NOTE DAL WEBMASTER

 

 

L'industria discografica

 

Qualche altra considerazione in libertà, stavolta riguardo l’industria discografica. Un tentativo di capire cosa succederà domani e dopodomani nel mondo della musica. Me l’ha ispirato quella notizia data da tutti i telegiornali, della super multa inflitta negli USA ad una ragazza che s’era scaricata canzoni senza autorizzazione: in particolare, il servizio trasmesso dal TG di La 7, in cui il giornalista parlava con malcelata soddisfazione della crisi profonda in cui si dibattono le quattro majors superstiti (erano sette, ma la Enigma ha chiuso i battenti, la BMG è stata acquistata dalla Sony-CBS, mentre la Polygram è stata assorbita dal gruppo Universal, la vecchia MCA), interpretando questa vicenda solo come la conseguenza (sgradevole) delle contorsioni di un animale (predatore) ferito ed in agonia, destinato ad una morte neppure tanto lenta e (grazie a Dio) inevitabile.

Il mercato discografico è stato profondamente mutato dall’arrivo del web. Il fenomeno della pirateria non era certo sconosciuto prima, ma le copie su cassetta analogica degli LP di vinile evidentemente non erano riuscite a scalfire le quote del mercato legale in misura abbastanza significativa da impensierire chi lo controlla. Ma poi sono arrivati gli mp3, internet, Napster ed i suoi eredi, il P2P, gli iPod. Nel giro di dieci anni la situazione è cambiata in maniera radicale, drammatica. Le vendite dei CD sono crollate, e le labels grandi e piccole si sono rassegnate a proporre musica anche in formato elettronico, scaricabile da siti web autorizzati: questa è stata la dichiarazione di resa ad una realtà di fatto ingovernabile, una capitolazione fatta a capo chino, piuttosto che il classico “se non puoi batterli, unisciti a loro”. Ed ha rappresentato, prima e più di ogni altra cosa, un punto di non ritorno.

La differenza essenziale, nel mondo musicale di oggi rispetto a quello di dieci anni fa, è che a fare e vendere musica, si guadagna molto meno. Non saprei quantificarlo in percentuale, ma di certo le possibilità di guadagno sono scese enormemente. Con meno capitali a disposizione, si incidono meno dischi, e quando un disco viene inciso, si cerca di farlo con meno soldi possibile. Le grandi produzioni sono morte, semplicemente perché sono diventate troppo costose in rapporto al possibile ricavo. Non ricordo dove ho letto che al giorno d’oggi, film come “Cleopatra” o “Via col vento” non si potrebbero girare perché verrebbero a costare troppo. Il cinema ha trovato la sua via d’uscita grazie alla computer graphic: non hai più bisogno di ricostruire chilometri di scenari o chiamare duemila comparse su un set: ti siedi al computer e ottieni  – spendendo poco – tutto quello che ti serve. Nella musica, però, la faccenda non è così semplice. I grandi dischi non si fanno con il computer: c’è bisogno di gente in carne ed ossa, di professionisti. Le grandi produzioni degli anni 80 erano il frutto di mesi e mesi passati in studio di registrazione, del lavoro di produttori e ingegneri del suono, di session men e songwriters. Pensate a ‘Hysteria’ dei Def Leppard, a ‘Time to burn’ dei Giant, a ‘Brigade’ degli Heart, usciamo dal nostro genere e consideriamo ‘Bad’ di Michael Jackson, ‘Sign O the times’ di Prince, ‘The dream of the blue turtle’ di Sting, ‘A momentary lapse of reason’ dei Pink Floyd eccetera eccetera. Per la realizzazione di questi dischi era stato mobilitato un esercito di gente, ogni dettaglio, ogni particolare curato e rifinito in maniera certosina. Ma tutte le produzioni discografiche godevano di cure che al giorno d’oggi appaiono impensabili. Band esordienti lavoravano con grandi produttori per tre o quattro mesi in studi di lusso, suonando canzoni messe a disposizione dai migliori songwriters. Fiumi di soldi scorrevano dai rubinetti sempre aperti delle majors, perché si era certi di un buon ritorno o, quanto meno, di poter recuperare le spese. Oggi, nessuno vuol più produrre un equivalente musicale di “Via col vento”, perché è quasi matematicamente certo che non riuscirà neppure a ripagarlo. Nel 1988, in un’intervista rilasciata a Fare Musica, Kevin Lafey, all’epoca capo del settore A&R della Warner, dichiarò che, a prescindere dalla fama dell’artista, per portare un disco dalla fase progettuale alla vendita al dettaglio occorrevano cifre nell’intorno dei duecentomila dollari (dollari del 1988, naturalmente), e che per incominciare a guadagnarci, era necessario vendere un numero di dischi equivalente a quello dei dollari che era costato farlo. Tutto questo implica cifre di un ordine che il mercato attuale difficilmente raggiunge con la disinvoltura di quindici o venti anni fa. Il modello che l’industria ha sposato oggi è l’autoproduzione. Ti registri la canzoncina sull’hard disk del tuo portatile, ti fai il videoclip con la videocamera e lo spedisci a YouTube. Se sei fortunato, scatta il passaparola e qualche milione di persone si scarica il tuo pezzo e tu diventi un divo... per cinque minuti. Perché questa dimensione musicale strapelata, fatta di ventenni che si registrano da soli la musica nel soggiorno di casa, non può che dare frutti effimeri, troppo fragili per durare. Dopo un paio di mesi la nuova sensazione è già dimenticata e si passa alla prossima. Le majors stanno imparando a cavalcare questa nuova onda.

