NOTE DAL WEBMASTER

 

 

 

 

PERCHE' AMO IL ROCK DEGLI ANNI '80

 

 

 

Chi segue d’abitudine AORARCHIVIA non troverà niente di particolarmente nuovo in questo scritto. Ma mi sono reso conto che il mio pensiero sulla musica rock l’ho espresso a pezzi e bocconi attraverso le mie recensioni, e forse è il caso di riassumerlo organicamente ed una volta per tutte. Non sarò, per forza di cose, breve: ma non si può sviscerare a fondo una questione lavorando sulla lunghezza di un post su Twitter.

 

Un cenno di biografia musicale è opportuno, più che altro per collocare senza equivoci il periodo della mia educazione in questo campo. Sono nato nel 1967 e per quanto riguarda l’apprezzamento verso la musica rock non mi si può definire precoce. L’unica cosa che io e Lester Bangs (per approfondire l’argomento, seguite il link) abbiamo in comune (pare) sta nel fatto che il primo amore di entrambi è stato il jazz. A tredici, quattordici anni mi piaceva il jazz, soprattutto il vecchio jazz, quello pre bop, di Duke Ellington e Count Basie. Le cose cambiarono nel 1984 quando, grazie alla radio ed alla mai abbastanza compianta Videomusic, mi imbattei nell’hard melodico e nell’AOR, e da lì è venuto tutto il resto. In definitiva: sono cresciuto musicalmente negli anni ’80, seguendo tutta la parabola della musica rock di quel decennio. Ho, di conseguenza, fatto un callo enorme e molto coriaceo alle critiche di ogni genere rivolte al rock più o meno mainstream di quella decade, praticamente in tutte le sue forme. Critiche che, con il passare del tempo, hanno preso varie forme e stili, ma sono sempre state impostate sul confronto con quanto era stato fatto nel decennio precedente. Per chi critica, ieri e oggi, l’esplosione del grunge fu una benedizione, la nascita del retro rock la vittoria definitiva della musica “vera”, “buona”, “genuina” su quella falsa e artefatta degli ’80. In quel rock non andava mai bene niente: il suono, la produzione, il songwriting, perfino il look di chi lo suonava… tutto da buttare, ridicolizzare, da trattare come un’aberrazione, una lunga fase di rimbambimento da cui la musica è fortunatamente uscita una volta e per sempre. Scendendo un po’ più nei dettagli: tutto risultava esagerato e nello stesso tempo plastificato, afflitto da una produzione elefantiaca. Una delle band simbolo – almeno nel nostro genere – di questo mutamento di scenario fra una decade e l’altra sono certamente gli Whitesnake: dobbiamo subire continuamente gli strali di questo o quel solone che esalta gli Whitesnake inglesi (blues e spontanei, sinceri e passionali) e condanna senza attenuanti quelli americani (finti, artefatti, biecamente commerciali). Non è cosa solo di oggi: recensendo l’appena edito ‘Slip of the Tongue’ nel 1989 su Metal Shock, Beppe Riva, dopo aver ascoltato la nuova versione di “Fool For Your Loving” si chiedeva dov’era finita l’innocenza blues di un tempo… Come dire: perché caricare di orpelli, inventarsi fraseggi di chitarra complicati, avvolgere tutto in un manto di riverbero, quando si potrebbe suonare in maniera semplice e diretta? La mia risposta è un’altra domanda: e perché no? Perchè rinunciare alla possibilità di un suono sofisticato, ricco, luminoso? Perché scegliere di essere rozzi quando si può essere raffinati? La risposta potrebbe essere: perché al pubblico il rock piace rozzo (e non solo il rock: tutto quanto è rozzo va sempre forte). Eppure, per più di dieci anni, il rock (non solo quello duro) è stato tutt’altro che rozzo. Cosa è successo, negli anni ’80, che ha portato a questa nuova dimensione? Tanto per cominciare, la tecnologia. Per la prima volta era possibile per tutti, in ambito rock, avere dei bei suoni. I registratori multitraccia diventavano sempre più sofisticati e davano sempre più piste a disposizione per incidere. Amplificatori ed effetti consentivano ai chitarristi di ottenere belle timbriche senza troppa fatica. Tutti quei suoni aspri, limacciosi e sporchi che avevano caratterizzato gran parte del rock nei ’70 diventavano storia, e giustamente: perché scegliere di avere un sound schifoso quando si può averne uno bello? Quei suoni non erano stati una scelta ma un obbligo, ampli e chitarre suonavano in quel modo e quando andavano incisi su nastro suonavano ancora peggio, fine della storia. Ma la tecnologia va avanti. E ricordiamo che negli ’80 si affermò definitivamente il Compact Disc, che ha una resa fonica ed una qualità audio molto superiore rispetto al disco di vinile, col suo rapporto S/N a 55 dB… Era, insomma, una vera e propria evoluzione. E il pubblico reagì positivamente. In fondo, di innocenza blues tutti avevano fatto il pieno per vent’anni: si poteva anche cominciare a tentare qualcosa di diverso.

