RECENSIONI IN BREVE
AORARCHIVIA |
TESLA
"Simplicity" |
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Per questo
nuovo album dei Tesla, il webmaster consiglia la seguente
strategia d’ascolto: cominciare dal brano numero uno, poi
saltare quelli dal due al cinque e riprendere dalla canzone
numero sei per proseguire fino alla fine. Le canzoni escluse
sono prive di mordente e di idee, sterili esercitazioni di sound
che non portano da nessuna parte, e comprendono per giunta un
nauseabondo lamento grunge (“Honestly”),
fuori tempo e fuori luogo. Il resto è discreto ma non in grado
di riportare Frank Hannon e soci ai fasti dei primi due album:
sono i soliti Tesla che mescolano con disinvoltura metal
classico e moderno, blues e classic rock, ma l’ispirazione non è
quella dei tempi migliori, e teniamo conto che la china
discendente questa band l’ha presa fin dai tempi del sonnolento
‘Bust a nut’. Come altri reduci dei
Big 80s, i Tesla ormai non hanno sostanzialmente più nulla da
dire e procedono per pura inerzia, contando sulla devozione dei
fans ed il prestigio accumulato dal moniker: ‘Simplicity’
è senza dubbio superiore a tanta immondezza contemporanea, ma la
freschezza, il piglio e l’estro di ‘Mechanical
resonace’ e ‘The great radio
controversy’ sono irrimediabilmente (temo) lontani.
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Frontiers - 2014 |
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AORARCHIVIA |
ROCKABYE "Rockabye" |
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Nel 1988 la
differenza tra un lavoro inciso per una major ed uno pubblicato
da un’etichetta indipendente era quasi sempre palese, e
quest’unica testimonianza lasciataci dai Rockabye può essere
presa come simbolo di un certo genere di prodotto discografico
di fine anni ’80. La qualità audio è buona, la band è
competente, il songwriting vaga nei meandri del risaputo con
qualche guizzo che parla di una voglia di osare ma anche di una
mancanza di mezzi (in termini di tempo e/o soldi) che taglia le
gambe a qualunque tentativo di architettare davvero qualcosa di
diverso nell’ambito del genere scelto (metal californiano sulla
scia di Crüe, Ratt, Keel, Vinnie Vincent Invasion e compagnia).
Avessero avuto a disposizione uno studio da mille dollari al
giorno ed un produttore esperto, i Rockabye avrebbero forse
potuto diventare quello che due anni dopo saranno i Firehouse o
gli Slaughter; confinati al mercato indipendente, sono svaniti
nella nebbia senza che nessuno si accorgesse veramente di loro.
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Epigram - 1988 |
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AORARCHIVIA |
AOR "L.A. Connection" |
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E dalli con
le celebrazioni… ma Frederic Slama è uno che di celebrazioni se
ne intende, dato che con la serie AOR è arrivato alla
tredicesima (!) replica. Non che sia difficile o impegnativo
assemblare questi album, considerato che le dieci canzoni di ‘L.A.
Connection’ sono praticamente tutte uguali: stesso riff,
stesso tempo, stesse timbriche di chitarra e tastiere, è una
specie di interminabile karaoke al servizio dei cantanti e degli
assoli sempre un po’ alla Neil Schon di Slama. I cantanti
cambiano in ogni canzone, e fanno il loro dovere, nei limiti
delle loro possibilità: alcuni sono ormai decisamente giù di
voce (Jeff Paris, Paul Sabu, David Forbes) e sono stati
convocati da Slama giusto perché, essendo dei nomi celebri,
dovrebbero (nella sua fantasia, almeno) dare lustro al prodotto,
altri fanno il loro compitino senza mostrare soverchio
entusiasmo (i coniugi Champlin, in particolare Tamara), altri
ancora ci danno dentro discretamente, ma manca comunque la
sostanza in cui affondare i denti, la base è inconsistente e
lascia alle voci il compito di caratterizzare un po’ i brani, un
gioco che riesce parzialmente e solo quando dietro il microfono
stanno personaggi come Sabu o Jeff Paris che hanno uno stile
vocale inconfondibile (anche se le performance offerte non sono
certo quelle dei tempi d’oro). La noia, alla fine, regna sovrana
e la voglia di assaggiare ancora questo insipido pappone (leggi:
riascoltare l’album) è, ovviamente, zero.
