Chi bazzica Heavyharmonies – e credo che chiunque ami il nostro genere non possa farne a meno – sa che, non essendo umanamente possibile registrare tutto quanto è stato pubblicato sul globo terracqueo in fatto di rock melodico, non è strano (e certo non è inammissibile) che questo o quell’artista manchino dal data base par excellence dell’AOR. Però certe lacune si possono spiegare solo con la distrazione o la trascuratezza di chi lo gestisce e vi partecipa. Vai a cercare la David Carl Band e ci trovi un solo album, ‘Can’t Slow Down’ (1998) e finisci per credere che quell’unico disco sia tutto quanto la band ha prodotto. E invece ce n’è un altro, ‘Gypsy Soul’, uscito due anni prima per una piccola label americana, la Birth Right Records, ovviamente molto raro ma non impossibile da trovare e venduto in genere ad una trentina di dollari negli USA. ‘Can’t Slow Down’, pubblicato dalla MTM in Europa è (ovviamente) più facile da reperire, e anche ad un prezzo più basso, fra i dieci e i quindici euro. ‘Gypsy Soul’ non ho avuto la fortuna di ascoltarlo, ma di ‘Can’t Slow Down’ posso dirvi che è un gran bel disco. Prodotto da Jim Peterick come il suo predecessore (ma nel 1996 con Jim c’era anche il suo ex socio dei Survivor, Frankie Sullivan, dietro il banco del mixer), registrato senza risparmio con una vera e propria parata di session men a supportare David Carl (chitarra e voce), autore di tutte le canzoni assieme a Peterick. Considerato il prestigioso nome coinvolto nell’incisione, il timore di ritrovarsi al cospetto di una replica in tono minore di ‘When Seconds Count’ o ‘Too Hot to Sleep’ potrebbe essere giustificato, ma viene dissipato immediatamente: “Innocent Kiss” apre l’album con un hard melodico scanzonato e divertito, dotato di un bell’ordito strumentale, in cui si mescolano Autograph e Van Halen, con i Bon Jovi protagonisti nel refrain. Nella power ballad “For Jackie” aumenta il volume delle tastiere, ma non fino al punto di sovrastare le chitarre, e c’è anche un bel solo di sax, mentre “Trapped” lascia un po’ perplessi, segue le tracce di “Run to You” (quella di Bryan Adams, naturalmente) nelle strofe ma sbocca in un coro curiosamente amorfo. “Arms of Love” (notevole power ballad in crescendo) porta, inconfondibile, il marchio di Jim Peterick come compositore, ma anche l’AOR hard edged “Love Is Like Heaven” profuma di Survivor, mentre “Crazy Love” apre all’arena rock, variegata, spettacolare, con begli intrecci chitarre / tastiere. La title track torna all’AOR robusto, magari un po’ Foreigner, mentre nel reticolato elettroacustico di “Dreamin’” si intravedono i Bon Jovi. Le policromie di “Insatiable” riportano ancora ai Survivor, ma in un contesto molto elettrico, al limite del metal californiano, e sono seguite dalla ballad acustica “Make Love Shine”. Fuochi d’artificio per il finale, prima con “Hungry Woman”, con quel refrain un po’ Def Leppard inserito in un telaio scintillante che ha al centro una chitarra col wah wah a manetta, poi con la conclusiva “Cost of High Livin’”, strofe metalliche in cui salgono con bella progressione le tastiere, e la melodia che esplode nel coro con un piacevole smalto r&b. La carriera di David Carl non ha avuto un profilo molto alto, lo ritroviamo dopo questo disco con Monkey Cocktail, Dying Breed e nei World Stage di Jim Peterick (ma guarda…), ma ‘Can’t Slow Down’ basta a riservargli un posticino nelle migliori discografie del rock melodico.
