più larga scala che rimase solo
un’utopia.
Per favore, prima di cominciare a leggere questa recensione, andate a leggervi (o rileggervi) quella del primo album degli Shadowman, ‘Land of the living’ (vi basta seguire il link). Fatto? Okay: allora, adesso che avete le idee chiare (oppure ve le siete rinfrescate) su quello che gli Shadowman erano una volta, possiamo cominciare… Ammetto il mio peccato: non ho ascoltato il secondo album di questa band, ‘Different angles’. In tutte le recensioni che avevo letto, veniva descritto come molto più soft rispetto al primo disco, e poiché già ‘Land of the living’ non era esattamente un tornado, ritenni di non investire quattrini su quest’opera. Dato che di ‘Ghost in the mirror’ si sta scrivendo come di un disco molto più hard rocking rispetto a ‘Different…’, l’ho comprato senza esitazioni. Ma… Insomma, posso essermi perduto una puntata, d’accordo, ma qui sono cambiate tante di quelle cose che sembra quasi di avere a che fare con un’altra band. Gli Shadowman prima erano levigati, morbidi, suadenti. Oggi sono diventati elettrici, roboanti, in un paio di occasioni addirittura feroci! Potrei scrivere che sono diventati gli FM, tout court. Non sentivo Steve Overland cantare su questi volumi dai tempi di ‘Tough it out’, anche se il sound di questo disco appartiene più al periodo bluesy inaugurato con ‘Takin’ it to the street’, e fa bene il paio con ‘Aphrodisiac’. Dunque: chitarre a manetta, anche sulle ballad, solo un paio ed entrambe decisamente power. Peccato che non siano indicati gli autori delle canzoni, perché mi pare che Steve Overland abbia preso con decisione il timone della società, anche se Steve Morris lascia con autorità il suo sigillo sul primo pezzo in scaletta, che forse nasce da un attacco di nostalgia per i suoi trascorsi nella Gillan Band, dato che si tratta di un hard purpleiano contraddistinto da un organo hammond indiavolato (ora gli Shadowman hanno un tastierista titolare, mentre su ‘Land of the living’ delle keys si occupava Steve Morris). Non pretendo che una band resti sempre, rigorosamente uguale a se stessa, ma tutto questo diluvio di elettricità lascia un tantino interdetti, uno pensa di aver chiara la fisionomia di una band e poi, di colpo… Sulla qualità della proposta, comunque, non c’è nulla da eccepire, tutt’altro: ‘Ghost in the mirror’ è un disco di assoluta eccellenza. Anche la qualità audio e la produzione sono sempre di altissimo livello (tanto di cappello a Steve Morris, che come produttore può dare lezioni a tanti “professionisti”), c’è solo una punta di nitore sonoro in meno, un suono più caldo che non so se attribuire al voltaggio più elevato delle canzoni o al mixaggio. Di Steve Overland si può solo dire che è come il vino buono: invecchiando, migliora sempre. C’è quasi da stupirsi di come la sua voce sia rimasta assolutamente integra dopo tanti anni e tanti dischi cantati non proprio sussurrando. L’iniziale “Road to nowhere”, dicevamo, innesta su un telaio decisamente purpleiano una tipica melodia alla FM, l’assolo se lo dividono l’hammond ed una chitarra che più Blackmoore non si può. Ma anche “No man’s land” è un po’ sui generis, dato che ha un sapore in cui si mescolano Thin Lizzy e (mi pare) Status Quo, mentre “Bad for you” è risolutamente blues, con un ritornello molto intenso (bello il breve bridge acustico). Da qui in poi, entriamo con decisione nell’universo FM post ‘Tough it out’. “Colour of your love” sembra schizzata dritta dalle sessions di ‘Aphrodisiac’ (ma con una produzione più elaborata), “Fire and ice” è quasi una power ballad, più vicina a certe soluzioni di ‘Land of the living’, come “Blues city”, dove – nonostante il titolo – risaltano particolarmente i tocchi funky; “Keeper of my heart” è invece decisamente blues, come “I’ve been wrong before”, una power ballad che ricorda a tratti il Gary Moore epoca ‘Aferhours’, mentre nel ritmo galoppante di “It’s electric" si coniugano potenza ed atmosfera. “Outlaws” è impostata su un’atmosfera western stile ‘Dead man’s shoes’, e concludono due favolosi hard rhythm’n’blues “The hard way” (impreziosita dai fiati) e “Little miss midnight” (più diretta). Dopo gli Whitesnake di ‘Good to be bad’, probabilmente il miglior disco hard blues del 2008.