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Escape - 2014 |
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AORARCHIVIA |
MITCH PERRY PROJECTS "Mitch Perry Projects" |
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Più volte
ristampata, pubblicata in origine con un titolo diverso (‘Better
Late Than Never’), questa antologia documenta due
progetti del chitarrista Mitch Perry: i Badd Boyz (un album
all’attivo, pubblicato solo in Giappone nel 1993) ed i 7%
Solution (band rimasta inedita fino alla pubblicazione di
quest’album). Le canzoni sotto il moniker Badd Boyz erano
affidate a Paul Shortino, mentre il cantante dei 7% Solution era
Ralph Saenz (L.A. Guns), e questi due nomi già bastano a
distinguere le proposte: i Badd Boyz erano difatti una splendida
band di metal melodico californiano, i 7% Solution praticavano
più volentieri un hard rock metallico dal forte flavour Van
Halen e con un deciso orientamento street rock. Tutte e dieci le
canzoni qui incluse sono comunque eccellenti, forse i pezzi
registrati sotto il moniker 7% Solution sono un po’ più ispirati
(“45 Reasons” ha un andamento pigro
e insinuante che mi ha ricordato piacevolmente la “Do It Again”
degli Steely Dan), ma anche il materiale dei Badd Boyz (mai
ristampato nella sua integrità, il CD giapponese su etichetta
Alpha gira su eBay a più di cento dollari) è di tutto rispetto.
Un’altra piccola meraviglia sbucata dal passato. |
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Z Records - 2005 |
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BOMBAY BLACK "Walk of shame" |
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Di questa
band non si parla abbastanza, eppure sono in giro da diversi
anni, hanno già pubblicato sette album e li ritroviamo
regolarmente nel cartellone di molti festival importanti, sia in
USA che in Europa. Il loro suono ha le sue radici nel metal
californiano, ma sa farsi garbatamente moderno (il riff
zompettante di “America’s Sweetheart”,
le chitarre stoppate di “Come Over Here”)
concedendosi spesso a melodie di stampo Cheap Trick ma con
notevole eclettismo, così che “Living On
Mars” è una power ballad di cui i Bon Jovi avrebbero
potuto andare fieri, “Haunting L.A.”
sembra uscita da uno degli ultimi lavori degli Winger e si
sentono distintamente i Nickelback nella melodia di “Sucker”.
Insomma, ‘Walk of shame’ è un album
vario, stuzzicante, divertente, che aggiorna i temi sonori che
ci sono cari con intelligenza e ottimo gusto: se il futuro
passasse dalle parti dei Bombay Black, personalmente non avrei
nulla da obiettare.
