I primi due album degli 8084 (‘Love & War’ è il secondo) hanno sempre goduto di buona stampa, ma si fatica a comprenderne il motivo. La produzione di Hirsh Gardner è essenziale – in più di un frangente, proprio tirata via – e la band si muoveva indecisa tra un AOR sempre molto robusto e venato di pomp e un hard melodico dalla forte impronta heartland, senza eccellere particolarmente in nessuno dei due generi. Se “Too Late For Love” era fin troppo Journey, arrivando a rubare qualche secondo di “Separate Ways”, “Hideaway” ricordava i Giuffria del primo album trasposti in una dimensione molto meno rarefatta: nota di demerito per il singer Randy Smith, che cantava il refrain su toni talmente tronfi e teatrali da risultare ridicolo. La power ballad “Lonely At The Top” aveva sfumature pomp e molte tastiere ma Randy Smith riusciva a sciuparla in toto, insistendo a esprimersi con dei toni solenni che la sua voce rauca proprio non riusciva a modulare in maniera convincente, mentre “She Comes To Me” faceva molto primi anni 80, caratterizzata dalle keys programmate col sequencer. Qui terminava il lato A del disco di vinile (‘Love & War’ venne edito solo su LP e cassetta): girato il piattone, si poteva anche credere di essere finiti in un altro album, dato che su “(She’s On) Fire” le tastiere sparivano e il suono si faceva sleaze e hollywoodiano. “Somebody Like You” pareva ispirata dai primi Bon Jovi, e anche qui di tastiere non c’era traccia, “Rosita” proseguiva il discorso addentrandosi ancora più in territori heartland, con le keys che ricomparivano per il tramite di un bel pianoforte. La title track concludeva le danze riprendendo le tematiche del lato A, drammatica alla maniera dei Triumph, ma le suggestioni pomp venivano smorzate da un mixaggio che spingeva le tastiere troppo in fondo allo spazio sonoro. Pare che la registrazione di ‘Love & War’ sia stata molto tormentata: avevano trovato un deal con la filiale canadese della CBS (inizialmente il disco doveva essere prodotto addirittura da Aldo Nova), ma dopo quattro mesi di incisioni a Montreal la major ruppe il contratto. La band si rivolse allora a Hirsh Gardner che completò in qualche modo le registrazioni, poi pubblicate dalla stessa etichetta che aveva edito il primo album. Comunque sia andata, resta il fatto che ‘Love & War’ è il parto nient’affatto memorabile di una band che sembrava afflitta da una crisi d’identità riassumibile nella domanda: facciamo AOR o hard rock? Ignoro se negli album successivi siano riusciti a venirne a capo o se la siano trascinata dietro fino alla fine della carriera. La reperibilità di ‘Love & War’ è minima e i prezzi elevati (anche cinquanta dollari, e per le cassette): collezionisti e completisti assatanati, gli unici che – a mio sempre fallibile giudizio – possono essere interessati a entrarne in possesso, sono avvisati…
Strano come certi dischi che hanno tutto per far rizzare le orecchie a chi ama il nostro genere siano passati quasi del tutto inosservati. Neppure il tempo è riuscito a dargli presso il popolo dell’AOR una consistenza meno fantasmatica di quella che avevano quando fecero la loro comparsa sugli scaffali dei negozi. E, insomma, se con gli Aviator, i Surgin’, i Beau Geste il tempo si è dimostrato galantuomo, con i Bridge 2 Far ha tenuto un contegno meno signorile. Pochi li notarono ai bei tempi che furono e pochi se li ricordano oggi. Chi erano, i Bridge 2 Far? Un duo, formato dal cantante e polistrumentista Mark Williamson (molto richiesto come backing vocalist: lavorò, tra gli altri, per Roger Daltrey) e il session drummer John Robinson (Discogs gli accredita 1119 performance alla batteria, soprattutto tra artisti di pop e black music di alta classifica). Per incidere questo loro primo e unico album radunarono un piccolo esercito di session men, tra cui spiccavano Michael Landau, Steve Lukather e Clem Clempson alle chitarre e David Paich e Alan Shacklock (anche produttore) alle tastiere. Apre le danze “Heaven On Earth”, soft nelle strofe, il volume aumenta nel refrain, ben bilanciata tra tastiere e chitarre, con piacevoli tocchi di sassofono che fa anche l’assolo. Se “I Must Be Blind” è una power ballad d’impianto classico, tramata di bei chiaroscuri alla Foreigner, “Say You Will” esplora i territori del funky AOR con tentazioni dance e spara un magnifico refrain solare. “Anyone Out There”, sofisticata e divertente, viene smaltata di suggestioni r&b amplificate dalla sezione fiati, mentre le atmosfere della band di Mick Jones si insinuano anche nella ballad “Caught Inside Your Heart”. Cambio di scena con “We Got A Way”, il peso massimo del disco che procede fra belle chitarrone, una melodia fresca e il refrain che inclina decisamente all’anthemico, poi una ballad squisita, “Hold You Tonight”, di nuovo debitrice dei Foreigner: pianoforte, tastiere, lampi di chitarra, un refrain sussurrato, grande atmosfera. “Straight To The Heart”, pop rock dal sontuoso arrangiamento e una splendida linea melodica, precede “This Is Killing Me”, che chiude il disco con la sua perfetta interazione chitarre/tastiere: divertita e un pelo nevrotica secondo lo spirito dell’epoca, completata da un assolo spettacolare e tirato. Insomma, grazie anche alla produzione di gran classe, ‘Bridge 2 Far’ risultava un vero gioiellino dell’AOR sofisticato in voga al tramonto dei Big 80s. Pubblicato da una label tutt’altro che scalcinata, avrebbe dovuto riscuotere ampi consensi, invece fu una delizia per pochi, e tale è rimasto: l’unica ristampa è quella che la filiale giapponese della Sony fece nel 2013, i prezzi variano ma per i CD sono abbastanza sostenuti (difficile trovarlo a meno di una ventina di euro), più abbordabili i vinili (in genere venduti a meno di dieci): salassi comunque sopportabili per poter entrare in possesso di un album che molto più di tanti altri meriterebbe una riedizione.
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