 

Gli ’80 sono il momento storico delle grandi produzioni, l’epoca in cui anche band esordienti, senza un pedigree, passavano mesi e mesi in uno studio con un produttore. Nei ’70 era ben diverso. Due settimane per incidere, uno o due giorni per mixare e l’album era pronto, amen. C’erano delle eccezioni, naturalmente: i Led Zeppelin si prendevano sempre due o tre mesi, complessivamente, per registrare un album, e i Rolling Stones impiegarono quasi un anno per incidere ‘Exile on Main Street’. Ma erano, appunto, eccezioni, e riguardavano esclusivamente i pezzi grossi, ma grossi per davvero: Led Zeppelin, Stones, Who, Pink Floyd… Gli altri si arrangiavano. Negli ’80 le case discografiche presero ad aprire il portafogli anche per i debuttanti più promettenti, assegnandogli oltretutto produttori di prima classe. Di quanti soldi stiamo parlando, precisamente? In genere, sia le label che gli artisti sono molto restii a dare cifre precise, perciò il campionario di cui disponiamo è scarso, ma una situazione esemplare potrebbe essere quella dei Signal, come rivelò tempo fa Marcie Free durante un’intervista. Registrarono il loro primo ed unico album ai Fantasy Studios di Berkley tra la prima settimana di gennaio e la terza di aprile del 1989 (come dire, circa quattro mesi passati in studio, e uno dei migliori studi di registrazione americani). La EMI stanziò 182.000 dollari per l’album: al produttore (Kevin Elson, uno dei pesi massimi in campo AOR alla fine degli anni ’80) andarono 90.000 dollari (la metà del budget, insomma) ed una percentuale sulle vendite dell’album pari al 2% (oppure il 3%: Marcie non se lo ricorda). I soldi, secondo Marcie, furono spesi praticamente tutti, saldato il conto dello studio rimasero in cassa solo poche migliaia di dollari. Insomma: 182.000 $ spesi per una band formata da quasi sconosciuti, al debutto… e per un album che poi, per motivi mai chiariti, la EMI decise di non pubblicare! È ragionevole supporre che la gran massa delle produzioni delle major (e di non poche indipendenti) gravitassero attorno a cifre simili, soprattutto quando erano coinvolti produttori importanti, e praticamente tutti i grandi produttori sono stati coinvolti nella scena AOR, hard rock e perfino metal (solo per fare due esempi, Eddy Kramer ha prodotto un album agli Anthrax, mentre Tony Platt lavorò con i Celtic Frost). Posto che nessuno ci gode a scialare, doveva esserci un buon motivo per un cambio di rotta tanto clamoroso. Questo motivo sta, secondo me, nel fatto puro e semplice che gli standard qualitativi avevano subito una vera e propria impennata. Nessuno si accontentava più di registrare una manciata di canzonette, buttarle in pasto al pubblico e incrociare le dita. C’era la precisa volontà di ottenere prodotti di alta, altissima qualità. Ma… come ottenerla, la qualità? Se la tua band si chiama Led Zeppelin, non c’è problema: la mandi in studio e quella ti sforna un capolavoro. Ma quanti Led Zeppelin trovi in giro? Però, ci sono i produttori e quelli che di mestiere fanno i songwriters. Non crediate che qualunque fesso che ha imparato a strimpellare una chitarra o a pestare una batteria possa fare il produttore: occorre competenza tecnica, cultura musicale e, soprattutto, TALENTO. Un grande produttore ha sempre molto, molto più talento delle band che produce (e lo riconoscono anche i musicisti, sia pure a denti stretti). Il produttore plasma tutto quanto la band gli mette a disposizione e nove volte su dieci fa la differenza, trasformando quello che poteva diventare solo un prodotto discreto in un’opera d’arte. Ma non basta una buona band ed un buon produttore a fare un capolavoro. Ci vogliono le canzoni, che gente di talento può scrivere per te e, soprattutto, ci vuole tempo e lavoro, lavoro, tanto lavoro, come ho raccontato (altro caso esemplare) nella recensione di ‘Reckles’ di Bryan Adams, a cui rimando per approfondimenti, ma per chi non ha voglia di ripercorrere la tormentatissima gestazione di quel disco, ne riporto qui la conclusione:

 