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Triage Music - 2014 |
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AORARCHIVIA |
X-DRIVE "Get
Your Rock On" |
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Mi aspettavo
chissà che da quest’album, ma le attese sono state in gran parte
deluse. Il songwriting è opaco ed il chitarrismo del leader
Jeremy Brunner risulta veramente anonimo, sia in fase ritmica
che solista. Keith St.John ci mette molto del suo, inventandosi
linee melodiche sempre accattivanti ma intessute su una trama
spenta o scontata. Qualche nota lieta viene da “Rattlesnake
Eyes” (molto festaiola), “Just
Can’t Stay” (più vivace, grazie soprattutto ai cambi di
tempo) e dalle ballad, sempre dense di sfumature west coast, ma
nel genere specifico (hard rock metallico e californiano)
quest’anno abbiamo sentito di meglio e di più. In definitiva:
catalogate gli X-Drive alla voce “band inutili” e passate pure
oltre. |
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Frontiers - 2014 |
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AORARCHIVIA |
MARTINA
EDOFF "Martina Edoff" |
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In campo AOR,
era da qualche anno che non veniva fuori una voce così bella e
così ROCK come quella di Martina Edoff, siamo assediati da
soprani leggeri falliti ridotte a riciclarsi nell’AOR o ugole
caramellose, acutissime e chiocce che
dovrebbero cantare solo le sigle dei cartoni animati
(due esempi recenti: Angelica e la front girl dal nome
impossibile degli Adrenaline Rush). La voce di
Martina richiama quella di Robin Beck, è potente, tagliente,
espressiva e sempre a suo agio nelle dieci schegge di questo
esordio che porta il suo nome, impostato su un AOR hard edged
classico e ben assemblato, il songwriting non fa gridare al
miracolo ma è convincente, qualche sfumatura di rock adulto
contemporaneo compare solo e a volte nei tappeti di tastiere,
per il resto si viaggia in territori ben noti a chi bazzica il
nostro genere, con il top nell’AOR blues patinato di “Hero”
e in “Seeds Of Love (Mother Nature Song)”,
fascinosa power ballad policroma che modula il sound ottantiano
degli Heart sul registro del southern rock più sognante. La
qualità audio è in genere sempre buona, ma in due o tre canzoni
spuntano dei rumoracci da distorsione che in una produzione
professionale e curata come questa risultano difficilmente
spiegabili (beninteso: non possono averceli messi a bella posta,
questo non è un album dei Graveyard…). Se amate quelle belle
voci femminili toste e potenti che per misteriosi motivi sono
diventate nel nostro genere sempre più una rara avis, l’ascolto
di questo album è vivamente consigliato. |
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MRM Production - 2014 |
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AORARCHIVIA |
MOONLAND "Moonland" |
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Quello che
davvero colpisce in questo album è la sua quasi perfettà
identità con lavori più o meno recenti di band a conduzione
femminile editi dalla Frontiers: Issa, Angelica, adesso i
Moonland. Produzione sontuosa (di Alessandro Del Vecchio,
naturalmente), base ritmica quasi sempre impostata sui medesimi
tempi, ondate di tastiere e chitarre anonime e inconcludenti,
un’assoluta, disarmante banalità delle linee melodiche intonate
dalla voce pure gradevole di Lenna Kuurmaa. Mi dispiace dover
sottolineare il fatto che è proprio dalla gloriosa Frontiers che
ci arrivano questi lavori fatti con lo stampino, privi di un
minimo di ispirazione, noiosi oltre ogni dire, prodotti
usa-e-getta destinati ad essere ascoltati un paio di volte e poi
accantonati con uno sbadiglio. Che senso ha pubblicare album a
raffica che non solo valgono pochissimo di per sé ma per giunta
si rivelano poi la fotocopia l’uno dell’altro?