Negli ultimi tempi ho scritto di dischi dalla reperibilità problematica e cari come un molare nuovo, ma ora voglio farmi perdonare tirando fuori dal cilindro un album che è in vendita su eBay ed Amazon a cifre comprese tra i cinque e gli otto dollari: per il suo valore artistico, assolutamente sottostimato. Uscito nel 1992 per la Giant, questo disco naufragò nell’uragano grunge, passando (ingiustamente) inosservato fra le orripilanti nenie degli zozzoni di Seattle, già largamente padroni del mercato. L’accostamento (piuttosto inconsistente, secondo il mio modesto parere) con i Black Crowes avrebbe potuto attizzare un interesse da parte del pubblico che invece non ci fu, ed i CD dei Soul Kitchen passarono rapidamente tra i forati, la band si sfasciò e tutto finì ancora prima di cominciare. Certo, chi comprò il disco sperando di ascoltare un rock sudista ed un po’ sonnolento sulla scia della band dei fratelli Robinson, dovette storcere il naso di fronte al vigore elettrico di ‘Soul Kitchen’, e chissà che proprio questo infelice accostamento non si sia rivelato deleterio per le fortune della band. Prodotto da Randy Cantor (che contribuiva anche come tastierista, of course), con un po’ di ospiti più o meno prestigiosi (Kevin Cronin dei Reo Speedwagon, Tony Santoro ed Eric Brazilian dei Black Eyed Susan, band quest’ultima pure prodotta da Cantor), l’album comincia alla grande con “I need it bad”, perfetto incrocio di ZZ Top, Tesla e Cinderella: ritmo boogie, clima raunchy, piano honky tonk in sottofondo… “Blue eyes” fa molto Tangier era ‘Stranded’, in particolare nel refrain maschio, dura e cadenzata fra le carezze dell’Hammond, con un bridge funkeggiante ed un assolo suonato quasi in sordina: che classe… Cala il ritmo con “Rosie Jones”, piacevole ballad elettroacustica un po’ folk un po’ Beatles, ma “One way ticket man” è un funk micidiale spezzato da un imponente bridge percussivo, nerissimo, urticante, su cui si spalma un refrain soul ancora di marca Tangier colorato dai cori femminili. “Carry me” è molto southern rock, quasi una power ballad, piano, Hammond, armonica, grande melodia e grande atmosfera (e qui, qualcosa dei Black Crowes effettivamente c’è…). Si procede ancora lungo le piste del southern con “Mother lode”, stavolta quelle più accidentate: canzone molto heavy, costruita su un riff essenziale, echi dei Junkyard? “Dancing on the highway” è un riff zeppeliniano trapiantato in un clima un po’ Tangier un po’ Bad Company anni 70, l’intreccio di chitarre acustiche, elettriche e organo Hammond è perfetto, rude e sofisticata, ariosa e fisica: super. “Can’t get too close” è un hard rock scarno e molto AC/DC, “Backdoor to heaven” una pregevole power ballad di netta marca Lynyrd Skynyrd e chiude “Zero at the bone”, di nuovo un riffone di scuola AC/DC alternato a momenti più pacati e melodici in un notevole mosaico di elettricità e velluto. I Soul Kitchen meritavano di durare ben più di un solo disco, e questo loro unico album è una autentica lost gem con il plus di una quotazione ridicola sul mercato dell’usato. Fatevi furbi…