“ ‘Reckless’ può apparire se non la quintessenza della semplicità, certo un disco molto diretto, buona la prima e andiamocene a casa. Jim Vallance ci spiega che quei trentotto minuti di musica furono invece il frutto di un lavoro intenso, estenuante, di giorni e giorni passati in studio, di prove e tentativi e passi falsi, che certi risultati non vengono per caso o improvvisando, Dio sa quante volte ho letto interviste in cui le bands si vantavano di aver registrato album senza fronzoli, tutti assieme in studio, ampli a manetta e giù a pedalare, per avere il feeling da live performance… Pura propaganda, o una strana forma di pudore del lavoro, perché i dischi non si registrano in questo modo già dai tempi di Elvis, si prova e si riprova e poi si prova un’altra volta magari passando una settimana a girare attorno ad un riff per trovare la successione migliore degli accordi oppure registrando dieci versioni di una canzone per trovare quella giusta. Almeno, si faceva così una volta, quando le bands potevano permettersi di passare sei mesi chiuse in uno studio con un produttore, e i risultati sono ancora qui a ronzarci nelle orecchie”

 

E non solo band hard rock: Sting impiegò circa sei mesi a mettere assieme i poco più di quaranta minuti di durata di ‘The Dream of The Blue Turtles’, Michael Jackson si prese otto mesi per registrare ‘Thriller’ (un album costato 750.000 dollari), gli U2 passarono un anno intero ad incidere ‘The Joshua Tree’, Prince un anno e mezzo per ‘Sign o’ The Times’ e l’elenco potrebbe continuare per pagine e pagine.

Eppure, dicono alcuni, tutto questo non era affatto progresso o evoluzione. Vuoi mettere una bella chitarra lercia, suonata in una stanza lercia, incisa su un registratore lercio, e di corsa, per non perdere il feeling? Vuoi mettere la spontaneità di quattro o cinque persone che suonano in diretta e tutte assieme? Ed io chiedo, di rimando: ma questa strategia ha mai, davvero, prodotto dei capolavori? Pensate che Jimi Hendrix – tanto per fare un nome che i sostenitori della “spontaneità” tengono sempre pronto –  lavorasse in questo modo? Sapete che ci vollero 27 esecuzioni per incidere “All Along The Watchtower”? Jimi la suonò per ventisette volte di seguito prima di essere soddisfatto! Alla faccia della spontaneità…

Il rock, purtroppo, vive sopratutto di miti, e non c’è dubbio che il lavoro certosino in studio sotto la guida di un produttore faccia a pugni con l’immagine mitica della band che pesta sodo sul palco, tutta feeling e sudore. Le band stesse alimentano questo mito idiota, e al giorno d’oggi è comprensibile che lo facciano, dato che l’unica fonte di guadagno che hanno a disposizione sono gli spettacoli dal vivo. Del resto, è praticamente impossibile prendere sul serio quello che i musicisti dicono. Gli unici con cui vale la pena parlare sono i produttori (quando hanno voglia di parlare): intervistare un musicista è un esercizio di futilità quasi pari a quello di far domande ad un attore o ad un politico (riconosco che l’assoluta indifferenza che in genere provo per l’aspetto biografico può condizionare il mio giudizio: non me ne frega assolutamente niente di sapere dove sono nati, cosa facevano o ascoltavano da ragazzini, con chi scopavano durante i tour, cosa inalavano o si iniettavano fra un concerto e l’altro: il mio unico interesse è la musica, in tutti i suoi aspetti). Ma da qui a ridicolizzare il lavoro, ce ne vuole. Eppure, questo è quanto accade oggi: verificatelo nell’articolo pubblicato nel numero 56 di Classic Rock a firma di Henry Yates, un vero capolavoro nel suo dare del metodo di lavoro anni ’80 una versione al limite del grottesco, scegliendo perfidamente dichiarazioni di produttori e musicisti che potessero avvalorare la tesi di fondo, ossia che tutti quei fronzoli e quelle manfrine facessero male alla musica. Ma tutto l’obbrobrio moderno si scontra col fatto che, negli ’80, questa musica andava forte: non è che in giro mancassero proposte nello stile del decennio precedente, semplicemente questi album non si vendevano (un solo esempio: i pompatissimi Salty Dog). Era tutta moda? Anche, certo. La gente compra quello che viene pubblicizzato, dopo tutto. Ma se la gente preferiva comprare i dischi dei Bon Jovi anziché quello dei Salty Dog, la spiegazione non può essere solo che Jon Bon Jovi era più carino di Jimmy Bleecher (il frontman dei Salty Dog).

