Chissà quante volte vi sarà capitato, leggendo la recensione di un
disco, di imbattervi in quella frase fatta o locuzione o modo di dire:
“canzone che vale l’acquisto”. Anch’io devo averla usata,
qualche volta. Si adotta, in genere, per etichettare un brano che si
eleva nettamente per valore da quelli che lo precedono o lo seguono, e
compare (o dovrebbe comparire) più spesso nelle recensioni di dischi
poco significativi: un segnale, una bandierina infilzata sul pezzo che
si distingue fra il grigiore generale, che spicca in modo clamoroso,
magari suscitando al primo ascolto anche una certa sorpresa: che ci fa
una canzone così
in un disco simile? Come una montagna che si staglia tra le
ondulazioni di una prateria piatta e monotona. Ma una ed una sola
canzone vale davvero l’acquisto di un intero album? La domanda si
presenta, inevitabilmente, dopo l’ascolto di questo disco di esordio
di Beth Hart. Perché qui, c’è una sola canzone che davvero merita
l’attenzione – tutta l’attenzione – di chi ama l’hard rock blues. Il resto ha i suoi
meriti, i suoi lati interessanti, ma non spicca gran ché, non si può
neppure etichettarlo con certezza come hard rock: c’è una marcata
vena anni 70, un grande amore verso la musica di Janis Joplin, un
sound robusto e asciutto ma orientato verso il mainstream rock
americano contemporaneo (il “contemporaneo” del 1996,
naturalmente). E poi, all’improvviso, quasi alla fine (è la
penultima canzone), arriva “Am I the one”...
uno di quei mid tempo che procedono lenti, rotolando come macigni di
granito foderati di velluto, un blues che più classico non si può,
pilotato da una chitarra Zeppeliniana e dalla voce cupa di Beth con
una forza ed una intensità che lasciano senza fiato... E tu ti
chiedi, allora: perché? Perché hanno perso tempo con canzoni e
canzoncine rock quando sapevano e potevano fare questo?
Perché Beth, che ha una voce che sembra la fusione (quasi) perfetta
di Sheryl Crow e Alannah Myles, invece di cantare il blues per tutto
il suo primo disco ha preferito spesso e volentieri prodursi in
lamenti flautati e singhiozzanti che fanno tanto Carmen Consoli
(orrore!)? Non ho una risposta, naturalmente, né questa risposta ce
l’ha mai data Beth, che prosegue la sua carriera sempre su questa
falsariga, alternando rock e blues, ballad e canzoni più impetuose,
come nel recentissimo ‘37 days’ (che
stranamente la Universal ha deciso di pubblicare
solo in Europa). Ma
c’è davvero solo “Am I the one” di
buono, in questo disco? Il punto è, che se questa canzone non ci
fosse, ‘Immortal’ avrebbe pochissima
ragione di figurare su questo sito. Il “buono” non è tanto da
intendersi in senso assoluto ma relativo ai generi che il webmaster ed
i suoi lettori più apprezzano. Il resto di ‘Immortal’ può essere
buono o meno in rapporto ad altre realtà musicali più o meno
conosciute, ma non riguarda che marginalmente l’hard rock
propriamente detto, e si può mettere in rapporto ad artiste (tanto
per rimanere in campo femminile) come la Sheryl Crow già citata o
Alanis Morrisette (epoca ‘Jagged little pill’).
Dal successivo 'Screaming for my supper',
poi, Beth rinuncia alla “band”, marcando i suoi dischi “Beth
Hart” e basta, avviandosi lungo un percorso più cantautorale, meno
rock propriamente detto, impostando un discorso che finisce per girare
tutt’attorno alla sua voce e rivolto a coloro che più che alla
musica sono interessati alle chiacchiere, a qualcuno che dice delle
cose mentre dietro qualcun altro assolutamente trascurabile costruisce un
sottofondo ritmico molto discreto: io, questo genere di discorso non
lo apprezzo, non lo capisco, non mi piace, anche se viene condotto da
una voce magnifica come quella di Beth Hart. La voce e le parole sono
solo un elemento del quadro, che deve sposarsi con tutti gli altri,
non camminarci sopra. “Am I the one”… ossia, in lingua madre: sono io quella giusta, la prescelta, la persona che aspettavi? Lei poteva esserlo. La nuova dea dell’hard rock blues. Ma poi ha cambiato idea.