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Frontiers - 2014 |
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AORARCHIVIA |
HOUSE OF X "House
of X" |
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Insospettabilmente buono, questo esordio degli House of X. Dato
che nel progetto sono coinvolti diversi vecchi ronzini della
scena metal UK
(Danny Peyronel, Laurence Archer, Clive Edwards, Rocky
Newton), mi aspettavo qualcosa di pericolosamente vicino ai
Saxon (brrr…), invece l’album si muove in prevalenza nei
territori dell’hard rock inglese, spavaldo, potente, variando
spesso registro, tra le ombre bluesy di “Do
Me Wrong”, l’hard n’roll stile macigno di “The
Road Less Troubled”, il riff zeppeliniano di “Long
Arm Of The Law”, la melodia di “Second
Son”, il metal californiano di grana grossa
intitolato “Busted”. Se “Martian
Landscape” è un brutto episodio heavy rock, indeciso se
sbrodolare nel metal stile NWOBHM o nello stoner, “Rage”
si sviluppa invece come uno stumentale un po’ alla Satriani, ben
orchestrato, vivace e accattivante, con un sorprendente finale
slow blues. Il chitarrismo di Laurence Archer è sempre duttile e
stuzzicante e anche se la voce trasandata di Peyronel non mi
piace molto, confermo il giudizio positivo: ‘House
of X’ darà quasi un’ora di piacere a chi ama l’hard
britannico tradizionale, in bilico tra i ’70 e gli ’80,
selvatico ma non rozzo, vigoroso e privo di fronzoli. |
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Escape - 2014 |
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AORARCHIVIA |
DANGER ALLEY "American made" |
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Vi dico
subito che di questa band non so praticamente un beneamato
cazzo, soltanto che ci propongono un album conciso (nove
canzoni, trentaquattro minuti scarsi) e apprezzabile nel suo
replicare con buona efficacia la ricetta sonora degli Autograph
in chiave più elettrica. Naturalmente, per la ballad (“Stay”)
non possono fare a meno di rivolgersi ai Journey e “Catrina”
ruba dieci secondi alla “Jump” dei Van Halen, ma non si esagera
con le citazioni, ci sono un paio di acuti notevoli, la qualità
audio è impeccabile e la produzione adeguata. Il punto debole è
il cantante: è intonato (e bisogna specificarlo, considerato che
ormai qualsiasi montato che si crede la reincarnazione di Elvis
può comprare un ProTools e registrarsi un album che
inevitabilmente cercherà di spacciare come la cosa più eccitante
e cool incisa dai tempi di ‘Escape’)
ma è un po’ scarsino in fatto di tecnica: niente di veramente
drammatico, ma in qualche occasione il fatto che non sia il
gemello vocale di Steve Perry diviene anche troppo evidente.
Comunque, ‘American made’ è un
album ben più che dignitoso, raccomandato in particolare agli
amanti del hard melodico californiano.
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Autoproduzione - 2014 |
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AORARCHIVIA |
UNRULY CHILD "Down the rabbit hole (side one)" |
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Il giocattolo
si è rotto? L’ascolto di ‘Down the Rabbit
Hole (Side One)’ porta inevitabilmente a pensare qualcosa
del genere. Dov’è finito quell’equilibrio mirabile che la band
aveva dimostrato di riuscire a mantere con invidiabile
scioltezza ancora su ‘Worlds Collide’?
In queste sei canzoni la lingua parlata è quella di un prog
leggerino (potrei quasi definirlo “commerciale”): gradevole,
certo; magnificamente prodotto e arrangiato, non si discute. Ma
questo mix di chitarre in prevalenza acustiche, tastiere e
stratificazioni di vocals policrome (con linee melodiche che
passano dagli Yes, ai Def Leppard ai Beatles con la solita,
eccezionale disinvoltura) con l’AOR o l’hard melodico, infine,
ha poco a che fare. Non manca soltanto l’energia, ma la precisa
volontà (in passato, sempre chiara) di fondere e intrecciare
generi diversi. Bruce Gowdy e Guy Allison qui hanno fatto una
scelta precisa, che li riporta indietro fino all’esperienza
World Trade, almeno nello spirito: perché qui la base non è il
rock melodico, ma il prog: levigato e addolcito (annacquato,
diranno i maligni), ma pur sempre prog. Rispetto le scelte della
band, ma – si sarà capito – non trovo il risultato di queste
scelte particolarmente stimolante. Comunque, ne riparleremo
(magari più a fondo) tra qualche mese, quando uscirà la seconda
parte di ‘Down the Rabbit Hole’,
siglata come ‘Side Two’.
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Autoproduzione- 2014 |
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AORARCHIVIA |
ADRIAN GALE "Defiance" |
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Più passa il
tempo, più gli Adrian Gale somigliano (o cercano di somigliare)
ai Def Leppard. C’è qualche intrusione moderna nel riffing, ma
le melodie tessute tramite la voce solista ed i backing vocals
hanno quella inconfondibile matrice. Non i Leppard spettacolari,
quelli bombastic, da arena rock, festaioli e scanzonati.
