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Nel suo paese (il Canada) Tom Cochrane non è semplicemente una star, ma un personaggio. Caterve di premi, croci di cavaliere, colonnello onorario di uno stormo della RCAF, lauree ad honorem… sembra che i canadesi non sappiano cosa altro dargli o fargli. A quando una statua o perlomeno una strada intitolata al suo nome? Bryan Adams ha certo venduto in patria (e fuori, ovviamente) più dischi di lui, ma in quanto a prestigio, è rimasto qualche chilometro indietro. Saltiamo le sue prime prove soliste (esordì nel 1975) e gli anni con i Red Rider (poi Tom Cochrane & Red Rider) e arriviamo all’album che lo ha fatto conoscere anche fuori dal Canada, quel ‘Mad Mad World’ che ottenne il disco d’oro in USA nel 1992. Prodotto da Joe Hardy, supportato da una backing band di gran livello (il suo ex pard nei Red Rider John Webster alle tastiere e poi Kim Mitchell, Mickey Curry, Keith Scott, Mladen e tanti altri), ‘Mad…’ godeva di una produzione faraonica e un songwriting efficace e molto vario, anche se una buona metà del materiale era focalizzato su un rock da FM che traeva le sue fonti di ispirazione nella stessa misura da Bryan Adams e Tom Petty (ma dimostrando, a volte, una decisa preferenza per il secondo, proiettato in una dimensione sempre molto cromata): la scatenata “No Regrets”, col suo notevole crescendo strumentale; i bei chiaroscuri hearland di “Sinking Like a Sunset” e “Everything Comes Around”; la ballad d’atmosfera “The Secret is to Know When to Stop”; “Bigger Man”, dall’arrangiamento movimentato; le sfumature U2 di “Friendly Advice”. Il resto? Saltate pure la canzone d’apertura, “Life Is a Highway”, uno strano pop rock funky con un’ armonica country più fastidiosa che altro e andate dritti alla title track, col suo crescendo variopinto: parte con le strofe d’atmosfera, spara un refrain r&b un po’ lunatico sovrapposto a imponenti riffoni di chitarra a cui si aggiunge una sezione fiati imponente dopo il bridge arena rock. “Washed Away” esplora i territori dell’AOR più sofisticato, ben bilanciata tra tastiere suggestive e chitarre, ma “Brave and Crazy” è un altro colpo da maestro, fra le strofe country blues e il coro arena rock che si snoda tra keys potenti e intrecci di chitarre policrome. Sublime riesce anche “Get Back Up”, sorta di southern rock hi tech misterioso e fascinoso, che nella seconda parte diventa sfrenata e adrenalinica, mentre “Emotional Truth” è un pop rock cerebrale che sale in lento crescendo, e “All the King’s Men” chiude le danze con una ballad dai toni heartland. La produzione, come già annotato, è stellare, gli arrangiamenti sempre sontuosi e a volte sorprendenti, e stupisce che un album del genere abbia venduto mezzo milione di copie negli States quando il sound lercio e depressivo degli zozzoni di Seattle teneva banco. ‘Mad Mad World’ venne ristampato nel 2016 in versione doppio CD o LP, con l’aggiunta di un live registrato nel 1992, ma è reperibile con facilità e figura anche su Amazon Music. Per chi ama il melodic rock più sofisticato e tutt’altro che prevedibile, è un ascolto irrinunciabile.
