IO
E LESTER BANGS Che nel nostro paese siamo sempre, cronicamente in ritardo
su tutto, è cosa risaputa. La “riscoperta” di Lester Bangs è però
un fatto recente anche negli Stati Uniti, così che le sue recensioni
vengono (ri)lette praticamente in contemporanea sia da noi che negli
USA. Bangs, si sta cercando di farlo passare come “il più grande
critico rock di tutti i tempi”. È vero? È falso? In Italia, sono state pubblicate le due maggiori raccolte
di suoi scritti: “Guida ragionevole al frastuono più atroce” curata
da Greil Marcus, e “Deliri, desideri, distorsioni”, curata da John
Morthland, entrambe edite da Minimum Fax. Quella redatta da Marcus è
probabilmente la più interessante, sopratutto perché privilegia la
scrittura libera di Bangs rispetto al materiale più convenzionale, le
recensioni di dischi e tutto il resto. Marcus forse esagera definendo
Lester Bangs il più grande scrittore americano degli anni 70, ma
sottolinea che l’attenzione dei lettori di oggi si dovrebbe appuntare
proprio sulla qualità della scrittura, piuttosto che su ciò che Bangs
dice a proposito della musica popolare americana. Non è un paradosso.
Lester Bangs era indubbiamente un grande scrittore, e leggerlo è un
piacere sopraffino. Purtroppo, da noi pare che Bangs venga letto
sopratutto come critico rock. Questo significa che i suoi giudizi, le
sue prevenzioni, il suo modo di guardare alla musica rock, tra un po’
potrebbero cominciare a fare testo. Che un disco sia schifoso o
meraviglioso solo perché tale era per Lester Bangs. Non è solo
speculazione, la mia. Su Sentireascoltare, un critico dai giudizi
abbastanza sereni ed equilibrati (almeno quando si occupa di opere
inquadrabili nei generi di suo gradimento) come Stefano Solventi, apre la sua recensione di
'Metal
machine music' con una citazione del pezzo di Lester Bangs su questo
disco, poi scrive: “Dopo tutto
Lester Bangs è Lester Bangs e chi sono io per dire qualcosa di nuovo su
uno dei dischi più controversi della storia della musica occidentale
del ‘900?”. Il tono è scherzoso, ma solo a metà. Tra un po’,
a sostenere opinioni diverse da quelle di Lester Bangs buonanima, temo
che si farà la figura degli imbecilli, tout court. Io non sono convinto che Bangs sia stato il più grande
critico rock di tutti i tempi. Non perché detestasse quasi tutte le
bands che amo. I motivi sono ben altri. Partiamo dal principio, dall’inizio: cosa significa fare
critica musicale? Sostanzialmente, chi scrive di musica, cerca di
spiegarla. Non è facile. La musica è un veicolo di emozioni, non di
concetti. Colpisce lo stomaco, non la testa. Il suo impatto è
innanzitutto emotivo. Piace o non piace, e se qualcosa non ti piace, è
molto difficile che tu possa apprezzarla comunque, a freddo. Se mi
chiedeste di parlarvi del reggae, potrei dirvi solo una cosa: non mi
piace. Non riesco ad ascoltarlo. Mi disturba, mi dà fastidio… È
chiaro il concetto? E la stessa cosa mi succede col rap, con gran parte
del punk. Talking Heads, Smiths, Happy Mondays, Nirvana, Oasis,
Radiohead sono solo una parte dei nomi della mia lista nera. Non li
sopporto. Sono artisti, non lo nego assolutamente, ma non provo alcun
imbarazzo a dire che, molto semplicemente, non
mi piacciono. Qualsiasi discorso critico su di essi da parte mia
sarebbe scorretto e falsato da un’avversione istintiva, primordiale.
Scrivo di hard rock perché il genere che più apprezzo è questo, la
musica con cui sono in perfetta sintonia. Ciò, naturalmente, non
significa che qualunque band che faccia musica inquadrabile in questa
categoria mi piaccia. Ma, se una band di hard rock non mi dice giusto,
mi sento passabilmente in grado di spiegare tutti i perché ed i percome
di quello scarso gradimento, mentre se cercassi di chiarire perché i
Radiohead (mi) fanno schifo finirei per scendere nell’ambito
personale, qualunque osservazione oggettiva sarebbe inevitabilmente
viziata dalle vibrazioni negative che questa band mi comunica. Non è
vero che la musica si divide solo in buona e cattiva. Lo diceva Jimi
Hendrix, d’accordo, ma per lui era diverso: Jimi era un musicista, un
addetto ai lavori, la sua prospettiva era diversa da quella del semplice
fruitore. Per la stragrande
maggioranza della gente, la musica si divide in generi: è stato il
pubblico a crearli, e non senza ragione. Dedicarsi a fare
critica solo su certi generi non è un segnale di chiusura mentale, ma
una necessità. A meno di non essere una di quelle mosche bianche a
cui piace tutto, anche il critico avrà le sue brave idiosincrasie, i suoi
sacrosanti gusti. E, quanto meno per onestà intellettuale, dovrebbe
limitarsi a pontificare solo all’interno di questo ambito, non importa
quanto sia piccolo. Lester Bangs non lavorava in questo modo, che mi sembra
quello più corretto. Il suo metro era il proprio gusto personale.