Il professionismo in musica rischia di morire. Perché? Perché la condizione base del professionismo è la possibilità di guadagnare esercitando una certa professione. Ma fare musica, ormai, non paga più. Non è un caso che tutti si affannino a formare (o riformare) bands e suonare dal vivo: quelli dei concerti sono soldi sicuri: per entrare si deve pagare il biglietto. Fare il session man sta diventando sempre meno remunerativo. Anche i grandi produttori diventano sempre più rari. Le bands si producono i dischi da soli.

Stiamo andando a ritroso, insomma. Piano piano (ma neppure tanto piano, in fondo), torniamo ad una situazione vicina a quella dei primi anni 60, con una differenza capitale: le possibilità di sviluppo, anziché crescere, diminuiscono progressivamente. La tendenza è quella verso una musica sempre più approssimativa, rozza, suonata male e registrata peggio. L’industria musicale si sta sfracellando e parcellizzando. Fioriscono non tanto le case indipendenti quanto i distributori. Per restare nel nostro genere, le varie Frontiers, MTM, Escape, Z Records, non agiscono tanto da labels in maniera classica, ma il più delle volte si limitano a prendere in consegna un master registrato dalla band a proprie spese, stampandolo e rendendolo disponibile al pubblico tramite CD o download e occupandosi della necessaria promozione. E dato che le band non possono o vogliono caricarsi di spese ingenti alla voce registrazione, ecco che i dischi suonano sempre peggio, trasformandosi solo in scusa per andare in tour.

La musica diventa sempre meno sofisticata, sempre più approssimativa, e in futuro andrà sempre peggio, perché solo la grande industria del disco può fornire i capitali necessari alla realizzazione di produzioni di qualità. Tempo dieci o venti anni, e un certo modo di incidere diventerà un fatto episodico e saltuario o, peggio ancora, un bel ricordo. I grandi professionisti della musica dovranno trovare un altro modo per sbarcare il lunario o vedranno comunque i loro ranghi assottigliarsi in maniera sostanziale, finendo per dedicarsi in esclusiva a settori come il cinema o la pubblicità. Un giorno si ascolteranno dischi come ‘Last of the runaways’ dei Giant o ‘Pump’ degli Aerosmith con una reverenza incredula, queste opere solleveranno lo stesso stupore che i turisti provano ammirando gli edifici di Angkor Vat, la reggia di Versailles o la Città Proibita, stupore accompagnato dall’inevitabile domanda: ma come hanno fatto? Perché la musica diventa sempre più piccola: insignificante, transitoria, grossolana. Gli adolescenti di domani formeranno il proprio gusto in questa realtà squallida e anarchica, povera e rozza, fatta di canzoncine più o meno stonate e videoclip autogestiti. Le future rockstar non avranno a disposizione neppure il canonico quarto d’ora di celebrità che un troppo ottimista Andy Warhol preconizzava per ciascun cittadino delle società post moderne. Due o tre minuti, e poi tutto sarà finito. E la musica diverrà in breve un hobby, un passatempo a cui dedicarsi senza troppo impegno, perché non garantirà un ritorno economico sufficiente o un ritorno economico e basta.

Naturalmente, mi auguro – come qualsiasi persona di buon senso dovrebbe – di stare peccando di pessimismo. So che l’industria discografica ha contribuito fattivamente ad annodare la corda a cui rischia di rimanere impiccata, che le sue responsabilità dirette nella crisi in cui si dibatte sono alte. Non sto ergendomi a paladino delle majors, cerco solo di far notare che è stata una certa industria a rendere possibile una dimensione musicale che rischia seriamente di scomparire, sono stati i capitali delle varie EMI, CBS, MCA eccetera a darci tanti e tanti capolavori, che l’idea ci piaccia o meno. Le grandi corporations del disco hanno governato il mercato senza pietà: imponendo di fatto il passaggio dal LP al CD promettendo per il nuovo supporto prezzi più bassi una volta che tutto il movimento fosse passato al digitale e rimangiandosi la parola senza una spiegazione; silurando interi generi musicali in blocco soltanto per freddi calcoli di marketing; imponendo di fatto trend e artisti al pubblico. La lista dei loro misfatti è lunga un braccio ed una gamba. Ma niente può giustificare la pirateria, il furto continuo operato tramite il web, questo esproprio proletario costante e spudorato a cui tutti si sono più o meno pacificamente arresi perché, semplicemente, appare impossibile fermarlo. Se non si trova una soluzione diretta a questo problema, lo scenario non ha alcuna probabilità di mutare. E il futuro sarà davvero nerissimo.