Il mood è più… melanconico? Forse solo più freddo e un
po’ cupo. Resiste qualche vaga reminiscenza Van Halen qui e là,
ma alla fine la canzone migliore mi pare la conclusiva “Speed”,
all’insegna del più classico metal californiano, con una linea
vocale per niente Joe Elliot inspired. Comunque, un album
interessante. |
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LABEL - 2014 |
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AORARCHIVIA |
ELI "Push
It Hard" |
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Dato che
questo album viene scambiato su eBay a cifre nell’intorno dei
700 $, considerate la seguente review come pura accademia. ‘Push
It Hard’ è un lavoro tutt’altro che imprescindibile, ma
se pure fosse una lost gem di caratura (musicale) equivalente a
quella del Koo-i-Noor, la quotazione lo renderebbe praticabile
solo per collezionisti assatanati (e benestanti). Comincia con
il melodic metal scontato della title track, prosegue con un
party anthem altrettanto scontato, “Long
Tall Baby Doll”, con il refrain ricalcato senza fantasia
su quello di “I Love R’n’R” (divertente comunque), ma prende di
colpo quota grazie a “Head Over Heels”
e poi a “Do You In” e “Love
Somebody”, in cui i ragazzi suonano come dei Warp Drive
meno avventurosi, o degli INXS in versione class metal e senza
una goccia di funk. C’è poi una power ballad drammatica e
pompata (“Never Been Loved”), la
bella sintesi di Ratt e Van Halen intitolata “One
More Drink”, un mid tempo che le tastiere trasformano
quasi in un arena rock (“Gasoline”)
mentre la chiusura è affidata al buon metal californiano “Lonely
in Love”, cromato al punto giusto. Dopo due anni gli Eli
ricomparvero con l’EP ‘Beware Of The Dog’,
anche questo prezzato al giorno d’oggi oltre i limiti di
qualsiasi ragionevole desiderio.
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Era Records - 1990 |
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AORARCHIVIA |
VINCE
O'REGAN "Temptation" |
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Questo primo
(?) album solista di Vince O’Regan (chitarrista di Pulse e
Legion) ha uno strano rendimento altalenante. Comincia benissimo
con le prime due canzoni, si affloscia di brutto con un blocco
di quattro tracks insignificanti, riprende notevolmente quota
tramite gli ultimi quattro pezzi. L’hard melodico di cui è fatto
sembra ispirato in prevalenza dagli ultimi House Of Lords, e
magari dagli Shy dell’album omonimo: spesso solenne, sempre un
po’ enfatico, ma decisamente yankee nello spirito. Dietro il
microfono si alternano vari cantanti, fra cui Paul Sabu ed un
altro ex Pulse, Simon Abbot. La qualità audio è discreta, ma il
mastering è di quelli rumorosi. In definitiva: niente per cui
andare fuori di testa, ma un ascolto lo vale di sicuro.
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NEH Records- 2014 |
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AORARCHIVIA |
IMPERA "Empire of sin" |
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Appena un
anno dopo ‘Pieces of eden’, la band
di J.K. Impera sforna un nuovo album, ‘Empire
of Sin’, che non si discosta molto dal predecessore,
salvo per una certa sterzata heavy metal, sopratutto nelle prime
track in scaletta: mano a mano che l’album procede l’atmosfera
si fa meno rovente, lasciando (fortunatamente) più spazio a
tematiche class ed atmosfere di metal californiano. Si staccano
abbastanza dal resto “End of The World”,
hard melodico dal flavour celtico e la ballad elettrica e bluesy
“Darling”. La resa globale del
prodotto è sopra la media, ma la fruizione viene limitata (come
già per ‘Pieces of eden’) dalla
scelta di un mixaggio rumoroso ed un mastering assordante,
rendendo l’ascolto (in cuffia, almeno) affaticante e
mortificando una qualità audio che si intuisce più che buona ma
la scelta idiota di pompare il volume al massimo in fase di
masterizzazione in buona parte rovina.
