AORARCHIVIA

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GOTTHARD

 

 

  • LIPSERVICE (2005)

Etichetta:Nuclear Blast Reperibilità:in commercio

 

Quando un genere musicale esce dalla luce abbagliante dei riflettori, non riesce a far più presa sul grande pubblico e continua a essere seguito soltanto dai fan duri & puri si verifica un cambiamento singolare nella sua scala dei valori.

In teoria, il fan d&p dovrebbe essere molto competente riguardo il genere musicale di suo (quasi) esclusivo interesse. Ha ascoltato tanto e dovrebbe sapere bene quali sono le band, gli interpreti che durante gli anni d’oro hanno inciso le cose migliori, quelle che hanno fatto scuola e sono state prese come punto di riferimento. Il fruitore generico di musica hard rock, quello che nel 1980 ha comprato ‘Back in Black’, nel 1985 ‘Theatre of Pain’ e nel 1991 ‘Nevermind’ si è limitato a prendere quello che la radio e MTV gli scaricava nelle orecchie: bastava che la band fosse alla moda e agghindata come i trend comandavano. Ascoltare certe cose non era un fatto di gusto, ma di tendenza, uno dei tanti modi per stare nel mucchio, l’esigenza prioritaria per l’essere umano medio. Per questa categoria di ascoltatori, passare dai Mötley Crüe ai Nirvana è stato quasi un obbligo sociale e la conversione al nuovo sound di moda del tutto indolore. Per il fan le cose stanno, naturalmente, in maniera diversa. Ribellandosi al mutamento di gusti in atto, vede le proposte del genere che gli è caro ridursi in numero. E, pure, in qualità. Ma questo, pare, non lo tocca. Dovrebbe essere capace di valutare quanto gli viene offerto, invece, di colpo, la sua vista si abbassa e una strana forma di miopia o astigmatismo lo affligge ogni volta che spunta all’orizzonte un nuovo album. Tutto ciò che rientra nei confini del suo genere prediletto diventa accettabile, e quasi tutto va dal buono all’ottimo, con i classici che, all’improvviso, fioccano. Si sprecano superlativi per dischi che un tempo sarebbero stati giudicati idonei solo a fare da estemporanei bersagli in una gara di tiro al piattello, ci si genuflette davanti a band a cui pochi anni prima veniva spontaneo suggerire di mettere da parte gli strumenti musicali e proporsi piuttosto come manodopera non specializzata alle aziende agricole di stampo tradizionale.

Tutto questo in generale, e per qualsiasi genere musicale. Focalizziamo sul rock melodico, adesso.

All’incirca a partire dal 1993, il rock melodico è passato di moda e viene seguito esclusivamente dai fan d&p. Molti (quasi tutti, temo) hanno vissuto gli anni d’oro del genere e dovrebbero avere le idee ben chiare su ciò che è schifoso, decente, accettabile, grazioso, buono, ottimo o eccezionale. Anche se i gusti personali sono sacrosanti, non possono diventare la base di una valutazione assoluta. Non si può sostenere a spada tratta che un album è eccezionale solo perché ci piace o, peggio, perché ci ricorda più o meno bene un altro album che è eccezionale per davvero. Eppure, questo è quanto accade al giorno d’oggi nel rock melodico (e non solo). Le scale di valori sono state appiattite. TUTTO è bello. È vero che i presunti nuovi classici vengono di solito dimenticati un paio di mesi dopo l’uscita, ma questo accade anche (credo) perché non si è più in grado di distinguere quello che è davvero buono (e ogni tanto, qualcosa di veramente buono spunta) da ciò che non lo è per niente.

Stringiamo ulteriormente l’inquadratura e puntiamo l’obiettivo sui Gotthard. Già la provenienza della band dovrebbe metterci almeno un po’ sul chi vive: la Svizzera. Che tradizione in fatto di rock (melodico o meno) ha il paese delle banche e delle cliniche per milionari? Quali band svizzere vi vengono in mente, così, di primo acchito? I Krokus, suppongo. Magari i China. Colonne della musica rock, vero? E se la band di Marc Storace (Francesco Pascoletti, ai bei tempi che furono, coniò per il cantante di origine maltese una perfetta definizione: il “pecoraro metal”) qualche buon risultato in termini di vendite lo ha ottenuto (due dischi d’oro negli USA con ‘Headhunter’ e ‘The Blitz’), tutti gli altri non hanno inciso né punto né poco. Se ‘Lipservice’ è l’ album migliore dei Gotthard, i fan non lo hanno ancora deciso: c’è chi elegge ‘Dial Hard’, chi ‘Human Zoo’. Di certo, questo è l’album che su Heavyharmonies ha il punteggio più alto, 89/100: è stato messo quindi alla pari con i Bad English del primo album (!!), un punto sopra i Journey di ‘Frontiers’ (!!!), e appena uno sotto i Def Leppard di ‘Hysteria’ (ma ben due sopra quelli di ‘Adrenalize’). E il confronto con i Leppard è pertinente, dato che il sound codificato dalla band di Sheffield è il chiodo quasi sempre fisso dei Gotthard su questo disco.