Ovvero: se una band gli piaceva, era una buona band; se non gli piaceva,
era una band schifosa. Punto e basta. Le sue recensioni erano oltretutto
impostate sull’assunto che trovare favolose le band che a lui
parevano favolose era una lampante dimostrazione di intelligenza, chi
ascoltava altre cose, chi non trovava ripugnanti le band che a lui
ripugnavano, era un perfetto idiota. Non vi era il minimo rispetto per
gusti diversi dal suo, né il minimo sforzo di comprenderli. Il teorema
critico di Bangs era rappresentato solo e unicamente dal gusto di Lester
Bangs. Ma non si può fare della seria critica rock in questo modo.
Qualcuno potrebbe obiettare che a Lester Bangs non fregava un accidente
di fare “seria critica rock”, e questo, in un certo senso, è
assolutamente vero. Quando leggiamo le sue recensioni, dobbiamo filtrare
ogni parola, entrare nello strano mondo che abitava, fuori e dentro la
sua testa. Anche per questo motivo, Marcus consiglia di leggerlo e
basta, lasciando perdere tutto il resto, gli insulti, le malignità e le
pure e semplici cattiverie, il sarcasmo acido, lo humor nero che Bangs
riversa implacabile su tutto quanto non gli piace, su dischi e artisti
che avevano quale principale difetto quello di non andargli a genio. E
quel qualcuno potrebbe anche farmi notare che, tutto sommato, i critici
in genere hanno un modus operandi per nulla dissimile da quello
dell’ineffabile Lester, basta leggere qualche recensione su riviste più
o meno alla moda, come XL di Repubblica, per verificarlo. Ma che Bangs
portasse questo atteggiamento così comune ad un apice che probabilmente
è rimasto ineguagliato per intensità (per isterismo?) non lo redime di
certo, né lo fa più grande. Il rispetto, nel nostro campo, è merce
rarissima, d’accordo, ma la sua scarsità congenita non rende la sua
mancanza meno dolorosa. Venendo poi ai gusti di Bangs, non si può comunque fare a
meno di stupirsi di quante poche bands davvero gli piacessero, e quasi
sempre le più strane, rumorose, anarchiche e selvagge. Da allusioni e
accenni più o meno vaghi disseminati nei suoi scritti, mi pare di poter
dedurre che il blues non gli piacesse per niente, e questo, in un
appassionato di musica rock, è veramente strano. Ma Lester Bangs, in
realtà, non era affatto un “appassionato” di musica rock. Il suo
primo, e duraturo, amore è stato il jazz. Le pagine che dedica al jazz
hanno sempre un calore e quasi una tenerezza che mancano regolarmente
quando discetta di rock. Sembrava che lui vivesse il rock come
un’esperienza straniante, lo sfogo di impulsi oscuri, di stati
d’animo fortemente negativi. Le “buone vibrazioni” gliele dava
soltanto il jazz. Per lui, immagino che passare dal jazz al rock fosse
come sfogarsi con un po’ di fumetti sporchi dopo aver letto Joyce…
Del rock, in linea di massima, non aveva una buona opinione, e neppure
lo considerava una forma d’arte. Era poi intriso fino ai capelli di
tutte quelle scemenze anni 60 sulla sincerità e l’onestà degli
artisti, che lo portavano a strapazzare malamente tutti quelli che ai
suoi occhi erano “falsi”. Il pezzo su Emerson, Lake & Palmer è
esemplare, in questo senso: riesce a far sembrare Greg Lake e Carl
Palmer due imbonitori perfidi, rozzi e maligni, e la
loro band un gigantesco circo messo su solo per rastrellare quattrini ai
fessi. Era la sua ossessione: salvo per pochissimi eletti (Iggy
Pop, Captain Beefheart, Lou Reed, i Clash e qualcun altro appena), tutti gli altri erano in
giro solo per i soldi. Arriva al punto di raccontare una lunghissima
(interessante, però) storia a proposito di un personaggio della mafia
newyorkese per cercare di dimostrare che Bob Dylan era anche lui solo un
altro truffatore che raggirava i suoi fans scrivendo canzoni
“false”. Questa cosa della sincerità non so se interpretarla in
termini di pura e semplice ingenuità o di un sistema di valori
completamente sfasato rispetto al mondo reale. Sarebbe come pretendere
da uno scrittore soltanto storie vere, e che gli sono
capitate in prima persona, ma questo è ridicolo. L’arte è il regno
della menzogna: è anche da questo
che trae la sua forza. Ma Bangs sosteneva che tutto ciò che non era vero
era finto, e dunque privo di qualsiasi valore, e pareva convinto che
alla fine di ogni show, gli artisti scappassero nel retropalco a ridere
di quei poveri deficienti che avevano pagato per sentirli suonare. E a
contare i soldi dell’incasso, naturalmente. Suona piuttosto paranoico,
no? Il suo modello di cantante era Iggy Pop, l’unico che
desse show che avevano un valore autentico. Tutti gli altri, sembra
suggerirci Lester, recitavano e sghignazzavano sotto i baffi. Sarebbe a
dire che se un artista non si agita come fosse in preda ad una crisi
epilettica, non sta esprimendo emozioni, ma finge e basta. Che ogni
frontman deve presentarsi sul palco come una sorta di agnello
sacrificale, pronto e desideroso di farsi sbranare, offrendosi in pasto
al pubblico nudo, con i nervi scoperti ed il sangue che cola. Il vero
rock è questo, il resto è solo macchinazione per fregare il prossimo.
