NOTE DAL WEBMASTER

 

 

 

RICORDANDO METAL SHOCK

 

 

 

 

Tanto tempo fa, in una galassia tanto lontana… Gesù, non è stato poi tanto tempo fa, ma sembra davvero che quel mondo sia lontano anni ed anni luce. Prima dell’Era dell’Informazione Spicciola, prima di Google e delle enciclopedie fai-da-te, dei forum e dei blog, del mercato globale e di eBay ed Amazon. A quell’epoca, l’Informazione era fatta solo da libri, riviste e giornali, o da un passaparola vagamente massonico. Farsi una cultura, sopratutto in campo musicale, era un bel problema… Specialmente se la musica su cui volevi acculturarti era l’hard rock. Ancora a metà degli anni ’80, in questo settore era buio completo. Una striminzita paginetta che Rockerilla concedeva a denti stretti e qualche timido speciale. C’erano le riviste straniere, Kerrang e Metal Hammer, ma dove trovarle? E poi, quasi contemporaneamente, arrivarono HM (prima) e Metal Shock (dopo). Il vostro webmaster, al principio si rivolse ad HM, ma la mollò dopo breve tempo per passare a Metal Shock. L’impostazione – a livello sia di grafica che di contenuti – di HM era un po’ troppo da fanzine, pagine e pagine erano dedicate a lettere insulse di metallari altrettanto insulsi, e lo spazio dedicato alle recensioni di dischi era sempre troppo scarso. Metal Shock, scoprii, era un altro pianeta. Almeno nei primi tempi, a livello di composizione certe volte sbrodolava nello psichedelico o nel puro e semplice delirio (tipo: testi neri su fondi color blu scurissimo): la colpa era di un grafico completamente incapace che (lo racconterà poi Giancarlo Trombetti nell’ articolo sulla genesi della rivista pubblicato nel numero 100) in seguito mollerà saggiamente la fotocomposizione per mettersi a fare l’assicuratore. La forza erano i contenuti, con uno sguardo davvero a 360 gradi su tutto ciò che era hard rock, ed una finestra aperta in permanenza sul prog: insomma, dal thrash all’AOR, dagli Slayer ai Journey. Ed uno spazio fisso, le Shock Relics, dedicato a ogni genere di vecchi dischi rock. L’unica vera eccentricità era una rubrichetta saltuaria che si chiamava Magik, e trattava proprio di magia, incantesimi e puttanate di questo genere, che fortunatamente sparì dopo una trentina di numeri, quando la periodicità era già passata da mensile a quindicinale.

Non vi era una vera e propria divisione in generi, voglio dire che la rivista non funzionava a compartimenti stagni ed i collaboratori, pur presidiando di preferenza certi settori, potevano occuparsi di tutto o quasi, ma certo era facile accoppiare nomi e generi musicali. Il settore prog rock era coperto quasi in esclusiva da Sandro Pallavicini prima ed Ezio Candrini poi, Heintz Zaccagnini si occupava di hardcore e punk, Klaus Byron di tutto quanto era metal italiano, Beppe Riva, Tiziano Bergonzi e Paolo Cossali spaziavano un po’ su tutto, ma l’hard melodico ed l’heavy metal erano i loro settori di competenza, anche Giancarlo Trombetti, fondatore e primo direttore di Metal Shock, non si poneva limiti di genere, e poi Giancarlo De Chirico (che ebbe l’onore di recensire il Black Album dei Metallica), Tim Tirelli (autore di magnifici articoli monografici sui maggiori chitarristi rock e metal), Giulio Masetti, Massimo Giannini, Gianni Della Cioppa, Fabrizio Massignani, il transfuga da HM Alessandro Massara, ciascuno più o meno specializzato in questo o quel settore, e altri che si persero subito per strada, come Cristiano Gentili e Renato Ferro. A voi, naturalmente, questi nomi non dicono nulla, ma per me erano fari, aghi magnetici, se leggevo il nome di Zaccagnini in fondo ad una recensione non perdevo tempo a leggerla, chi se ne fregava dell’hardcore? Chi catalizzava la mia attenzione era Beppe Riva, l’uomo che ci ha insegnato a pronunciare l’acronimo Adult Oriented Rock, che ha coniato l’espressione chic rocker, il nostro tramite, insomma, con il rock melodico: sempre elegante, obiettivo, preciso, misurato, di una cultura musicale enciclopedica. Dopo qualche tempo aprì nel giornale uno spazio dedicato solo all’AOR, battezzato AOR Heaven, pura goduria a scadenza mensile tra novità e classici più o meno conosciuti. Nelle interviste che ha rilasciato qualche anno fa a diversi siti web, però, parlando dei suoi generi prediletti all’hard melodico non ha mai accennato, dando di sé un’immagine tutta prog & metallo & hard rock anni ’70. Anche Tiziano Bergonzi trattava l’AOR, ma in un suo modo tutto particolare: è lui l’individuo di cui parlo nella recensione degli Harlow, la persona che (mi faccio l’autocitazione…) “aveva la pessima abitudine di descrivere le canzoni mediante una serie di metafore contorte, ossimori improbabili ed iperboli ridicole”: insomma, le sue recensioni più che leggerle occorreva decifrarle. Comunque, se Bergonzi diceva che il disco era buono, ci si poteva fidare (ma non sempre e comunque: la stroncatura delle Cell Mates era ingiusta e immeritata), anche Cossali era una quasi-sicurezza (toppò però clamorosamente sul secondo Lynch Mob e sottovalutò criminalmente i Southgang). Su quello che scriveva Beppe Riva non c’era ovviamente discussione, i suoi giudizi su un disco erano vangelo, tanto più che lui stesso, se aveva preso un mezzo abbaglio, aveva l’umiltà e l’intelligenza di emendarsi (come fece quando recensì il secondo album dei Baton Rouge e corresse verso l’alto il voto soltanto medio dato al primo disco). Giancarlo Trombetti lasciò poi la rivista che si era tanto adoperato per far nascere e approdò a Videomusic, che fu la prima rete TV musicale italiana e ha chiuso i battenti da diversi anni.