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Escape - 2014 |
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AORARCHIVIA |
LEAH "Kings
& Queens" |
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Non è proprio
il genere di materiale sonoro che frequento d’abitudine, ma un
ascolto preventivo mi ha convinto a segnalare questo
interminabile (circa un’ora e venti) album ai miei fedeli
lettori. La ricetta sonora di Leah prevede una miscela di
ingredienti tutt’altro che originali ma raramente combinati fra
loro a questo modo: sintetizzando, immaginate un misto di Lacuna
Coil, Lana Lane ed Enya. C’è una forte componente gothic su cui
si innestano vocals spesso di stampo celtico, modulate dalla
voce veramente accattivante di Leah, calda, espressiva ma
sopratutto policroma. Il punto debole di tutto il gothic
sinfonico sta infatti nella quasi perfetta intercambiabilità del
materiale, senza esagerazioni si può affermare che sentita una
canzone le hai sentite tutte: i riff moderni e stoppati
sempre identici, i tappeti uniformi di tastiere d’archi, quelle
voci da soprano che gorgheggiano instancabili e monotone… Il
genere avrebbe potenzialità enormi ma solo due o tre ensemble le
esplorano: Leah ci prova, qualche volta lo fa davvero bene,
qualche altra meno, ma le sue canzoni sono sempre decisamente
vivaci a livello di arrangiamenti, con momenti heavy che si
alternano a parti leggiadre, delicate, suggestive ed un varietà
di ispirazione molto piacevole (‘In The
Palm of Your Hands’ è impostata su una melodia vocale un
po’ Ten). Per chi già è affezionato al genere, ‘Kings
& Queens’ è sicuramente un ascolto obbligato, ma anche
quelli meno portati alle evoluzioni sinfoniche in ambito metal
potranno trovare qui più di un motivo d’interesse.
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Inner Wound Recordings - 2015
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AORARCHIVIA |
HAREM SCAREM "Thirteen" |
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Questo ‘Thirteen’
non è certo ‘Mood Swing’, ma
neppure uno di quegli album registrati a cavallo del nuovo
millennio in cui pareva che gli Harem Scarem tentassero di
proporsi come versione melodic rock dei Green Day. Album molto
gradevole, con qualche tocco di originalità e una certa varietà
di ispirazione: i frequenti riferimenti ai Def Leppard si
alternano a innesti moderni alla W.E.T./Eclipse (“The
Midnight Hours”), mentre su “Early
Warning Signs” si sentono distintamente i Queen. Il top?
“Stardust”, eccellente melange di
riff elettrici non banali, armonie vocali metà Def Leppard e
metà Beatles proiettate su un variegato tappeto di keys. Davvero
un buon album. |
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Frontiers - 2015 |
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AORARCHIVIA |
REVOLUTION SAINTS "Revolution Saints" |
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Non fatevi
impressionare dai nomi coinvolti in questa band estemporanea, il
vero artefice del progetto Revolution Saints è il solito
Alessandro Del Vecchio, che compone e arrangia il grosso del
materiale (e, naturalmente, lo produce). Le dodici canzoni
dell’album si dividono tra un AOR moderno di prevalente matrice
scandinava già sentito un paio di miliardi di volte e ricalchi
in chiave più heavy di cose prelevate dal repertorio dei
Journey. Jack Blades non incide minimamente, Doug Aldrich
neppure, Deen Castronovo fa il suo eccellente compitino nel
ruolo dello Steve Perry clone e, alla fine della fiera, è
legittimo chiedersi perché diavolo qualcuno dovrebbe mettersi
all’ascolto di canzoni che somigliano tanto a quelle dei Journey
cantate da qualcuno che ha una voce che somiglia tanto a quella
del cantante dei Journey quando potrebbe ascoltare direttamente
i Journey. Gli strombazzamenti orchestrati attorno ai Revolution
Saints ricordano molto quelli che l’anno passato accompagnarono
il primo album degli L.R.S.. Se
avrete la bontà di seguire il link, scoprirete che quanto avevo
predetto a suo tempo per gli L.R.S. si è avverato: non ho il
minimo dubbio riguardo il fatto che un destino del tutto simile
toccherà anche ai Revolution Saints.