A dispetto delle affermazioni (ovviamente) interessate di chi cerca di vendercele, le raccolte di demo hanno, sempre e comunque, un valore molto discutibile. Al meglio, i demo sono canzoni ancora in brutta copia, da affinare e registrare come si deve. AOR Heaven, quando mise in commercio questo CD intestato a una band fantasma di cui si favoleggiò a lungo (per due motivi fondamentali: la produzione di Roy Thomas Baker e le tastiere opera di Mike Prince dei Legs Diamond), affermò di aver pubblicato un vero e proprio album unreleased, ma l’ascolto dice invece che queste dodici canzoni sono solo dei demo, probabilmente confezionati in fase di preproduzione. Ce lo dice la qualità audio che va dal buono all’appena decente, e spesso è altalenante all’interno di una singola canzone (su “The Children Will Dance”, ad esempio, la qualità audio è buona nelle strofe d’atmosfera ma diventa mediocre nel refrain alla Journey), e anche una vaga sensazione di “non finito”, come se questa fosse musica ancora in gestazione. Che poi il materiale qui proposto meritasse di essere favoleggiato… A me sembra che i Roq Royale fossero una band tutt’altro che geniale. Sapevano fare bene il loro compitino, ma niente di più. Personalità zero e una discreta abbondanza di citazioni, sia pure ben ambientate. I riferimenti sono i soliti: Journey e Autograph per il grosso, con qualche puntata nell’universo Van Halen (in “Never Felt Like This”), un brano che arriva praticamente al plagio dei Bon Jovi nel refrain (“Find It Out the Hard Way”), un altro che suona molto britannico (“Tempted”), due power ballad e una canzone che comincia come una ballad acustica alla Firehouse diventando poi un metal californiano (“Someone Is Waiting”). Mike Prince addobba di pomp più di una track, ma senza mai esagerare e il registro resta elettrico lungo tutto l’arco di un disco non malvagio ma neppure memorabile che, tutto sommato, AOR Heaven avrebbe potuto tranquillamente lasciare nel limbo degli unreleased senza che la storia del rock melodico ne venisse turbata.
Da una band che sceglie come moniker il titolo dell’album celebre di una band celeberrima cosa ti aspetti, di solito? Scopiazzature della band celeberrima, no? Ma non è questo il caso. Band formata da gente non esattamente alle prime armi, i Double Vision. Al basso c’è Scott Metaxas (Prophet, ma c’è poi bisogno di ricordarlo?), al microfono Chandler Mogel (Outloud), dietro i tamburi troviamo Scott Duboys (Warrior Soul, Nuclear Assault), mentre Paul Baccash e Chris Schwartz (chitarre) e Alex Lubin (tastiere) non sembrano avere trascorsi di rilievo. E questo suo primo album, com’è? Comincia un po’ in sordina con “Prison of Illusion”, una melodia al crocevia di Journey e Foreigner ma sotto non c’è praticamente nulla, soltanto un grattare di chitarre. Va meglio “No Fool for Love”, tra i riffoni AC/DC e quel piano martellante che fa così Toto e la melodia fresca, mentre “The Man You Make Me” è una ballatona tutta acustiche e tastiere d’archi con qualche spunto moderno. I Foreigner occhieggiano fra le note di “I Know the Way” (che ha comunque una non trascurabile componente heartland), “Youphoria” è un hard melodico abbastanza Journey, “Look Out for Me” disegna un’altra ballad elettroacustica dal crescendo gentile. Dopo lo strumentale “Transient Times” (breve, tutto pianoforte e un mellotron che arieggia quello della “Tarot Woman” dei Rainbow), arriva “Silence Is Louder”, bell’impasto chitarre/tastiere che traduce (nella mia testa, almeno…) le melodie di Elton John nel linguaggio del rock melodico, aggiungendo una punta di Gary Moore e Foreigner. “Church of the Open Mind” ricalca la struttura di “I Know the Way” e molto bene riescono “Once Before”, con quelle tastiere scoppiettanti e la vena r&b, e la power ballad in chiaroscuro “A Stranger’s Face”. “This Day and Age” spara un buon hard’n’roll, completato dall’indispensabile e per nulla banale pianoforte indiavolato, “Love Could Rule” chiude le danze portando l’r&b in un contesto AOR fra acustiche, elettriche, tastiere e variegati impasti vocali. Insomma, l’album inizia non proprio benissimo, ma cresce e alla distanza convince. A una produzione ottima e una resa fonica eccellente si contrappongono le timbriche opache delle chitarre e un mixaggio un po’ troppo piatto, ma non c’è nulla con cui non si possa convivere. Pur con i suoi limiti, è una delle cose migliori uscite in quest’anno così scarso di buon rock melodico e il fatto che anche ‘Double Vision’ sia opera di una band formata per la metà da vecchi ronzini non induce all’ottimismo riguardo lo stato di salute del nostro genere.
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