FLESH
& BLOOD BLUES
FOR DAZE (1997) Siamo a metà anni novanta. Le major labels, di AOR et
similia non vogliono più sentir parlare e le strade di Los
Angeles sono tappezzate di musicisti più o meno disoccupati. Mark
Mangold, dopo la fine dei Drive, She Said, si ritrova anche lui di
fronte alla terribile alternativa: provare a riciclarsi in qualche
altro genere musicale oppure mollare tutto e, che so, mettersi a vendere auto usate o aprire una lavanderia a
gettone. Dato che il tentativo di portare i Drive, She Said in
territori musicali più attuali non aveva dato frutti e le bands
pseudo alternative formate da reduci dei Big 80s facevano quasi tutte
la fame, Mark pensò di abbordare un altro genere che a fine anni
novanta pareva dare buoni riscontri: l’hard blues. Con il solito
Chuck Bonfante ai tamburi, chiama il camaleontico chitarrista Al
Pitrelli (Alice Cooper, Windowmaker, Asia, Savatage, Megadeth) ed il
bassista Mitch DeStefano. Manca un cantante e caso vuole che, mentre
nel suo studio Mark sta lavorando ad un disco i cui proventi
dovrebbero andare in beneficenza ad una tribù Sioux (avete mai
sentito parlare di questo disco? Io no, e probabilmente neppure i
Sioux), passi da quelle parti Danny Vaughn, orfano dei Tyketto e anche
lui sulla lista dei disoccupati. A Danny, il discorso Flesh &
Blood non può che interessare, visti i suoi trascorsi e futuri
lavori, così la nuova band registra un disco e si prepara anche ad
andare in tour, quando Danny molla tutto per tornare – solo
temporaneamente – con i Tyketto, ed il vascello Flesh & Blood si
arena appena dopo il varo. Abbiamo perso molto? Dipende dai punti di vista. Il
fatto è, che non puoi improvvisarti bluesman dalla sera alla mattina,
e Mark Mangold, col blues pareva proprio che non avesse mai avuto
niente a che farci, prima di questo disco. Non che sia un brutto
disco, assolutamente. È suonato da Dio, interpretato da Danny Vaughn
con la consueta classe ed un’aggressività che non sentiremo mai sui
suoi album solisti, ben prodotto. Cosa gli manca, allora? Le canzoni,
gli mancano. Mark e compagnia, difatti, più che comporre,
saccheggiano. Nessuno chiede l’originalità assoluta su quella
matrice, ma, giusto per fare qualche nome, i Mr. Big, Neal Schon, Jeff
Healey (per non parlare dei Metallica) stanno dimostrando in quello
stesso periodo storico come si possa fare hard blues senza rubare
niente a nessuno, in qualche caso perfino innovando. Se Mark Mangold
non prende questa rotta, credo ciò avvenga non tanto per cattiva
volontà, ma proprio perché non ne sia capace, la sua carriera si è
consumata tutta tra il pomp e l’AOR, e questa navigazione in terre
per lui sconosciute non lo spinge certo in posti poco o nulla battuti.