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Frontiers - 2015 |
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AORARCHIVIA |
COMPANY OF STRANGERS "Company of Strangers" |
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In ambito
AOR, l’Australia ha prodotto alcuni act da non sottovalutare,
capaci di sfornare piccole (e neanche tanto piccole, talvolta)
gemme che reggevano senza imbarazzo il confronto con quanto
pubblicato dalle band Nordamericane. Era il caso di questi
Company Of Strangers (ma anche di Pseudo Echo, 1927, Broken
Voices), che con questo loro unico (da quel che so) album
uscito nel 1992 ci offrivano un’eccellente collezione di AOR
patinato, con riflessi pop, R&B e west coast. Il top in “Lost
In The Rhythm Of Love”, delizioso impasto di atmosfera ed
elettricità, fascinosa e frizzante nella stessa misura e “Should’ve
Known Better” che fa corpo unico con lo strumentale “Very
Light Hell” per oltre otto minuti di AOR policromo sulla
scia di The Works e Glass Tiger. Caldamente consigliato.
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Columbia - 1992 |
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AORARCHIVIA |
ROB MORATTI "Tribute to Journey" |
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Le canzoni
dei Journey sono conosciute in tutto il sistema solare e abbiamo
già dovuto subire una serie infinita di cover, allora, che senso
ha reincidere dodici pezzi della AOR band per eccellenza, quasi
tutti super classici degli anni d’oro, per di più in versioni al
limite del filologico? Ha senso dal punto di vista di Rob
Moratti, che a Steve Perry ha sempre guardato come un modello
vocale. È un omaggio, è, cito le parole di Rob dalla bio
fornitami, “il mio modo di dire grazie”. Che poi la
dichiarazione di gratitudine in esame abbia un interesse solo
relativo per il pubblico è sottinteso dal fatto che la Escape ha
deciso di stampare questo ‘Tribute to
Journey’ in appena mille copie numerate. Il risultato
finale? Discreto, almeno per me che apprezzo la voce di Rob
Moratti ma non sono un suo fan sfegatato. C’è la solita
insistenza sugli acuti e sembra (a me, che non ho studiato
musica al conservatorio e vado, letteralmente, a orecchio) che
in qualche frangente (“Who’s Cryin’ Now”,
fra gli altri) Rob abbia alzato la tonalità della canzone di
un’ottava o giù di lì (gli edotti nella teoria musicale
trattengano le risatine ironiche, please). Grande
attenzione alla tecnica ma poche sfumature nelle interpretazioni
(dov’è la passione, ardente eppure malinconica, che dovrebbe
sgorgare da “Separate Ways”? E la
tenerezza in “Who’s Cryin’ Now” che
fine ha fatto?), va meglio sui pezzi più rock (“Anyway
You Want It”, una “Stone In Love”
condotta da una chitarra decisamente heavy) su cui Rob può
sfogare al meglio la sua vocalità sempre un po’ sopra le righe.