Capiamoci: non sto a sostenere che ‘Lipservice’ fa schifo. È soltanto un album derivativo al cento per cento, con un songwriting competente ma ben lontano dall’essere, non dico geniale, ma almeno un filo originale. Tanti bei riff, ma tutti presi a prestito da questo o quel brano iconico. E melodie alla Def Leppard come se piovesse. Da questa matrice la band si allontana solo poche volte: in “Stay for the Night” rifanno i Deep Purple in versione rock melodico, “Anytime Anywhere” è un class metal drammatico vagamente Scorpions (con le parti di tastiere riprese quasi pari pari dalla “The Nightmare Begins” degli Steelhouse Lane), “Said and Done” trae invece spunto dagli Whitesnake in versione americana con l’aggiunta di un refrain molto svedese. In quasi tutto il resto, i Leppard dominano la scena, in certi frangenti sfacciatamente (“Everything I Want, “I Wonder”), in altri in maniera un po’ più sfumata. C’è molto di buono, certo: “Lift U Up” è un anthem arena rock che procede a passo di marcia tra i riffoni AC/DC, il class metal “Dream On” ha un bel riff dondolante alla “Peter Gunn”, “I’m Alive” è impostata su un riffing agile (un po’ Winger, un po’ Mike Slamer) e ha un cantato aggressivo, “Nothing Left at All” è una ballad piacevole e solare. Ma tutto questo non basta certo a farne non dico un capo d’opera, ma neppure un classico minore. È il prodotto di una band che non si sforza neppure un po’ di essere originale o di avere un sound proprio, buoni artigiani che non sanno o non possono andare oltre il mero ricalco: fatto con buon gusto e una certa abilità, ma sempre ricalco, ossia riproposizione di stilemi altrui, neppure temperata da un songwriting d’eccezione.

E allora, godiamoci pure i dischi dei Gotthard, ma senza esagerare nel cantarne le lodi. Prendiamoli per quello che sono, senza ingigantirne la statura fino a livelli non solo irreali ma anche – a seconda dei punti di vista – indecenti o ridicoli.

 

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REGATTA

 

 

  • REGATTA (1989)

Etichetta:BMG Reperibilità:buona

 

Il leitmotiv che accompagna l’unico parto dei Regatta fin dalla sua uscita (un ritornello spuntato dalla prima recensione che lessi nel lontano 1989 e ritrovo quasi pari pari fra i commenti di Heavyharmonies) è il seguente: le prime due canzoni sono fantastiche, il resto è quasi da buttare.

Verità o leggenda? E se c’è una leggenda nera che ammanta questo disco, da cosa è scaturita?

I Regatta erano canadesi, formati da Chris Smith (chitarre e voce), l’ubiquo Matthew Gerrard al basso e Greg Critchley alla batteria. Le non indifferenti parti di tastiere erano opera dei session player Lou Pomanti e Richard Evans, mentre della produzione si incaricò David Bendeth (Wrabit, Big House, Sven Gali, Bruce Hornsby, SR 71).

L’apertura è affidata a “Wherever You Run”, che importa gli U2  nel rock melodico secondo la lezione dei Diving For Pearls nelle strofe, mentre il refrain fa molto più AOR canuck alla Glass Tiger o Honeymoon Suite. Anche nella successiva “This Is Love” troviamo una parte di chitarra che arieggia quelle di The Edge ma inserita in un contesto decisamente Honeymoon Suite fatto di bei chiaroscuri. Netto cambio di scenario con “Give Me a Sign”, che guarda piuttosto in direzione Boulevard e The Works, con piacevoli sfumature funky e r&b, mentre “Matter of Time” è una power ballad con qualche tratto Journey e un finale strumentale tutto d’atmosfera. Ancora più lontana dal sound dei primi due brani si porta “Heartbreaker”, che è tutto un divertente pulsare funky danzereccio spezzato dai flash di chitarre e keys e dal refrain pop e sulla stessa lunghezza d’onda sono sintonizzate “Wild Girls”, che ha un andamento robotico e la solita chitarra funky ma possiede vibrazioni più nettamente hard rock e anticipa quanto gli Haywire faranno poi su ‘Get Off’, e “Confidential Information” che con la sua vena r&b richiama alla mente anche i Dan Reed Network. Nell’ AOR funky di “Writing on the Wall” spiccano il basso agile e i flash di tastiere, “I Will Be There” è una power ballad che si snoda tra imponenti sciabolate di chitarra, cori e keys che a volte salgono fino ad altezze pomp. “Devils in Disguise” torna al funky hi tech in versione hard melodico, nel refrain alla Honeymoon Suite risuona di nuovo una chitarra simil U2, “Moonlight” chiude le danze (letteralmente) con un stesura più pop alla maniera dei Loverboy o dei primi Glass Tiger, sempre un po’ funky e con un andamento ritmico vagamente dance.

A me non pare che tutto quanto viene dopo “This Is Love” sia da scaricare nel water più vicino. C’è piuttosto una differenza a livello di sound abbastanza netta fra le prime due track e quasi tutto il resto che (suppongo) è stata la base della leggenda nera, propalata (mi pare evidente) da gente a cui le commistioni tra rock melodico, funky e ritmiche da dance music poco dovevano piacere. Leggenda che deve aver condizionato non poco la fama della band, considerato che la prima ristampa di questo eccellente disco è arrivata solo nel 2024 per la Melodic Rock Records di Andrew McNiece, completata da un secondo album di inediti, intitolato ‘No Looking Back’.