E, comunque, questa è una band messa assieme con il cervello, non con
il cuore, una proposta mirata ad un certo mercato che a quell’epoca
pareva rispondere bene ad opere che, più che dire qualcosa di nuovo
in campo rock blues, si limitavano a celebrare e riproporre la solita
minestra. E Mark non si fa problemi a prelevare ingredienti qui e là
per dare sapore alla propria zuppa, che risulta comunque stuzzicante,
ma dal gusto talvolta fin troppo noto, così che potremmo quasi
definire i Flesh & Blood come i Ten dell’hard blues… Ma, come
la pietanza servita dai Ten risulta prelibata a meno di non essere
troppo schizzinosi, così quanto ci viene proposto dai Flesh &
Blood è, per gli appassionati del genere, particolarmente appetibile,
anche se bisogna fare un notevole sforzo di volontà per passare sopra
il fatto che “Judgment day” è una
fotocopia spudorata della “Till the day I die” degli Whitesnake,
che “Jenny doesn’t live here anymore”
(la più vicina alle atmosfere dei Tyketto, epoca ‘Strenght
in numbers’) ha un refrain sfacciatamente simile a quello
della “Rocket man” di Elton John, mentre “Riverside”
sembra uno di quei blues di Robert Johnson che i Cream rifacevano in
chiave elettrica sui loro dischi. Anche “Voodoo
man” (blues acustico dall’atmosfera un po’ western)
dichiara una precisa discendenza (i Tangier di “Takes just a little
time”), mentre “Feel the power” e
“Shake ya tail feather” sono hard
rock settantiani, il primo decisamente funk, il secondo più orientato
al rhythm and blues. “Bed of roses” e
“Man enough” sono impostate su
atmosfere southern (bello l’assolo slide di Pitrelli sulla prima)
tipiche dei Black Crowes, mentre “Boogie chile”
pesca nel rifferama dei ZZ Top, con un formidabile assolo di piano
boogie di Mark Mangold. “I know where you been”
sono i Bad Company cucinati in salsa southern, la misteriosa “Sweet
sister rose” si riaggancia di nuovo a Black Crowes ed ai
vecchi Whitesnake, con qualche spunto soul nel finale, come “Blues
for daze (Mr. blue)”, che mette nel calderone anche Jeff
Healey, i Dirty White Boy ed i Little Caesar. ‘Blues for daze’
uscì nel 1997 per la Now & Then, dunque non è affatto facile
trovarlo, e se ci riuscite vi chiederanno come minimo una trentina di
dollari. Lo consiglio perciò solo agli irriducibili seguaci
dell’hard blues e in particolare ai fan di Danny Vaughn, che lungo
tutto l’arco del disco offre delle performances strepitose, molto
più convincenti ed entusiasmanti di quelle che ci darà nei dischi a
suo nome.
JEFF HEALEY BAND
FEEL THIS
(1992)
Jeff Healey è stato l’ultimo
rappresentante di una categoria particolare e un tempo foltissima:
quella del bluesman cieco. Se andiamo a scorrere l’elenco dei vecchi
bluesman neri, troviamo una caterva di musicisti che avevano come
soprannome blind: Blind Boy Fuller, Blind Blake, Blind Lemon
Jefferson, Blind Willie Johnson, Blind Willie McTell, Blind Gary Davis
eccetera, per non parlare di quelli che neppure si degnavano di
adottarlo pur essendo ciechi, come Sleepy John Estes. Non erano sempre
la miseria, la malnutrizione e le cure mediche scadenti a produrre tanti
non vedenti. Di Blind Boy Fuller, per esempio, si dice che fu accecato
con l’acido da una ragazza gelosa. Storie di blues… Quel blues che, a
partire dagli anni 50, i neri non volevano più ascoltare e che avrebbe
rischiato seriamente di morire, abandoned and alone come
cantavano i Bad Company, se non fosse stato per il rock, il suo figlio
bastardo e spesso ingrato. È dagli anni 60 che il pubblico del blues è
quasi esclusivamente bianco. Al giorno d’oggi, i neri del blues sanno
poco o nulla: ascoltano il soul, il rhythm & blues, il rap. Se chiedete
ad un nero americano chi sono Robert Johnson o Muddy Waters, nove su
dieci non saprà rispondervi. Per la popolazione afroamericana degli USA,
il blues è lettera morta. I musicisti neri, dagli anni 60 in poi, hanno
suonato esclusivamente per i bianchi, ed i musicisti bianchi hanno preso
lentamente il loro posto, hanno fatto propria quella musica. Un ruolo
importantissimo lo ebbero gli inglesi, che si innamorarono del blues ed
andarono a riscoprire artisti che per gli americani erano diventati solo
un ricordo sbiadito e prossimo ad estinguersi oppure semplici glorie da
celebrare. John Mayal, i Rolling Stones, i Cream, gli Yardbirds, i Led
Zeppelin, Jeff Beck, i Savoy Brown, i Free ed i Bad Company hanno
reinventato il rock attraverso il blues, riesportandolo negli USA e
restituendogli quella vitalità che dopo appena una decina d’anni dalla
sua nascita sembrava già perduta. E molti musicisti blues si sono
riappropriati del rock, al punto che è difficile stabilire se suonino
l’uno o l’altro, come nel caso di Jeff Healey.