Insomma: questo è un album only for fans. Fans di Rob
Moratti, naturalmente. |
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Escape - 2015 |
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AORARCHIVIA |
MA
KELLEY "Banned in America" |
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Passano per essere uno dei nomi minori della
scena hard USA, e non del tutto a torto, eppure i Ma Kelley da
Indianapolis avevano qualità da vendere: sapevano svariare bene
su diversi registri, passando con disinvoltura dal melodic metal
californiano al funk allo street rock più corrosivo, impostando
le
canzoni su arrangiamenti che traevano la loro forza
principalmente da un impiego parco ma intelligentemente dosato
delle tastiere e
interventi solisti sempre ben ambientati. Trascurando le
stranezze di “Maneater”, possiamo
dire che ‘Banned In America’ è un
album davvero interessante, raccomandato soprattutto ai fan
dello street metal più eclettico e meno contaminato col glam. |
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MK Records - 1993 |
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AORARCHIVIA |
VERITY "Rock solid" |
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‘Rock Solid’ fu il
secondo album solista di John Verity, chitarrista britannico che
militò negli Argent e nei Phoenix. Tagliato per il mercato USA,
mostrava una decisa inclinazione verso l’arena rock, ma di grana
non proprio finissima: questa tendenza ad atmosfere bombastic
contagia anche le ballad (più o meno power), con risultati a
volte opinabili, come su “Lonely In The
Night”, impasto inedito e di dubbio gusto fra Journey e
Kiss (entrambi ripetutamente presi a modello nel corso
dell’album). Archiviata una versione in chiave hard melodico
della sempiterna “You Keep Me Hangin’ On”
riuscita solo a metà, il meglio sta nelle due ultime canzoni, “Play
To Win” e “Two Hearts Burning”,
grazie ai begli arrangiamenti variegati chitarre/tastiere.
Verity ritornerà al disco solo nel 2010, con il discreto ‘Rise
Like the Phoenix’. |
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WEA - 1989 |
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AORARCHIVIA |
WORRALL "Worrall" |
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Recentemente
ristampato, questo solitario parto della band dei fratelli Worrall
ebbe l’unico torto di uscire troppo tardi, nel 1991, quando il
genere di AOR su cui era impostato (quello vagamente pop di Van
Stephenson, Jeff Paris, John Parr, magari con qualche spruzzata
di Triumph periodo mid 80s) non riscuoteva più i favori del
grande pubblico. La devozione al genere era testimoniata anche
dalla coverizzazione (molto ben fatta) della “Suspicious
Heart” di Van Stephenson, ma c’era spazio anche per il
good time AOR di “Summertime Radio”,
le sfumature anthemiche di “Hard Times”,
le venature blues di “Ordinary Man”.
In definitiva: niente di trascendentale, ma senza dubbio il
recupero dall’oblio se lo è meritato.
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Spy Records - 1991 |
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AORARCHIVIA |
PETERIK / SCHERER "Risk Everything" |
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Superato lo
choc per il nuovo look di Jim Peterik (come definire
quell’insieme di parrucca riccioluta con il ciuffo viola,
occhiali dalle lenti magenta e pellicciotto da esquimese?
Tardo-freak sconvolto? Psyco-punk artico? E quale impulso
autolesionistico ha spinto Jim a farsi fotografare agghindato in
quella maniera? Nasce tutto da un improvvido abuso di sostanze
allucinogene, da un disperato tentativo – indubbiamente riuscito
– di farsi notare, oppure siamo al cospetto delle prime
avvisaglie di demenza senile?), bisogna riconoscere che il
frutto di questa collaborazione con lo sconosciuto cantante Marc
Scherer ha dato frutti di notevole valore. Il sound rimanda
(ovviamente) ai Survivor, ma si allarga a comprendere un’ampia
fetta dell’AOR Nordamericano dei Big 80s, includendo Foreigner
(l’eccellente “Cold Bloded”), Styx
(“Thee Crescendo”) e Journey
(inclusa, naturalmente, “How Long Is A
Moment”, tanto simile ad “Open Arms” da lasciare
interdetti). Scherer ha una voce limpida e potente (un tantino
fredda, magari), la produzione è impeccabile, la qualità audio
superba. Insomma, per chi ama l’AOR classico, un album
assolutamente imperdibile.
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Frontiers - 2015 |
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