 

De gustibus non est disputandum. Secondo il dizionario Treccani: “Frase latina («sui gusti non si può discutere»), di origine non classica, assai frequente nel linguaggio comune (spesso anche nella forma ellittica de gustibus) per affermare che i gusti sono soggettivi e ognuno ha diritto ad avere i suoi, per quanto strani possano sembrare ad altri”. Io aggiungo: non soltanto non si discutono, ma sono sacrosanti. Dunque, se qualcuno mi dice che il massimo della pulizia sonora che è in grado di tollerare sono i Kyuss di ‘Blues For The Red Sun’, la produzione più leccata che riesce a digerire è ‘Back in Black’ degli AC/DC, il suo gusto per le sfumature, i dettagli ed i preziosismi nell’esecuzione trova la sua massima gloria fra i solchi di una copia in vinile tutta consumata di ‘No Sleep ‘til Hammersmith’ dei Motörhead, io reagisco al massimo con una scrollata di spalle. Un altro vecchio adagio riformula la locuzione latina di cui sopra nel seguente modo: “Non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace”. Se il predetto qualcuno apprezza il sound distorto, aspro e crepitante dei Kyuss, allora per lui quel sound è bello, e basta. I problemi cominciano quando si vogliono fare comparazioni e determinare ad ogni costo delle scale di valori. Ricordo che, diversi anni fa, un mio corrispondente che non sento più da parecchio tempo (ma che mi auguro mi legga ancora… ci sei, Paolo?) mi chiese un consiglio/parere su come intervenire in un dibattito su un blog, che proponeva il confronto/scontro fra un album dei Sonic Youth (non ricordo quale fosse, mi pare ‘Daydream Nation’) e ‘Images And Words’ dei Dream Theater. Io gli dissi che, secondo me, il confronto non poteva semplicemente avere luogo, perché si trattava di due espressioni artistiche troppo diverse e distanti: forse che qualcuno si è mai sognato di mettere sui piatti di una bilancia le voci di – che so – Elvis Presley e Edith Piaff, per stabilire chi dei due è il “migliore”? Il bello fu che, quando Paolo cercò di postare il suo/mio intervento nel dibattito, la moderatrice decise di tagliarlo come inappropriato. Questo dice molto su come si tende a interpretare – a qualsiasi livello – la critica musicale: il giudizio salomonico non viene apprezzato, si cerca, si vuole lo scontro, il testa a testa, si invocano apertamente condanne senza attenuanti e apoteosi senza freni. Sarà che ho una natura scarsamente competitiva, ma il confronto ad ogni costo mi è sempre apparso stupido, e questo voler eleggere comunque un perdente ed un vincente mi sembra infantile come le lettere che trovavo nella posta degli albi dei super eroi Marvel che leggevo da bambino (quelli editi dalla Corno, quando Spider Man era l’Uomo Ragno, Captain America semplicemente Capitan America e via così), con domande sempre a base di: “Chi è più forte tra Hulk e Silver Surfer?” oppure “Chi è più forte tra Iron Man e Mr. Fantastic?”. Anche a otto o nove anni trovavo quelle domande incredibilmente idiote e mi meravigliavo che si potesse essere così ingenui (cretini?) da porle. Insomma: io non cerco lo scontro e non faccio paragoni, non sto provando a esaltare ciò che mi piace e sminuire ciò che non gradisco. Ma mi si torcono le budella quando leggo che, oggigiorno, le cose vanno meglio rispetto agli anni ’80. Oggi i musicisti non hanno più i soldi per stare sei mesi in uno studio, non possono permettersi di ingaggiare produttori di grido né di lavorare con bravi songwriters. Questo sarebbe un progresso? Ah sì, certo, la spontaneità… Quanti album usciti negli ultimi dieci anni sono riconosciuti come classici, di quelli che i musicisti ascoltano e studiano e cercano di riprodurre? Li contate sulle dita di una mano, credo. Tutto il resto è ricalco oppure è composto da materia sonora tanto evanescente da sbiadire ed annoiare dopo appena pochi passaggi. Da trentadue anni ascolto l’album omonimo degli Heart uscito nel 1985, e non mi stanco mai di risentirlo: è come se ogni volta suonasse, in qualche modo, nuovo. E lo stesso effetto mi fanno i Journey, i Giant, i Bad English e tanti altri album incisi a quell’epoca. Se sentite ancora in giro le canzoni che compongono ‘Thriller’ non è certo per nostalgia o perché c’è un culto attorno allo scomparso Michael Jackson, ma solo perché quella musica è valida, potente e nessuno si stanca di riascoltarla, ancora e ancora. Eppure, in ambito rock si è ormai affermato il concetto che “gli anni d’oro” sono i ’70, mentre tutto quanto è stato fatto negli ’80 si può al massimo tollerare. Anche gli artisti fanno la loro parte: quanti di quelli che hanno cominciato la carriera nei ’70 hanno poi rinnegato – a volte con parole di fuoco – quanto fatto negli ’80? Gli Heart, Robin Trower, Gregg Allman e solo il cielo sa quanti altri hanno sparato a zero sulla propria produzione di quel decennio, in genere dando la “colpa” alle case discografiche per averli costretti a scendere in quell’arena, a misurarsi con il sound più in voga… e pretendono anche che gli si creda! Se hanno adottato un certo sound lo facevano perché gli conveniva, non perché le loro label li minacciavano di morte… Questa idea che tutto quanto fatto nei ’70, spesso da band di terza o quarta linea, conosciute solo da un manipolo di collezionisti di vinile muffito, sia oro si è affermata soprattutto con la nascita del retro rock, e qui apriamo una lunga parentesi. Pare che fare “classic rock” al giorno d’oggi significhi soltanto replicare quanto si suonava fino al 1977. Il criterio su cui ci si basa per assegnare merito è la capacità di riprodurre in maniera filologica il suono di questa o quella band degli anni ’70, dando all’ascoltatore l’illusione che il materiale sia vecchio di quaranta e passa anni. Io ritengo che il rock classico abbia una vita possibile ben oltre la dimensione mummificata in cui tante band ormai lo praticano, e lo dimostra ad usura la musica di Joe Bonamassa e di (pochi) altri act (un paio di nomi: Red Sky Mary e No Sinner). Il fatto che tantissimi vadano ad infognarsi nel vicolo cieco del retro rock naturalmente accade anche perché ricalcare è molto più semplice che tentare di fare qualcosa di nuovo o, almeno, di diverso. E anche perché la riproduzione/replica di quel particolare genere di sonorità è alla portata di chiunque possa comprare un amplificatore per chitarra ed una Les Paul usata. Il retro rock può essere un genere “facile” da praticare, contraddistinto spesso com’è da una grande sciatteria sonora al limite del lo fi, e dalla scarsità di contenuti tecnici: riffoni elementari e accordi tagliati con l’accetta che non mettono in imbarazzo neppure il più imbranato strimpellatore alle prime armi, e nella dimensione strapelata in cui vive gran parte della scena non meraviglia che tanti si buttino su un genere che non solo non ha necessità di grandi idee o contenuti tecnici per essere praticato, ma fa la sua figura anche quando viene registrato con mezzi di fortuna nel soggiorno di casa o nel garage, senza un ingegnere del suono a sovrintendere ed un produttore a dirigere, diventerà anzi un motivo di vanto per la band di turno avere una resa fonica schifosa e approssimativa: fa ancora più vintage, più genuino, più “vero”… A questo aggiungiamo il fiume di lodi acritiche che vengono soprattutto dal web, dove ogni band, anche la più dilettantesca e inetta, viene regolarmente mandata alle stelle da qualche recensore: è un meccanismo inverso rispetto a quello che genera tanti troll fra blog e forum, quelli sputano e insultano per principio, gli altri esaltano e basta, ansiosi di farsi belli davanti al loro magro stuolo di lettori segnalandogli immaginarie mirabilie sonore. Il risultato è che le band stesse non ammettono praticamente più di essere criticate, una recensione negativa è per loro sempre un attacco personale o una patente dimostrazione di incompetenza del recensore (e qui potrei raccontare un paio di storie che mi hanno coinvolto personalmente, ma perché offrire pubblicità gratuita a certa gentaglia?), chiunque sia capace di mettere tre accordi dietro l’altro senza stonare ritiene di essere il nuovo Jimmy Page e che il pubblico debba rimanere incantato da qualunque cazzata gli venga proposta. Ma che figura fa tutta questa musica quando viene confrontata seriamente con quella prodotta in un’era in cui la qualità di un album doveva essere elevatissima? Non certo una bella figura. Ovviamente i musicisti minimizzano e ricorrono alle solite tiritere sulla spontaneità, l’effetto live e scemenze simili: datemi del maligno, ma la mia impressione è che qui si ripeta la storia della volpe e dell’uva… Dato che ho la matematica certezza che nessuno mi darà i soldi per starmene tre o quattro mesi in uno studio a lavorare con un produttore, a comporre, suonare, arrangiare, mettere a punto nei minimi dettagli la mia musica, io racconto in giro che non solo non ne ho bisogno, ma non lo voglio, che se anche venisse qualcuno a propormelo io gli direi di no. Voi ci credete?