Jeff Healey perse la vista ad appena
otto mesi, a causa di una rara forma di cancro alla retina che costrinse
i medici ad amputargli i globi oculari. Come tanti bluesman prima di
lui, fu praticamente un autodidatta, cominciò a suonare la chitarra a
tre anni, sviluppando quella tecnica particolare, seduto con lo
strumento tenuto piatto sulle ginocchia, tipica dei chitarristi country
che suonano la lap steel secondo la tecnica slide (una posizione che
viene detta anche, se non vado errato, “Hawaiana”). Scoperto nientemeno
che da Stevie Ray Vaughan mentre suonava in un locale di Toronto,
ottenne il contratto discografico con l’Arista nel 1988. Nonostante il
suo primo amore fosse stato il jazz, Jeff portò subito il suo blues in
territori prettamente hard rock, conquistando rinomanza e successo anche
fuori dal circuito specializzato, diventando quasi una rockstar, almeno
per un paio d’anni. Le fortune commerciali del suo primo album, difatti,
non vennero replicate dai dischi successivi, nonostante Jeff si
spostasse verso sonorità ed atmosfere sempre più hard rock, che in
teoria avrebbero dovuto renderlo ancora più gradito al pubblico
mainstream. ‘Feel this’ è sicuramente il
suo disco più hard rocking, quello meno calcolato per l’audience blues e
probabilmente più godibile in assoluto dal fruitore abituale del rock
melodico, non tanto distante da ciò che in quel periodo facevano bands
come Bad Company, Dirty White Boy, Aerosmith, Tattoo Rodeo. La presenza
tra gli ospiti di Jimi Jamison e tra i songwriters di Stevie Salas
testimoniava ulteriormente una precisa volontà di Jeff Healey di
abbordare la vasta audience del class rock, che non avrebbe dovuto
rimanere indifferente ad un prodotto di notevolissima caratura, fatto di
ben quattordici canzoni di robusto rock blues dalle mille sfaccettature,
con il plus di arrangiamenti dilatati dalle tastiere, produzione
impeccabile ed un sound spettacolare. Se “Baby’s
lookin’ hot” e “Live and love”
seguono coordinate bluesy abbastanza tradizionali (la prima serrata e
pigra nello stesso tempo, la seconda con sfumature hard e soul), “Cruel
little number” impasta rock blues e AOR in un tessuto ruvido e
vellutato assieme, mentre “House that love built”
(ruggente e fascinosa, scritta da Tito Larriva dei Cruzados e reincisa
dalla sua nuova band, Tito & Tarantula, per la colonna sonora del film
di Robert Rodriguez “Dal tramonto all’alba”) e “Evil
and here to stay” (un mid tempo lento e martellante, con una
slide incandescente) sono schegge di puro hard rock blues. “My
kinda lover” è una track impetuosa che segue abbastanza da presso
le tracce dei Bad Company anni 80, mentre “Heart of an
angel” insegue il fantasma dei Tangier, “If
you can’t feel anything else” è un funk abrasivo dove Jeff duetta
con il rapper Jr. John e spara un ruvido assolo Hendrixiano. “It
could all get blown away” sembra venire dritta dalla colonna
sonora di un film western: immensa. “Joined at the
heart” è semplicemente fantastica, come un Carlos Santana più
aggressivo e rockeggiante. Le ballad pure spaziano tra atmosfere
piuttosto varie, dalla cover di Tom Petty, “Lost
in your eyes”, a “Leave the light on”,
sensibile ed intensa, con forti venature soul nel refrain, all’AOR di “You’re
coming home”, alla conclusiva “Dreams of
love”, delicata, misteriosa, suadente ma chiusa da un inaspettato
sovrapporsi di tempestosi assoli elettrici.
Dopo questo album, Jeff praticamente
decide di tornare al suo primo amore, il jazz, riprendendo il discorso
blues solo nel 2008 con ‘Mess of blues’,
uscito però postumo, dato che un mese prima della pubblicazione del
disco, il due marzo, ad appena 41 anni, Jeff Healey lascia questo mondo
per un cancro ai polmoni. Ci mancherà quel suo vocione profondo e
nasale, quella chitarra che sapeva carezzare e graffiare nella stessa
misura. È un altro grandissimo passato nell’elenco di quelli che non ci
sono più, e da quel due marzo del 2008 siamo tutti più poveri.