Anche i tedeschi lo fanno. O, almeno, ci provano. Parliamo dell’hard blues, naturalmente… Lo scetticismo di fronte a questo tentativo è d’obbligo. Possibile che i crucchi… scusate… i mangiacrauti… pardon… i tedeschi riescano in un genere che, fuori dagli Stati Uniti, solo gli inglesi hanno saputo replicare e reinventare? Sopratutto considerato che i tedeschi in questione non hanno affatto un background all’altezza, ma vengono dall’ambiente del metal? I presupposti perché l’avventura venisse accolta da una (meritata) sinfonia di fischi e pernacchie c’erano tutti. Ma viviamo in tempi calamitosi, le proposte che in questo genere specifico vengono dalle terre che lo hanno generato – Gran Bretagna ed USA – latitano o si limitano alla pura celebrazione al limite dello stucchevole (i Gentlemen’s Blues Club ne sono un perfetto esempio), e allora prendiamo quello che troviamo, non è detto che il blues fatto nella terra dei wurstel debba suonare per principio tronfio e pacchiano come gran parte del metal locale, e Tommy Heart non è certo uno di quei singer che si esprimono nello stile gallina strozzata tanto caro agli screamers germanici. Vent’anni fa una band come i Soul Doctor non sarebbe stata neppure concepibile, nessun discografico avrebbe messo sotto contratto quattro tedeschi che pretendevano di fare concorrenza ai Tesla… ma probabilmente esagero, in fondo la Atlantic fece registrare due album ai Gringos Locos, finlandesi che volevano fare concorrenza nientemeno che ai Lynyrd Skynyrd e ai Molly Hatchet… e ci riuscivano ben più che dignitosamente, alla fine. E allora, cerchiamo di mettere da parte i pregiudizi (molto difficile per il sottoscritto, considerata la nazionalità della band in discorso) e tuffiamoci in questo disco, il terzo dei Soul Doctor, che hanno da poco pubblicato anche un live. La qualità audio è buona, la produzione discreta nella sua essenzialità. Tommy Heart è un signor cantante, e non lo scopriamo certo oggi, dai tempi dei Fair Warning ha poi sicuramente migliorato la sua pronuncia dell’inglese, eterno tallone d’Achille di tutti i singer teutonici. “Eatin’ on me” apre l’album, facendoci erroneamente presagire qualcosa di molto avventuroso in tutte queste dieci canzoni, perché qui i Soul Doctor ci offrono un vero e proprio crossover nu-metal / blues, alternando riff stoppati ad uno tipicamente AC/DC, percussioni sintetiche e chitarre slide ed un assolo Hendrixiano: interessante e – sopratutto – efficace. Ma le sperimentazioni (purtroppo?) si fermano qui, la voglia d’avventura manifestata dalla band si limita a questa canzone. “Best way to fade” si divide infatti tra gli AC/DC ed il Bon Jovi versione western, “Under your skin” è quasi un anthem, molto Thunder con un coro e harmony vocals di chiaro stampo FM. Ancora i Bon Jovi ma sopratutto i Black Crowes ispirano prima “Remember” (una bella power ballad con pianoforte ed Hammond) poi “Where do we go” (ruvida ed elettrica), mentre gli FM più bluesy tornano di prepotenza su “Ten seconds of love” e “The trigger (goin’ downhill)”, rifinite dai fiati come la aerosmithiana “She’s mine” (scanzonata, con un gran bel refrain). “Give me a ride” è serrata ma con un coro melodico, un boogie metallico con un riff portante minimale e chiude “Cheap, down ‘n nasty”, cowboy ballad dal ritornello folk, tutta armonica e chitarre acustiche. Nell’edizione giapponese c’è una bonus track, intitolata “Let’s Zep”, insipido medley di canzoni dei Led Zeppelin (“Whole lotta love”, “Black dog”, eccetera) che non vale assolutamente la spesa occorrente per entrare in possesso della versione con gli occhi a mandorla di un disco per altro molto ben confezionato.