 

Lasciando da parte le miserie (ma miserie davvero) della scena attuale, torniamo alla questione “gli anni d’oro del rock”. Dicevamo che il culto per il rock dei ’70 si è acceso di riflesso, soprattutto grazie al retro rock, ma – l’ho già sottolineato – non è affatto cosa nuova. Nel campo dell’hard rock, anzi, è una costante. Forse perché l’hard rock è nato proprio negli anni ’70. Forse perché chi ne scriveva già negli anni ’80 era “nato” musicalmente durante il decennio precedente. Ma cosa intendiamo quando diciamo che un qualcosa ha vissuto in un determinato periodo i propri “anni d’oro”? In genere: che durante quell’era sono state create le espressioni più alte, più belle, di quel certo qualcosa, in relazione a tutto quanto è stato fatto prima o dopo. Il problema sta nel determinare un criterio per giudicare la bellezza… e qui casca l’asino, come diceva Totò. Il criterio su cui (pare) la gran parte dei detrattori si basa per giudicare è il proprio gusto personale, o – peggio – un preconcetto nebuloso sulla natura del rock (più o meno duro) fondato largamente su tutti quegli stereotipi che lo condizionano fin dalla sua nascita, e che i detrattori paiono aver assorbito totalmente e non ritengono si possa mettere in discussione (rozzezza, spontaneità, eccetera). Che un ben determinato genere musicale possa aver avuto degli “anni d’oro” è ammissibile, pensiamo proprio all’AOR: chi pratica il genere nella sua forma classica, quella codificata negli anni ’80, non produce al giorno d’oggi nulla che sia comparabile con quanto si faceva trent’anni fa. Ma anche il rock melodico cambia, prende altre forme per adattarsi ai tempi ed è giusto che sia così, ed oggi ci sono tante band che esplorano nuovi territori e non si può giudicare il frutto dei loro sforzi paragonandolo a quanto fatto da altri nel passato. Proporre un confronto tra i Dokken ed i Sixx A.M. oppure i Giant ed i One Desire è privo di senso. Provare a stabilire chi sia “migliore” tra gli uni e gli altri ha lo stesso livello di serietà della citata domanda riguardo le rispettive potenze muscolari di Hulk e Silver Surfer. Eppure, questo tipo di confronto tiene sempre banco. Peggio: viene esteso ad intere epoche musicali. E, non c’è da meravigliarsene, ogni adoratore di un certo periodo storico ritiene che il rock abbia avuto i suoi anni d’oro allora e tutto il resto sia da scaricare nel water più vicino o quasi: quelli che amano la musica degli anni ’50 non vedono nulla che valga la pena dopo Elvis e Chuck Berry; i fanatici dei ’60, portando perennemente in processione le icone dei Beatles, di Jimi Hendix, dei Beach Boys e compagnia, si rifiutano anche solo di prendere atto che qualcuno continuava a suonare musica rock dopo il 1970; chi ha eletto i ’70 come età d’oro del rock non trova quasi niente che possa solleticargli le orecchie fra tutto quanto uscito dal 1980 in poi, e via di questo passo e senza considerare gli specialisti in questo o quel genere: i punk duri e puri che proclamano il rock vero sia nato nel ’77, gli amanti del progressive, dell’heavy metal e via incasellando. Pretendere di individuare – come tanti fanno – degli “anni d’oro” sulla base del gusto è assurdo. Io potrei dire che gli anni d’oro dell’AOR sono stati gli ’80, ma qualcuno potrebbe rispondermi che quanto fatto in quegli anni lo lascia freddo mentre apprezza invece quello che al giorno d’oggi fanno W.E.T., Eclipse, H.E.A.T. È un fatto di gusto e i gusti, di nuovo, non si discutono.

 