Cosa si sa dei Bedrökk? Molto poco. Venivano da Toronto e cominciarono come gruppo esclusivamente strumentale, nel 1992. L’ingresso nella band del cantante Robbie Brennan ne cambiò la fisionomia: esordì con ‘Evolution’ nel 1994, incise nel 1996 ‘Undertow’ e poi… Dio lo sa! L’unica certezza è che sono sempre attivi (in formazione molto rimaneggiata) e hanno pubblicato anche altro materiale, ma solo in digitale. La data di uscita e il fatto che venne edito da una piccola indipendente solo in Germania, Austria e Svizzera giustifica il fatto che di ‘Evolution’ abbiano sentito parlare in pochi e non sia mai stato ristampato. È raro vederlo in giro, naturalmente, ma quando fa la sua saltuaria comparsa su eBay e siti equivalenti, viene prezzato a cinque o sei euro: buona notizia per chi vorrà entrarne in possesso, ma inequivocabile segno di scarsa considerazione da parte dei cacciatori di reliquie del nostro genere. È un disinteresse giustificato? “Look” apre le danze con una stesura eclettica e policroma fatta di un riffing geometrico, sezioni fiati r&b, flash di organo Hammond e vocals che spaziano dal prog alla Yes all’AOR, e la voglia di sperimentare soluzioni nient’affatto banali viene confermata dai tocchi di originalità di “Shadowland”, AOR solare con qualche fiammata elettrica classic rock. “Dangerous” è una calda power ballad elettroacustica a cui un arrangiamento un po’ poù movimentato avrebbe giovato, “No Money Or Time” è puro AOR canuck alla Honeymoon Suite o Glass Tiger e nella sua scia si adagiano “Not Your Lover” (con un bell’intreccio di chitarre acustiche, elettriche e tastiere, in più di un frangente dal bel sapore esotico) e “Cry, Cry, Cry” (che mostra una decisa impronta r&b). Se “New York Calling” è un AOR notturno, con una bella chitarra slide, i tocchi funky e le carezze delle tastiere, “Life Without You” rimanda vagamente alle raffinate alchimie sonore dei Diving For Pearls, mentre con “Don’t Fight The Fire” si torna a scansare l’ovvio fra le strofe spavalde e AOR ed il coro r&b marezzato di prog. “Wooly Bully” è la cover, magistralmente reinventata, della hit di Sam the Sham and the Pharaohs (anno 1964), a precedere la title track, che chiude l’album con uno strumentale dominato da un intreccio di tastiere variegate, prima d’atmosfera, poi potenti, infine minacciose, con la chitarra che interviene con una frase tagliente prima dell’assolo. ‘Evolution’, dunque, era uno di quei non comunissimi dischi che cercavano di trattare la materia dell’AOR in maniera originale, ma senza uscire dal seminato, e ci riusciva ottimamente. Ristamparlo sarebbe doveroso.
Ieri come oggi, il sistema più efficace a disposizione di un artista per pubblicare musica è avere una propria etichetta discografica. Naturalmente, l’efficienza della label nel piazzare i suoi prodotti dipenderà – prima e più di ogni altra cosa – dalla disponibilità finanziaria del proprietario. Brian Bart, leader dei Dare Force, ha una label tutta sua (risulta aver pubblicato ad oggi una trentina di titoli) e anche uno studio di registrazione a Minneapolis, cosa che gli permise di incidere dischi senza dover chiedere niente a nessuno. Però, non doveva disporre di un portafogli a soffietto (oppure era taccagno), considerato che la qualità audio di questo ‘Firepower’ non è per nulla esaltante, e penalizza non poco canzoni che registrate e prodotte come si deve avrebbero (suppongo) avuto una riuscita diversa. Si parte benino con “Stand Alone”, melodia alla Survivor su un telaio molto elettrico su cui viene drappeggiato appena un velo di tastiere. La title track non so se etichettarla class o heavy metal: comunque, poco significativa. Molto meglio riesce l’AOR hard edged di “Cold And Lonely Nights”, e ancora meglio funziona “Time’s Just A Circle”, hard rock da film western con intro di chitarra acustica, assolo di slide e interventi di armonica, mortificata però dalla resa fonica imperfetta. Con “Hold On Tight” nessuna incertezza di classificazione: un heavy metal acrobatico alla Racer X. “Middle Of The Night” è un arena rock molto elettrico penalizzato da un mixaggio incoerente e anche da un assolo di Moog del tutto fuori posto. Il class metal di “Walkin Out The Door” precede una “Give Ya All My Lovin’” che fa un po’ Autograph e magari anche un po’ Rough Cutt, “Name Of The Game” è un robusto hard melodico, poi i Racer X vengono chiamati di nuovo in causa con “Evil Woman” che chiude l’album. Bravo il cantante Karl Young (quasi un clone di Paul Shortino) ma ‘Firepower’ resta un lavoro, come già annotato, largamente perfettibile: eppure, con la consueta incoerenza che caratterizza il mondo delle ristampe, è stato riedito già ben tre volte: nel 2003 dalla Metal Mayhem, dalla Vanity Music Group nel 2023, mentre nel 2017, Brian Bart lo pubblicò ancora una volta per la sua label: con tanti album pregevoli finiti nel limbo, la pervicacia nel riproporci ‘Firepower’ è al limite dell’osceno.
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