La lettura delle recensioni che ogni due settimane si ripeteva puntualmente era fonte di delizie e tormenti. C’era, innanzitutto, l’aspetto puramente finanziario (chi poteva comprarsi tutti quei dischi?) e poi quello pratico: gli album, spesso e volentieri, non si trovavano nei negozi, quelli di AOR ancora meno degli altri. Il primo di Sass Jordan, per esempio, che pure era pubblicato da una major, ed i casi grotteschi degli album di Signal e Paul Laine. La caccia ai dischi editi dalle etichette indipendenti generalmente finiva sempre con un nulla di fatto, a meno di non rivolgersi a qualche mail order che faceva prezzi pazzeschi. Ma che soddisfazione quando riuscivi finalmente a mettere le mani su uno di quei piattoni di vinile, e che esotica delizia erano i nuovi (all’epoca) compact disc: piccoli, iridescenti, immuni a polvere, usura e strapazzi…

A partire dal numero 50 arrivò Kakka Metal, due pagine gestite da un giovane Francesco Pascoletti che si firmava “Stronzon”, e con la complicità di un disegnatore e la benedizione di Giancarlo Trombetti, metteva alla berlina cliché e mitologia dell’heavy metal, scivolando però il più delle volte sul terreno delle offese e degli insulti gratuiti: i suoi bersagli preferiti erano i Judas Priest, Ronnie James Dio ed i Saxon, ma neppure Bon Jovi o i Metallica si salvavano da valanghe di improperi che con assoluta disinvoltura Pascoletti riversava anche sulla rivista concorrente HM e perfino sui collaboratori di Metal Shock. Anche Beppe Riva – dopo che Trombetti aveva già lasciato la rivista per Videomusic – abbandonò Metal Shock per tornare brevemente a Rockerilla, passare un brevissimo periodo a Thunder e poi rinunciare del tutto al giornalismo musicale. Pascoletti chiuse Kakka Metal ed entrò nella redazione regolare con un altro pseudonimo, Fuzz Fuzz, diventando dopo qualche tempo il nuovo direttore di Metal Shock, succedendo a Fabrizio Massignani. Nel frattempo era scoppiato il Grunge, che Alessandro Massara aveva scoperto con almeno un paio d’anni di anticipo rispetto alla concorrenza: ne fu immediatamente sedotto, battezzandolo “hard rock moderno” e magnificandolo fra la generale ilarità dei colleghi finché nel 1991 arrivarono i Nirvana a dargli ragione (ma ‘Nevermind’ non lo entusiasmò tantissimo, lo trovò troppo commerciale). Bergonzi prima e Cossali poi lasciarono la redazione, Pascoletti scrisse al principio anche di hard melodico ma in maniera incostante e nevrotica, certe band lo mandavano al settimo cielo (i White Lion ed i Coney Hatch, per esempio) altre le metteva ingiustamente in ridicolo (la recensione del secondo Blue Murder gridava vendetta), i suoi gusti stavano cambiando, alternative, noise e industrial erano i suoi nuovi poli d’interesse, molto meglio faceva Gianni Della Cioppa, che poi lasciò quasi del tutto il settore ad un nuovo collaboratore, Fabio Zampolini, il quale però aveva il difetto di sbrodolare su album inconsistenti, mandando in paradiso vere e proprie ciofeche come i Takara o i Monster e assegnando lo status di capolavoro a dischi appena decenti come il primo dei C.I.T.A.. A sua (parziale) scusante bisogna ricordare che l’AOR era entrato nella fase più cupa della sua storia, a metà degli anni ’90 pareva che il rock melodico stesse per tirare le cuoia ed il mercato viveva di stenti e band minori. E Metal Shock seguiva i nuovi trend, diventando sempre più lontana parente della rivista fondata da Trombetti. Pascoletti le dette un taglio sempre più adolescenziale, fino al fatidico numero 227, quando firmò un sibillino editoriale (che poi tanto sibillino non era, dopotutto), l’ultimo prima che lui ed una buona parte dei collaboratori di quell’epoca (Della Cioppa, Zampolini ed altri) lasciassero di colpo Metal Shock per fondare Psycho. “Fatidico”, quel numero, perché quando nel fascicolo successivo trovai la redazione rivoluzionata e come nuovo direttore il maniaco del death metal Cristiano Borchi, scoprii che nulla più mi attraeva in quelle pagine e mi rivolsi al mensile Flash, diretto da Klaus Byron, nato come costola di Metal Shock, concepito come una sorta di supplemento monografico e poi evolutosi come rivista del tutto indipendente.