E allora, proviamo a lasciarci dietro le spalle qualsiasi pregiudizio su come il rock debba o non debba essere fatto, quello che ci piace e quello che non sopportiamo e tentiamo di individuare qualche fattore oggettivo (se esiste) per assegnare un certo valore alla musica. Gli ’80 ed i primi ’90 sono stati l’ultimo periodo storico in cui le produzioni musicali (non solo quelle rock) erano rifinite allo spasimo, tirate con la pomice. Tanti album venivano sfornati da quelli che oggi apparirebbero dei dream team del rock: l’alleanza fra band, songwriter e produttori non è più stata celebrata su tali livelli. Al giorno d’oggi, solo qualche superstar tipo U2 o Rolling Stones potrebbe permettersi di lavorare a quel modo, e sappiamo tutti benissimo perché: i soldi, dalle parti dell’industria discografica, non si vedono più (non lo dico io, ma chi in quell’industria – o in ciò che ne è rimasto – ci lavora) e, come recita il vecchio adagio, senza soldi non si cantano messe. Anche negli anni ’70 di soldi non ne giravano poi tantissimi e in più c’erano enormi difficoltà tecniche da aggirare (se avete letto qualcuno dei miei articoli dedicati ai produttori pubblicati su Classix! ne avrete ben più che una pallida idea) cosa che rendeva spesso la registrazione di un album una vera battaglia, con i musicisti che invece di concentrarsi sull’esecuzione o gli arrangiamenti dovevano perdere tempo ed energie per inventarsi stratagemmi che gli consentissero di arrivare a mettere sul nastro ciò che avevano concepito lottando contro la modesta tecnologia dell’epoca. È ragionevole, allora, supporre che quanto realizzato negli anni ’80 abbia (quantomeno) una marcia in più rispetto a tutto ciò che era stato fatto prima, perché il materiale sonoro aveva goduto di cure in precedenza impensabili? È follia fantasticare che se (un nome a caso) i Beatles avessero potuto incidere i loro album a quell’epoca, il ‘Sgt. Pepper’ o il ‘White Album’ che conosciamo farebbero al confronto di loro ipotetiche versioni anni ’80 una magra figura? Ah, ma qui l’asino casca di nuovo, potrebbe obiettare il solito qualcuno, osservando che gli ’80 non hanno mai conosciuto qualcosa di paragonabile ai Beatles, che niente venuto da quel periodo ha avuto l’impatto della musica dei Beatles. Ma questo è accaduto perché erano cambiati i tempi, il mondo, tutto quanto. Il rock, mano a mano che il tempo passava, da un solo fiume si divideva in tanti rigagnoli, rivoli, torrenti, tutti rigorosamente separati e distinti. Lester Bangs non sbagliava quando scrisse che l’ultima cosa su cui tutto il popolo del rock è andato d’accordo è stato Elvis Presley: morto lui, non c’è più stata una band, un interprete, qualcosa che potesse unire sotto una sola bandiera chi ama questa musica. Chi aspetta i nuovi Beatles o un altro Elvis è destinato a rimanere deluso, a meno che non ridimensioni le proprie aspettative. Nell’AOR li abbiamo avuti, i nuovi Beatles: sono stati i Journey di ‘Escape’. Ma erano i Beatles dell’AOR, e basta. Nei ’60 i Beatles parlavano a tutti, nel 1981 i Journey di ‘Escape’ potevano essere intesi solo da chi ama il rock melodico, allo stesso modo in cui ‘Thriller’ è stato il ‘Sgt. Pepper’ della black music per gli anni ’80. Rassegniamoci al fatto che già alla fine dei ’70 non c’erano più figure ecumeniche nel rock, il fiume si era diviso e lungo il corso di ogni ramo erano stati innalzati argini invalicabili, fatto che rende ancora più problematico un confronto “artistico” fra periodi tanto distanti e assegnare a tutti i costi ad un determinato periodo il titolo di “età dell’oro”, epoca che tecnicamente non è mai esistita.

 

Viviamo un’era che, in campo rock, ha una componente revivalistica certo molto forte ma, per capire davvero cosa sta succedendo avremmo bisogno di un punto di riferimento che ci dicesse con precisione quali sono i gusti del pubblico: purtroppo, i “mi piace” su Facebook ed il numero di visualizzazioni su YouTube sono soltanto un povero surrogato delle classifiche di vendita, classifiche che oggi non hanno più alcun significato dato che la musica la pagano ormai solo poche mosche bianche che non riflettono necessariamente i gusti dell’immenso sciame di mosche nere come l’inferno che per ottenere musica non pagano più un soldo ormai da anni ed hanno mandato a farsi benedire tutti quei meccanismi su cui ci si basava per una scelta consapevole (“consapevole” soprattutto perché dipendeva dalla capacità del portafogli). Prendiamo comunque quello che abbiamo a disposizione e proviamo a capirci qualcosa… I Lynyrd Skynyrd (tanto per cominciare da qualche parte) hanno 5.713.385 likes su Facebook. Sono tanti? Sono pochi? È più o meno lo stesso indice di gradimento dei Def Leppard (5.357.668 likes) e dei Van Halen (5.858.849 likes). I più acclamati esponenti del retro rock, Rival Sons e Graveyard, stanno parecchio indietro (189.736 e 146.922 likes rispettivamente). Va molto meglio a Joe Bonamassa (2.926.542 likes), che batte di parecchie lunghezze anche una band moderna ed in auge come gli Halestorm (1.313.354) e si trova quasi allo stesso livello di un’altra band di rock moderno, gli Shinedown (2.800.049 likes). Numeri comunque lontani da quelli delle superstar: i Foo Fighters hanno 11.957.183 likes, i Nickelback 18.801.624 e la campionessa mondiale a livello di vendite, Adele, totalizza addirittura 65.492.481 likes. Ma, si potrebbe obiettare, premere un pulsante e dare il “mi piace” non costa niente e comunque ciascuno di quei “like” non identifica automaticamente una persona che ascolta quella determinata band dalla mattina alla sera. Le visualizzazioni su YouTube ci dicono invece in maniera diretta cosa la gente guarda/ascolta, ma i numeri sono in proporzione con quelli di Facebook. Senza farla troppo lunga, confrontate i dati di questi tre videoclip:

Rival Sons – Pressure And Time –  visualizzato 3.556.334 volte;

Nickelback – Photograph –  visualizzato 126.566.280 volte;

Adele – Hello –  visualizzato 1.604.294.032 volte (!!!).