DEEP PURPLE
BURN
(1974)
Immaginate di essere un giovane uomo,
poco più che ventenne, in cerca di fortuna nella Londra dei primi anni
’70. Siete venuto lì con il sogno di diventare un cantante, perché avete
una gran voce, ma a Londra, ed in tutta la Gran Bretagna, quel sogno è
condiviso da una buona percentuale della popolazione under 30, così che
avete trovato una concorrenza feroce e difficoltà inenarrabili per farvi
notare. Siete riusciti a rimediare un posto in una band da pub e per le
vostre esibizioni è già tanto se vi pagano con una pinta di birra, e
sbarcate il lunario lavorando come commesso in una profumeria.
Prospettive a breve e medio e lungo termine: zero. Ma un giorno, vi
capita tra le mani una copia del New Musical Express, ed i vostri occhi
cadono su un annuncio, anonimo e neppure particolarmente vistoso. Una
non meglio identificata “band con contratto discografico” sta cercando
un nuovo cantante, chi è interessato a sostenere un provino può
presentarsi a questo indirizzo eccetera. Voi non avete niente da
perdere, salvo un pomeriggio di paga dietro il bancone della profumeria.
Ci andate, qualcuno vi dà un microfono e vi chiede di cantare qualcosa.
Lo fate, alla fine qualcun altro vi dice il solito: ti faremo sapere.
Voi guardate la fila di gente che aspetta di prendere il microfono che
hanno dato prima a voi, scuotete la testa e andate via. Passa un po’ di
tempo, e un giorno il vostro telefono squilla e una voce vi dice che il
provino è andato bene e che siete stato assunto. Voi allora chiedete in
quale band. La voce risponde: – I Deep Purple.
Voi, naturalmente, vi chiamate David
Coverdale.
Provate a immaginarvi al posto suo: come
avreste reagito? La leggenda vuole che l’ormai ex commesso di
profumeria, quando seppe di essere diventato il nuovo cantante di una
band multimilionaria che veleggiava già ai confini della leggenda, ebbe
una vera e propria crisi isterica da panico. Ma il timore reverenziale
durò pochissimo. L’occasione era arrivata, ed era un’occasione d’oro, e
David Coverdale non era certamente tipo da tirarsi indietro, anche se
forse un’altra mazzata gli arrivò quando seppe che avrebbe dovuto
condividere le parti vocali con Glenn Hughes, l’ex singer e bassista dei
Trapeze, già noto come uno dei migliori cantanti che la scena hard rock
inglese avesse partorito fino a quel momento. Perché poi i Purple non
avessero semplicemente deciso di affidarsi in toto all’ugola di Glenn,
resta un mistero che ancora oggi non è stato svelato: ragioni di
immagine? Eravamo in cinque e cinque dobbiamo rimanere? Chissà.
L’addio di Ian Gillan e Roger Glover
aveva lasciato la band nelle peste. Non era tanto una questione di
continuare in qualche modo con un paio di nuovi membri. Tutta la
carriera della line up Mark II era stata un’altalena sconcertante di
dischi strepitosi e altri fiacchi e monotoni. I ritmi che le case
discografiche imponevano a quei tempi agli artisti li obbligavano a
comporre in maniera forsennata, d’accordo, ma la differenza di spessore
tra ‘In rock’ e ‘Machine
head’ da un lato e ‘Fireball’ e ‘Who
do you think we are’ dall’altro autorizzava dubbi e sospetti
sulla tenuta di una band che pareva arrivata già alla frutta. Ci voleva
qualcosa di nuovo, energia e sangue giovane, e Blackmoore accettò la
sfida… oppure la subì? Il novellino Coverdale arrivò con la sua passione
per il blues ed il rhythm and blues, Glenn Hughes portò quella per il
funky ed il soul, generi che prima i Purple non avevano frequentato con
continuità e, sopratutto, convinzione. I nuovi arrivati presero il
timone della barca e le fecero prendere una rotta che al Man In Black
dovette procurare interminabili accessi di mal di mare se dopo appena
due anni anche lui sbarcò dal vascello per farsi (finalmente) una nave
tutta sua, di cui fosse comandante ed armatore, quei Rainbow che dopo un
primo album sognante, morbidone ed Hendrixiano, servirono a Ritchie per
sfogare tutto il suo segreto (fino a quel momento, almeno) amore per i
Led Zeppelin. Mi ha sempre stupito che la critica abbia passato sotto
silenzio quanto di zeppeliniano c’era in ‘Rising’
e ‘Long live rock ‘n’ roll’: il riff alla
“Immigrant song” che apre “Tarot woman”, quella replica in tono minore a
“Kashmir” che fu “Stargazer”, e poi ancora il riff stile “The wanton
song” di “Lady of the lake”, le citazioni di “Stairway to heaven” che
marezzano “Rainbow eyes”, le architetture alla “Trampled under foot” di
“L. A. Connection”, l’intro di “Shed (The subtle)”… Ma stiamo correndo
troppo, ci troviamo ancora nel 1973, e la band rinnovata è di nuovo in
studio con il solito Martin Birch dietro il mixer, al lavoro su un disco
che rigeneri un monicker già spompato.