Fu la fine di una love story durata quasi dieci anni, una relazione che negli ultimi tempi si trascinava stancamente ma al principio era tutta fuoco e passione. Perché le pagine di Metal Shock erano, prima e più di tutto, un’ oasi in cui trovare rifugio, una muta chiacchierata che ogni due settimane intrattenevo con chi aveva gusti musicali uguali ai miei. Chi frequentavo all’epoca ascoltava Madonna o gli Wham, Venditti o De Gregori. I pochi metallari che conoscevo mi parevano ancora più lontani dalla dimensione musicale in cui più mi trovavo a mio agio: chi andava in giro con una maglietta degli Slayer addosso non voleva neppure sentir parlare di gente come Ratt o Poison, naturalmente. Ma poi arrivava Metal Shock, e Beppe Riva che scriveva dei Bad English o degli House of Lords o dei Giant o dei Lynch Mob (ti succede ancora di ascoltare quegli album, Beppe?) ed era come se si aprisse una finestra su un panorama sconfinato. Oggi basta aprire l’Explorer o Firefox per trovare quante finestre vogliamo. È diventato tutto facile. Puoi metterti in contatto con amanti del rock melodico dall’Argentina al Giappone. Puoi comprare qualsiasi disco vecchio o nuovo, oppure scaricartelo gratis. Conoscere vita e miracoli delle band più oscure. Abbiamo indubbiamente guadagnato tanto, tutti. Ma abbiamo anche perso qualcosa: perché quando, come avviene oggi, tutto diventa troppo facile, il risultato ottenuto finisce sempre per avere un sapore meno intenso, o sciapo addirittura. No pain, no gain, dicono gli yankees, e non hanno torto, non si guadagna nulla se non si soffre almeno un po’. Forse una parte della mia devozione all’hard rock melodico viene proprio dagli sforzi e dall’impegno che ho profuso per anni tentando di seguirlo e conoscerlo fra mille ostacoli, quando a certi dischi bisognava dare letteralmente la caccia e venire a sapere qualcosa su una band era spesso un miracolo insperato. Quella stagione si è chiusa, e Metal Shock è sparita da qualche anno, divorata dal web o da una gestione malaccorta, non lo so e dopo tutto non mi importa, la mia rivista era già defunta da anni ed anni, e come lei non ce ne sarà mai più un’altra. È sulle sue pagine che ho imparato come si deve scrivere una recensione, come si legge un album e si tenta di descriverlo a chi non lo ha ancora ascoltato, ma anche questo è diventato oggi, probabilmente, un esercizio inutile, dubbi e perplessità si possono superare andando a sentire direttamente il disco tramite il web, e allora? Parole al vento, forse. O solo un modo per sentirmi più vicino a quella stagione irripetibile e magari far finta per qualche attimo che le cose siano ancora quelle di un tempo, quando ogni quindici giorni le pagine di Metal Shock attizzavano ardori e speranze che solo chi ha vissuto la realtà pre-web può comprendere. E magari, nonostante tutto, sentirne terribilmente la mancanza.