Cosa ci dicono, alla fine, tutte queste cifre? Sintetizzando: la vecchia guardia mantiene le posizioni in maniera dignitosa ma senza imporsi davvero ai più giovani; il rock moderno catalizza l’interesse del grosso dei fruitori (gli under trenta) mentre il retro rock resta un fenomeno di nicchia, e probabilmente tale resterà, soprattutto se consideriamo che i suoi alfieri anziché guardare avanti e cercare di sviluppare un linguaggio autonomo, si lasciano trascinare sempre più nel passato remoto, tentando con una caparbietà al limite del maniacale di rendere la propria proposta musicale assolutamente identica a quella delle band degli anni ’70 (chi ha ascoltato l’ultimo Rival Sons capirà cosa intendo). Dobbiamo/possiamo augurarci un revival degli ’80? Io non lo auspico. Perché il revival è, in sé, una cosa stupida: se va bene, si rivela sempre e solo una minestra riscaldata; se va male, è un superfluo copia & incolla. Oltretutto, con quali mezzi si tenterebbe di andare a ricreare la musica di quegli anni? Tecnologicamente il tempo non è certo passato invano, ma se bastasse la tecnologia a fare grande musica… Se l’industria discografica non troverà il modo di mettere sul mercato il proprio prodotto in modo che questo venga pagato come è giusto e sacrosanto che sia anziché rubato (parola dal suono sgradevole, certo, ma i pudichi eufemismi che vengono usati per definire il furto della musica operato tramite il web costituiscono forse la parte più oscena di tutta la faccenda), non si potrà mai sperare nella realizzazione di opere in quello stile, per pura e semplice mancanza di fondi con cui finanziarli. Assodato che con i guadagni derivanti dal downloading a pagamento e da player tipo Spotify i musicisti mettono assieme giusto gli spiccioli per pagarsi il caffé e le sigarette, alcuni ritengono di aver trovato la soluzione per la sopravvivenza nelle esibizioni dal vivo. La mia domanda è: durerà questa strana foia collettiva per i live? Oppure si tratta solo di una comune moda giovanile, destinata ad estinguersi nel giro di qualche anno? È in ballo il futuro stesso della musica come la conosciamo, e il panorama non induce all’ottimismo.

 

In definitiva, potrei dire che amo certo rock degli anni ’80 perché non mi piace la sciatteria sonora, perché in quella musica sento una voglia di perfezione che successivamente è sparita o quasi, una fantasia negli arrangiamenti che è stata spazzata via dalla necessità di lavorare al risparmio, una raffinatezza nella produzione che pochissimi prodotti odierni possono vantare. La mia “Fool for Your Loving” è e sempre sarà quella con la chitarra di Steve Vai, prodotta da Keith Olsen: con tutto il rispetto per quanto fatto nel 1980 da Micky Moody, Bernie Marsden e Martin Birch, e nonostante il parere di David Coverdale che afferma di preferire la versione originale. Nel 1989, all’innocenza blues si sostituì qualcosa di più complesso, policromo, che dava profondità ad un quadro prima quasi monodimensionale. Naturalmente, la mia preferenza è dettata dal mio gusto e mi rendo conto che oggi faccio parte di una minoranza: poco male. Molti nemici, molto onore, si dice: l’ostilità che certa musica rock degli ’80 si è guadagnata dall’intellighenzia critica forse dovrebbe essere ostentata come una decorazione al merito. Ostilità di vecchia data, non lo dimentichiamo: già negli ’80 c’era chi considerava il rock di gente come Whitesnake o Def Leppard materia per cerebrolesi, esaltando per contrasto il materiale sonoro proposto da REM, Sonic Youth, Smiths e compagnia alternativa. Eppure, il contesto non cambiava, e anche i seguaci di quel certo sound non possono negare che i REM si presero quattro mesi per incidere i quaranta minuti di ‘Green’, i Sonic Youth ne impiegarono due per ‘Daydream Nation’ e gli Smiths non meno di tre o quattro per ‘Strangeways, Here We Come’…