Arrivato qui, prima di cominciare a
raccontarvi questo primo album della line up Mark III, debbo per onestà
ammettere che non sono mai stato un grande fan di Ian
Gillan. Non mi piace granché la sua voce acida, e neppure i testi
strambi che scrive per le sue canzoni. Se in quel 1973 non avessi avuto
appena sei anni e la minima idea che esisteva una rock band chiamata
Deep Purple, probabilmente avrei salutato la dipartita di Gillan senza
il minimo rimpianto. Se poi avete letto i miei pezzi sugli Whitesnake,
sapete già che David Coverdale è in assoluto il mio cantante preferito.
Questo potrebbe rendermi giudice poco imparziale di un album che ha
relativamente poco in comune con i capisaldi ‘In
rock’ e ‘Machine head’. Il fatto è,
che oggi si tende a dimenticare che i Deep Purple non sono stati
soltanto quelli della line up Mark II. È la stessa cosa successa con i
Black Sabbath, che pare quasi non abbiano prodotto nulla dopo la
separazione da Ozzy prima e R.J. Dio poi, e dischi notevoli come ‘Eternal
idol’, ‘The headless cross’, ‘Cross
purposes’ è come se non fossero mai esistiti. Il fatto che i
Purple entrati nella leggenda dell’hard rock siano quelli della line up
Mark II non autorizza a cacciare nell’oblio tutto quanto è stato fatto
prima o dopo l’avvento di quello che viene considerato, mutuando il
termine dal basket, il quintetto base.
Registrato ancora a Montreaux, in
Svizzera, con il solito Rolling Stone Mobile Studio, ‘Burn’
è aperto dalla leggendaria title track, con quel riff sfrigolante e
stracopiato e la nota inedita del ruggito di un David Coverdale ancora
implume che si alterna con la voce acuta eppure robusta di Glenn Hughes.
Ritchie non rinuncia ad inserire nel suo assolo quelle terzine alla Bach
che erano diventate un suo marchio di fabbrica (e che tanti danni faranno
nella mente di un giovane svedese di nome Yngwee Malmsteen…), ma anche
la parte solista di Jon Lord, divisa stavolta tra l’Hammond ed il Moog,
contiene figurazioni classicheggianti. Altra atmosfera su “Might
Just Take Your Life”, caratterizzata dal riff chitarra / tastiere
ed il sapore spiccatamente blues (ma questa canzone a me è sempre
sembrata una sorta di alternate version di “My woman from Tokyo”). “Lay
Down, Stay Down” è un vero e proprio hard rhythm and blues, ma
con “Sail Away” si entra di nuovo nella
leggenda, un mid tempo lento ed implacabile, caratterizzato da una
melodia romantica e zingaresca che anticipa quanto Ritchie farà poi con
i Rainbow, e sulla stessa falsariga si muove "You
Fool No One", più svelta, urgente ed un po’ funky. E poi blues e
ancora blues su "What's Goin' On Here",
dove Jon Lord lascia l’Hammond per sedersi al piano. L’assolo di Ritchie
è un po’ legnoso, quasi non del tutto convinto, mentre quello di
Jon è invece limpido e divertito. “Mistreated”
è lunga, sofferta, epica e romantica, una delle poche cose dei Purple
che Blackmoore porterà con sé negli show dei Rainbow e David Coverdale
in quelli degli Whitesnake (e la versione che David registrerà con la
sua band sul ‘Live… in the heart of the city’
è decisamente superiore a questa dal punto di vista della performance
vocale). Chiude lo strumentale “A 200”, che
potrebbe definirsi una sorta di appendice a “Child in time”, impostato
prevalentemente sulle tastiere. In definitiva: i Deep Purple non sono
diventati i Bad Company o i Savoy Brown, la vena blues è solo questo,
una vena, una flavour che si apprezza nitidamente senza divenire
soverchiante.