Se c’è un genere che è stato dato per spacciato più di una volta ed è poi sempre risorto come la fenice dalle proprie ceneri, quello è il Southern Rock. Un destino singolarmente appropriato per quella musica nata nella regione degli USA che dopo la guerra di secessione (di ribellione, come la chiamano gli americani) si è trovata dalla parte dei perdenti. Ma, come dicono da quelle parti, South will rise again, il Sud risorgerà, e forse non a caso quella musica che ne è diventata il simbolo più o meno stereotipato è stata periodicamente dichiarata morta da yankees troppo ottimisti per rispuntare poi sempre più vitale che mai. Il Southern è di recente tornato sugli scudi a livello internazionale grazie a Kid Rock, il rapper bianco convertito alla buona musica tradizionale, che tra un sorso di bourbon ed un morso al pollo fritto ed alla torta di mele della mamma ha realizzato con ‘Rock’n’roll Jesus’ un disco carino e molto politically correct, che con il southern ha ben più di un punto di contatto, chiunque abbia ascoltato la scorsa estate il singolo “All summer long” ha potuto rendersene conto. Kid Rock non ha riscoperto niente, si è solo limitato a seguire un’onda da cui l’Europa è per il momento rimasta fuori, il successo che il genere ebbe anche nel vecchio continente negli anni ’70 non è stato replicato oggi e neppure ieri e l’altro ieri (nei primi anni 90, per essere precisi), quando il rock del Sud visse la sua prima resurrezione. Il rinnovato favore presso il pubblico USA cominciò grazie a bands come Guns N’ Roses, Tesla e Black Crowes (per non parlare di incompresi come Georgia Satellites, Tangier, Company Of Wolves, Delta Rebels), che riproposero in chiave decisamente hard rock quelle sonorità, esplodendo poi in maniera definitiva con la rifondazione dei Lynyrd Skynyrd per quello che doveva essere solo un breve tour celebrativo e si rivelò un tale successo di pubblico da spingere i superstiti della band a riprendere il filo di quel discorso spezzato dall’incidente aereo che nel 1977 aveva ucciso il singer Ronnie Van Zant, il chitarrista Steve Gaines e sua sorella Cassie, una delle coriste della band. I Lynyrd Skynyrd, del Southern rappresentarono uno dei due poli, l’altro fu la Allmann Brothers Band. Pacati e sognanti gli Allmann, sanguigni e trucidi gli Skynyrd, non a caso sempre ben visti nel mondo esclusivo dell’hard rock. I migliori? Gli Allmann ebbero al principio la chitarra straordinaria di Duanne Allmann, ma la persero quasi subito, la sua morte per un incidente motociclistico nel 1972 ci privò di un talento che avrebbe potuto far concorrenza a Jimi Hendrix. Gli Skynyrd erano più duri, più rudi, più bluesy, e con quelle tre chitarre che rovesciavano torrenti di elettricità potevano tenere testa a qualunque hard rock band, sopratutto nella dimensione live. Gli Allmann erano il Sud cavalleresco e malinconico, nostalgico e romantico, gli Skynyrd quello riottoso e selvatico, solo i Blackfoot potevano tenergli testa in quanto ad energia e calore… e, guarda caso, Rick Medlocke, dopo aver sciolto la sua band, proprio ai Lynyrd Skynyrd si è unito. Naturalmente, non sono mancate le critiche alla band rifondata, con Johnny Van Zant (in precedenza, ottimo artista AOR) a ricoprire il ruolo che fu del fratello Ronnie, il rientrante Ed King ed il nuovo chitarrista Randall Hall, i soliti puristi che lamentavano il fatto che la musica dei nuovi Skynyrd non era la copia carbone di quanto fatto fino al 1977, per non parlare dei continui avvicendamenti che ormai fanno dei Lynyrd Skynyrd una specie di cooperativa del Southern Rock. Personalmente non ho mai trovato, almeno nei primi due album della reunion, ‘1991’ e ‘The last rebel’, un sound distante in modo significativo da quello che aveva reso celebre la band. Da ‘Edge of forever’ in poi il discorso si fa più elettrico e hard rocking (l’influenza di Rick Medlocke è palese), perdendo parzialmente quell’equilibrio impossibile tra fisicità e pigrizia, energia e pacatezza che aveva sempre contraddistinto la band, equilibrio che comunque pareva doversi spostare in direzioni più elettriche se dobbiamo giudicare dalle ultime due canzoni incise e pubblicate nel postumo ‘Best of the rest’. Dei dischi post 1977 scelgo ‘The last rebel’ non perché lo reputi superiore in maniera significativa agli altri, ma solo in quanto mi pare rappresenti al meglio lo spirito di una band che decide comunque di rinnovarsi mantenendosi aderente in modo rigoroso al proprio passato. Qui compaiono per la prima volta quelle sezioni fiati che diventeranno protagoniste fin troppo invadenti su ‘Vicious cycle’, i cori femminili vengono ridimensionati, ma per il resto sono gli Skynyrd, quelli che abbiamo conosciuto nei seventies, con il loro rock robusto e bluesato, mai urgente, come un rullo compressore che però giri piano piano, e tutto l’immaginario Southern perfettamente rappresentato in testi che si possono definire senza mezzi termini conservatori ed al limite retrivi, ma il rock del sud è anche questo, le cose buone di una volta, i valori tradizionali, la fedeltà al mondo della stars and bars celebrati senza imbarazzo o reticenze: chiamatelo tradizionalismo puritano, chiamatela ipocrisia, comunque nei dischi degli Skynyrd ne troverete sempre in abbondanza… “Good lovin’s hard to find” apre l’album in maniera in maniera swingante, con i fiati ed il piano boogie, un gran ritmo su cui spadroneggia la voce rude di Johnny Van Zant con il suo accento del sud volutamente marcato fin quasi all’intellegibilità. “One thing” è un riff secco sul tappeto suadente dell’Hammond, con il pianoforte a ricamare nel coro, un assolo di slide rugginosa, un bridge suggestivo e melodico. “Can’t take that away” e “Love don’t always come easy” sono ballad country & western, la seconda più sognante ed AOR, la prima afflitta da un testo così reazionario da finire quasi nel parodico se non fosse che questi ragazzi fanno sempre dannatamente sul serio… “Best things in life” (su questo pezzo mette mano anche Tom Keifer dei Cinderella) è decisamente blues, ma con un ritmo deliziosamente pigro. La title track è una power ballad di ampio respiro, fatta di panneggi di keys, chitarre languide, un drumming militaresco, epica, malinconica, un po’ Bon Jovi, magari, ma Jon avrebbe ucciso per una canzone del genere… Altra musica su “Outta hell in my dodge”, roccioso rock blues da sabato sera. “Kiss your freedom goodbye” è pesante e ritmata, il testo torna alla retorica del “quant’erano belli i vecchi tempi andati”, ma è abbastanza scanzonato (o rassegnato?) da non scadere nel ridicolo. “South of heaven” è un riff altalenante, un refrain memorabile, un’atmosfera nello stesso tempo spavalda e cinica: super. E chiude il disco l’altrettanto grande “Born to run”, con il suo ritmo da danza di guerra pellerossa, rudemente maestosa, con lunghe parti strumentali di pianoforte e chitarre. Dicevamo delle consistenti dosi di tradizionalismo nei testi delle loro canzoni, che ci danno un quadro dell’immaginario degli Skynyrd focalizzato sul classico “Dio, Patria & Famiglia”. Ma il Dio è quello implacabile e vendicativo della Bibbia, che non perdona il minimo sgarro, la Patria solo una bandiera che non rappresenta alcun paese reale e la Famiglia, generalmente, una palla al piede da cui si può al massimo sognare di liberarsi. Sono un fascio di contraddizioni, i Lynyrd Skynyrd, come il luogo da cui vengono, quel Sud che è poco più di un paese sognato,una delle mille facce di quegli Stati Uniti d’America molto meno uniti di quanto comunemente si creda.
