IL CICLONE GRETA VAN FLEET
Sembra sia nata una nuova querelle, che ha nome “Greta Van Fleet”. Chi li osanna, chi li schifa… Se leggete (come dovreste) Classix, avete trovato sul numero attualmente in edicola un salomonico approccio alla questione nella forma di due recensioni del loro primo album: una moderatamente positiva e l’altra negativa al limite della stroncatura senza attenuanti. Il perché di tutto questo movimento attorno ai Greta Van Fleet è presto detto: l’album in discorso è entrato di forza nella Billboard 200, raggiungendo la posizione numero 3, e la band è candidata alla bellezza di quattro Grammy. Riassumendo, le posizioni dei due partiti – pro e contro – nella querelle, sono più o meno queste: i detrattori li liquidano come gli ennesimi cloni dei Led Zeppelin, niente più che inverecondi scopiazzatori senza idee; i favorevoli, pur ammettendo la scarsa originalità, sostengono che avendo piazzato un album rock nei piani alti di Billboard, scavalcando rapper e pop star prefabbricate dai talent show, dobbiamo coccolarceli comunque, sperando che possano suonare la riscossa della musica che amiamo infiammando il grande pubblico americano, da molti anni allergico a farsi prendere dal rock classico proposto da tutti quelli che non possono essere catalogati come mostri sacri del genere. Chi ha ragione? Le scopiazzature invereconde sono innegabili. Per quanto riguarda il successo della band, ci andrei cauto, perché non mi sembra che ne abbiano ottenuto proprio a vagoni. Attualmente (metà gennaio 2019) l’album si trova al numero 189 della Billboard 200, e le vendite totali negli USA dovrebbero assommare a poco più di 100.000 copie. Su Facebook hanno circa 430.000 like: è più del doppio di quelli che possono vantare i Rival Sons (band “giovane” a cui sovente si rivolgono coloro che vanno disperatamente in cerca di “salvatori del rock classico”), ma impallidisce di fronte a quelli delle superstar della musica da alta classifica (gli Imagine Dragons hanno 13 milioni e mezzo di like; il rapper Post Malone, 2.834.593 like; 21 Savage, altro rapper dei quartieri alti della chart, ne ha 1.268.917, e le vendite degli album vanno in proporzione). Insomma, non mi pare che il movimento attorno a loro – escludendo il clamore mediatico astutamente orchestrato dalla label (la major Atlantic) – giustifichi tanto ambaradan su questo gruppo di ragazzini. La proposta è ordinaria e scontata, allineata perfettamente a quanto il rachitico mercato del rock classico propone ormai da anni, e si distingue solo per la scoperta volontà di clonazione del suono zeppeliniano, clonazione resa più facile da un cantante che suona come un perfetto imitatore di Robert Plant. Resta il mistero: perché proprio loro? Perché gli yankee non hanno spedito in cima alla Billboard 200 un’altra band di quelle che si affannano a scopiazzare il rock di quarant’anni fa? Secondo me, perché gli altri scopiazzatori non hanno avuto abbastanza coraggio nel ricalcare. Se i Greta Van Fleet hanno ottenuto quel moderato successo, ciò è avvenuto proprio per la loro natura di band-controfigura o cover band truccata, definiteli come preferite. E questo non è sicuramente un segnale positivo per le sorti del rock classico, tutt’altro: anziché rivolgersi a chi cerca di fare del nuovo in quell’ambito, il pubblico premia le scopiazzature, i copia & incolla, chi viene a suonargli sempre la stessa canzone. E non è la prima volta che accade: dieci anni fa furono i Wolfmother a scatenare un ciclone nelle chart americane, e sempre scimmiottando i Led Zeppelin; qualche anno prima, i Darkness fecero il botto proponendosi come controfigure dei Queen. Forse dobbiamo rassegnarci all’idea che tutto quanto è rock classico si è ormai cristallizzato, ed è incapace di evolversi in qualunque direzione ricevendo i favori del pubblico. Che non spunteranno mai all’orizzonte i nuovi Rolling Stones, i nuovi Cream o i nuovi Led Zeppelin, semplicemente perché non servono, perché il pubblico non saprebbe che farsene. Alla fine della fiera, il problema non è riportare nelle classifiche il rock classico, ma il rock e basta. Un simbolo eloquente dello stato di crisi lo possiamo cogliere nel flop sulle chart dell’ultimo album dei Black Stone Cherry, ‘Family Tree’: quel disco aveva tutto quanto poteva servire a riattizzare l’interesse del pubblico per il genere, ponendosi al crocevia di vecchio e nuovo con una classe stratosferica, ma è salito solo fino al numero 106 della Billboard 200, con vendite credo nell’ordine delle decine di migliaia di copie: era qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso e il pubblico lo ha bocciato proprio per questo motivo. Io non mi preoccupo per la sopravvivenza del rock classico, ma per quella del rock tout court: quando anche superstar come Alter Bridge e Nickelback accusano paurosi cali di vendite (l’ultimo Nickelback, ‘Feed The Machine’, ha venduto la miseria di 110.000 copie negli USA), quando band emergenti come gli Halestorm piazzano ogni album sempre più in basso nelle chart (‘Vicious’ ha venduto nella prima settimana esattamente la metà delle copie dell’album precedente) diventa chiaro che tutto quanto è “rock” sta seriamente rischiando di svanire dall’orizzonte. La mia opinione su questo fenomeno la potete leggere nel pezzo sulla morte del rock (seguite il link), e questo exploit dei Greta Van Fleet non mi sembra che possa cambiare in qualche modo le carte in tavola, perché non è con i revival che si fa la storia.
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