Nella versione pubblicata in occasione
del trentennale dell’album, nel 2004, vennero aggiunte cinque bonus
tracks: "Coronarias Redig", che era la B
side di “Might Just Take Your Life” e non
era mai finita su disco in precedenza (si tratta di un fascinoso
strumentale in cui Ritchie accenna quello che diventerà due anni dopo il
tema melodico di "Catch the rainbow"), e le versioni rimixate di “Burn”,
“Mistreated”, “You
fool no one” e “Sail away”,
caratterizzate da una qualità audio decisamente superiore rispetto alle
versioni solo rimasterizzate (perché poi non abbiano rimixato tutto
l’album ma si siano limitati solo a queste quattro canzoni, solo Dio lo
sa). Qui, viene poi finalmente accreditato come songwriter anche Glenn
Hughes: nel 1974, il suo nome non aveva potuto comparire tra gli autori
delle canzoni assieme agli altri, per questioni contrattuali, anche se
Glenn aveva firmato sette pezzi sugli otto che compongono il disco.
I buoni riscontri di pubblico e critica
rendono la neonata coppia Coverdale / Hughes sempre più leader, al punto
che su ‘Stormbringer’, Ritchie sembra
ridotto a fare il session man, limitandosi a suonare quanto i nuovi
arrivati mettono a sua disposizione. Se quest’ultimo disco va
discretamente bene negli USA (diventa d’oro già ai primi del 1975, come
il suo predecessore), in Gran Bretagna arriva sì e no a vendere 60000
copie. Blackmoore ne ha abbastanza: se ne va, “sequestra” gli Elf (suoi
dipendenti, dato che incidevano per la Purple Records) e li fa diventare
la sua support band (dopo aver licenziato il chitarrista, of course),
i Rainbow, ritrovandosi però subito immischiato in un’altra lotta per la
leadership con il suo nuovo cantante, Ronnie James Dio. I Purple
continuano ad esistere per un altro album, ‘Come
and taste the band’, con il bravo Tommy Bolin alle chitarre, ma
il pubblico non risponde all’invito di venire ad assaggiare la band,
questi Deep Purple senza Blackmoore sembrano uno scherzo di natura,
arriva lo scioglimento ed i reduci che si sparpagliano, David Coverdale
con Jon Lord e Ian Paice negli Whitesnake, Glenn Hughes che affonda
nella palude della droga, Tommy Bolin passato a miglior vita per un
overdose, Blackmoore con i suoi Rainbow che, passata la sbornia
zeppeliniana e licenziato l’ormai troppo invadente Ronnie James Dio, va
senza troppo successo a caccia di fortuna negli USA con Graham Bonnet
prima e Joe Lynn Turner dopo, Ian Gillan a vagolare tra l’hard rock ed
il prog prima di unirsi per un solo album ai Black Sabbath (il
sottovalutato ‘Born again’).
La reunion del 1984 ha un senso, per me,
solo in quanto rappresenta il necessario preludio alla line up Mark V,
quella che ha inciso il favoloso ‘Slaves
and masters’: una sorta di prequel per il miglior
prodotto dei Purple anni 80, a cui rimando – vi basta seguire il link –
se volete conoscere o ripassarvi il resto della storia.
THE FOUR HORSEMEN
NOBODY SAID IT WAS EASY
(1991)
Quando ho recensito il primo album dei
McQueen Street, ho sottolineato la differenza che – a mio sommesso e
sempre opinabile parere – esiste tra le bands cosiddette minori e quelle
inutili o superflue. I McQueen Street, come ho già scritto, mi sembrano
un ottimo esempio di band minore. Ma quali sono le band inutili? Così,
d’istinto, mi vengono subito in mente tre monickers: Circus Of Power,
Almighty e The Four Horsemen. Se c’è stato però sempre un certo accordo
sulla completa inutilità delle prime due bands, non altrettanto è
accaduto per i The Four Horsemen, di cui qualche critico lodò oltre
misura il primo album, ‘Nobody said it was easy’.