Il ritorno in pompa magna di George Lynch ai bei tempi di ‘Wicked sensation’ e ‘Lynch mob’: così viene presentato questo disco, che vede il rientro di Oni Logan dietro il microfono della band quasi vent’anni dopo un licenziamento motivato – così dichiarò George alla stampa – dalla sua incapacità di cantare dal vivo. Col tempo, il buon Oni ha però migliorato di molto la sua tecnica, al punto da convincere George a tornare sui propri passi e riprenderlo in squadra, anche se ha perduto quasi del tutto quelle sfumature viziose che ne facevano una sorta di Phil Lewis meno acuto e più beffardo: oggi canta con una voce pulita, un po’ acida, abbastanza distante da quel guaito sporco e rauco che metteva in mostra su ‘Wicked sensation’. È una buona notizia? Non so: a me, quel guaito piaceva molto… Anche i Lynch Mob mi piacevano (e mi piacciono ancora oggi) molto, moltissimo, alla follia. Nel pezzo che gli ho dedicato ho cercato di essere distante ed oggettivo, ma per me, ‘Wicked sensation’ e ‘Lynch mob’ sono dischi fondamentali, che ascolto sempre con passione, che non mancano mai di emozionarmi: stanno nello scaffale dei privilegiati, assieme a Whitesnake, Bad English, Ratt, House Of Lords, Blue Murder, Giant, Heart: li conosco nota per nota, potrei fischiettarvi tutti gli assoli di George senza sbagliare un accordo… ‘Smoke and mirrors’ mi ha emozionato allo stesso modo? Direi proprio di sì. Al primo ascolto mi ha lasciato freddo, ma ero forse troppo sul chi vive, pronto ad una delusione legata ai recenti (e neanche tanto recenti, poi) trascorsi musicali di George Lynch, tra alternative e rap metal. Ma con questo album, George ha voluto dare un vero colpo di spugna a tutto il modernariato di cui aveva infarcito le sue ultime produzioni (fatta eccezione per l’ottimo ‘Furious George’: ne riparleremo), tornando allo street metal dei vecchi tempi con convinzione ed autorità, regalandoci un seguito ideale a quei due album strepitosi. Il suono è più asciutto, meno prodotto, ma questo non penalizza la resa fonica (di assoluta eccellenza) né le canzoni, undici pezzi che ci catapultano nella Los Angeles dei tardi anni ’80, senza contaminazioni né concessioni ad alcunché di attuale (la track list conta tredici pezzi, ma io faccio finta che siano solo undici: capirete poi perché…). Con una nuova sezione ritmica formata dal bravissimo Marco Mendoza al basso e da Scott Coogan alla batteria, George e Oni aprono il disco con “21st Century Man”, uno street metal cupo ed incalzante, davvero una scheggia strappata a ‘Wicked sensation’, dalla melodia fino alle timbriche della chitarra di George, mentre la title track ha un andamento country & western spezzato dal refrain metallico, tutto felicemente in bilico tra Bon Jovi e Tangier. “Lucky man” è più melodica, con un magnifico assolo, mentre “My Kind Of Healer” è sinuosa, con qualche ombra bluesy. “Time Keepers” risulta divisa nettamente fra un riff heavy metal serratissimo e parti misteriose e sognanti, con un assolo torrenziale e spettacolare, “Revolution Heroes” è un formidabile hard rock zeppeliniano, “Let The Music Be Your Master” è una scheggia di street metal impostata su un riff grandissimo (lento, sinuoso, imponente) con un bridge ipnotico ed un assolo funkeggiante, sporco, fascinoso. “The Phacist” è ancora hard rock di grande impatto, ispido e melodico, elettrico ma con ariose aperture di tastiere, un refrain vincente. “Where Do You Sleep At Night” è sleaze, sporca e melodica proprio come ai bei tempi che furono, “Madly Backwards” un hard blues nerissimo che avrebbe potuto occupare il posto d’onore su ‘Lynch mob’, “Before I Close My Eyes” chiude (per me) l’album con un hard rock melodico, quasi una power ballad, impreziosito da un bridge percussivo. Questi undici pezzi bastano ed avanzano a promuovere a pieni voti ‘Smoke and mirrors’, come album in sé e nella prospettiva di una continuazione di quel discorso che George Lynch interruppe nel ’92, dopo l’uscita di ‘Lynch Mob’, e allora ci conviene far finta che “We Will Remains” e “Mansions In The Sky” non esistano, dato che sono due brani di heavy metal classico che sembrano rubati al songbook di Dio o Malmsteen: nel primo George piazza addirittura un assolo classicheggiante; nel secondo, epico e tronfio, Oni Logan si mette anche a fare il verso all’ormai afono Ronnie James: per quale misterioso motivo George li abbia voluti includere nel disco, considerato che fanno a pugni fin quasi al comico con il resto, proprio non riesco ad immaginarlo. Per chi ha amato i vecchi Lynch Mob, ‘Smoke and mirrors’ è un ascolto imprescindibile, ma questo disco non è affatto un prodotto only for fans, chiunque apprezzi l’hard rock ottantiano sul versante street non potrà non ritrovarsi a proprio agio tra queste undici, favolose, acuminate schegge di un genere che da tanti anni non ascoltavo riproposto a questi livelli.
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