Il rock deve essere rozzo, rumoroso, violento fino al parossismo. Serve
a sballare, e basta. Se volete l’arte, ci dice Lester, cercatela nel
jazz o nella musica classica, non certo nel rock. I Clash, per lui
avevano valore in funzione di due cose: la propaganda socialista ed il
pogo. Come dire che la musica vera,
la musica buona, stava sempre
e comunque da tutt’altra parte… e i Clash erano una delle sue bands
predilette. Aveva un’attenzione ossessiva per i testi, che spesso non
riusciva a decifrare perfettamente, travisando il senso delle canzoni.
Nei suoi scritti raramente troviamo disanime approfondite della musica.
Nel pezzo dedicato ai Black Sabbath, si parla praticamente solo dei
testi delle canzoni e del modo in cui Ozzy le canta: sul rivoluzionario
discorso musicale che Tony Iommi, Bill Ward e Geezer Butler facevano,
silenzio (i primi due, vengono menzionati solo una
volta, nell’articolo; Butler è più fortunato, dato che viene
nominato per ben tre volte). Del resto, l’amore per questa band durerà
solo un paio di album, poi, da ‘Sabbath, bloody sabbath’ in poi, per
lui smetteranno di essere interessanti (sarà un caso, che questo è
proprio il disco dei vecchi Sabbath che preferisco?). Come individuo,
era un unico fascio di contraddizioni: sempre bisognoso di un aiutino
farmacologico per tirare avanti (ricordo che morì per overdose di
sonniferi a 34 anni), perennemente in bilico tra un politically
correct ante litteram, anarchico ed un po’ hippy, ed una punk
attitude che si identificò senza fatica con quella resa celebre dal
movimento musicale del ’77, interrotte da occasionali frecciate di
malevolenza (chiamava gli omosessuali “finocchi”, aveva verso gli
inglesi – ed il rock inglese – un rapporto di amore-odio che pendeva
più spesso verso l’odio) e paranoia. La sua critica musicale diventa degna di attenzione ed
acquista un valore notevolissimo quando scende dal particolare e
affronta il generale: i pezzi su Elvis Presley, i Beatles, i Doors, sono
realmente illuminanti, decifrando con grande lucidità il rapporto tra
cultura popolare americana e musica rock. E poi c’è il resto, scritti
di confine, a volte semplicemente inclassificabili: si va da pezzi
esemplari di giornalismo, come il reportage dalla Giamaica, fino
all’esilarante, irresistibile resoconto di tredici notti di capodanno
(dal 1967 al 1979, chiunque affermi di non ritrovare in questi tredici
capodanni tragicomici almeno uno
dei propri, è un bugiardo o è appena arrivato da un altro pianeta). Al di fuori di questo, non trovo nella critica di Bangs
motivi di interesse. La leggo con grande piacere, ma come si può
leggere un racconto o un romanzo. Le sue ossessioni non sono le mie. I
suoi gusti musicali non sono i miei. Il suo metodo non è il mio. Se non
fosse morto nel 1982, immagino cosa avrebbe potuto scrivere sui Journey,
i Def Leppard o i Bon Jovy, su musica che mai e poi mai avrebbe
apprezzato e meno che mai capito. Roba per decerebrati, solo una
gigantesca presa per il sedere eccetera eccetera. Insulti a camionate,
sfottò al vetriolo. Ma la critica non si fa in questo modo. E mi auguro
di non essere il solo a pensarlo. |