Su quali basi si innalzavano queste lodi? Cosa c’era, in concreto, di
lodevole qui dentro? Per i critici in questione, due erano gli elementi
cardine che rendevano il disco dei The Four Horsemen un ascolto
imprescindibile: 1) la capacità della band di clonare gli AC/DC; 2) la
produzione scarna e old fashioned di Rick Rubin.
Quando scrivo “clonare” non sto usando
un eufemismo: i The Four Horsemen sembravano non volere altro che
essere gli AC/DC. Delle dodici canzoni di questo loro album
d’esordio, almeno nove erano impostate sulle coordinate care alla band
di Angus Young, senza alcuna impronta personale. Ora: considerato che
gli AC/DC, praticamente dai tempi di ‘Back in
black’ – già lontanissimi all’epoca in cui ‘Nobody
said it was easy’ uscì – non riescono a mettere assieme un disco
che sia possibile ascoltare dal principio alla fine senza addormentarsi
o ritrovarsi con i coglioni gonfi come cocomeri, che quel loro sound
basato su tre accordi scarsi, una voce stridula ed isterica ed il tum
tum sempre uguale della batteria, tutto sommato funziona ed ha sempre
funzionato bene solo dal vivo, dove le luci, il volume ed i balletti di
Angus distraggono adeguatamente l’ascoltatore e molto opportunamente si
eseguono solo i classici del repertorio, valutato tutto questo, insomma,
ci si può legittimamente chiedere quali ambizioni potessero nutrire i
The Four Horsemen proponendo questo genere di materiale ad un audience
che quel tipo di sound, comunque, lo accetta nella sua forma canonica
solo da Angus e soci. Non c’era la volontà di mettersi a fare
concorrenza ai Kix o ai Dirty Looks, che mediavano sapientemente quel
sound con la melodia, era solo una stanca, noiosa, irritante
riproposizione di stilemi rimasticati fino alla nausea, fuori tempo e
fuori luogo. Ogni tanto i The Four Horsemen ci mettevano qualcosa di più
in questo insipido minestrone, un assolo bluesy, un ritornello meno
scemo degli altri, ma in genere si scivolava sempre in un’essenzialità
tediosa che almeno in un caso sconfinava nella pura e semplice presa per
il sedere (“Wanted man”). A voler essere
buoni a tutti i costi, si potrebbe supporre che i The Four Horsemen
facevano solo quello che sapevano fare, un paio di accordi e giù a
urlare a squarciagola, ma “Homesick blues”,
“Tired wings” e “I
need a thrill – Somethin’ good” sono lì a smentire questa
benevola ipotesi. La prima è un bell’hard bluesy, le altre due sono
power ballad dal clima southern, veramente ispirate e convincenti, con
il singer Frank Starr che la smette di latrare come un castrato che
stiano sodomizzando con un ferro rovente e canta (molto bene) da essere
umano. Se erano capaci di fare cose del genere, perché allora ci hanno
rotto le palle con altre nove canzoni tanto rozze, primitive, ignoranti
e superate? Cosa volevano dimostrare e a chi? Si potrebbe puntare
l’indice su Rick Rubin, che è notoriamente affezionato ad uno stile di
produzione tutt’altro che sofisticato, e certo qualche responsabilità
deve averla avuta anche lui, ma le canzoni non le scrive il produttore,
si limita a dar loro una forma, e se questo era il materiale che i The
Four Horsemen avevano messo a sua disposizione… E allora? Opportunismo?
Ma c’era davvero qualcuno in giro, nell’America del 1991, che voleva
ascoltare questa roba ed era pronto a pagare per averla? Se
questa era la speranza della band andò delusa, dato che il disco non se
lo filò nessuno (ma fruttò due singoli di discreto successo), e loro,
dopo una serie di problemi e tragedie (Frank Starr che entrava e usciva
di galera per brutte storie di droga, la morte per OD del drummer Ken
Montgomery, la morte di Starr dopo tre anni di coma in seguito ad un
incidente) si sciolsero senza che nessuno ci facesse caso. |