AORARCHIVIA

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COBRA

 

 

  • FIRST STRIKE (1983)

Etichetta:Epic Reperibilità:in commercio

 

A volte, l’insuccesso di un album proprio non riesci a spiegartelo. D’accordo, il mercato discografico è sempre stato sovraffollato, non tutte le band potevano contare su management superpotenti o proprietari di label decisi a scatenare una vera e propria guerriglia commerciale per portare nei quartieri alti di Billboard un album in cui credevano (come Spencer Proffer: riguardo i suoi sforzi erculei per promuovere i Quiet Riot di ‘Metal Healt’, vi rimando al link). Ma certi dischi sembravano così ben sintonizzati col periodo storico, davano talmente l’impressione di essere arrivati al momento giusto, che si fatica a comprendere i motivi di certe debacle. Nel caso dei Cobra, forse mancò soltanto la giusta convinzione. Se avessero perseverato almeno per un altro disco, chissà che oggi non dovremmo metterli assieme a Ratt, Dokken, Autograph e buona compagnia californiana… anche se la band aveva come base Memphis nel Tennessee.

I Cobra erano stati fondati da Mandy Meyer, da poco uscito dai Krokus, che si unì a Jack Holder (chitarre e tastiere, ex Black Oak Arkansas), Tommy Keiser (basso) e Jeff Klaven (batteria). Al microfono, succedendo allo sconosciuto Tommy Andris, arrivò Jimi Jamison, formidabile cantante dei da poco disciolti Target. Per inciso: il manager della band, Butch Stone, senza dubbio aveva giocato un ruolo importante nel completare la line up, considerato che si era occupato dei Target e gestiva anche Krokus e Black Oak Arkansas. L’unico album dei Cobra uscì nel 1983, prodotto da Tom Allom, e fruttò un videoclip che passò assiduamente sulla neonata MTV mentre i suoi artefici andavano in tour (ma sempre come supporter) con Quiet Riot, Nazareth e Krokus e si esibivano live al tutt’altro che irrilevante show radiofonico King Biscuit Flower Hour. Eppure, salvo che nella zona di Memphis, ‘First Strike’ se lo filarono in pochi: non fu un flop completo, ma il successo commerciale si rivelò modesto, al punto che già alla fine del 1983 la band si sciolse. Perché – si dice – i vari membri avevano altri progetti e c’erano stati contrasti con Butch Stone. Ma di fronte a un disco d’oro, senza dubbio ai grilli per la testa sarebbe stata messa la sordina e i problemi di management dimenticati: il successo e i quattrini placano e addolciscono qualsiasi difficoltà. E così, Mandy Meyer si unì (brevemente) agli Asia, Jimi Jamison entrò nei Survivor, Tommy Keiser venne arruolato dai Krokus e i Cobra vennero dimenticati.

First Strike’ non meritava l’oblio anche se non mi azzardo a fare ipotesi riguardo il suo sostanziale flop (ma quella copertina così insipida un certo peso deve averlo avuto, temo). Aveva tutto per diventare un caposaldo del rock melodico e spazi tutto sommato abbastanza ampi in cui piazzarsi: proprio in quel 1983 i Quiet Riot avevano scatenato il ciclone del rock duro nelle classifiche americane, e i Motley Crue avevano cominciato a cavalcarlo assieme alle novità di importazione Def Leppard, Krokus e Fastway, mentre l’AOR si confermava ai piani più alti di Billboard con Journey, Loverboy, Aldo Nova, Bryan Adams, ma eravamo ancora lontani da quell’alluvione di dischi che nel giro di tre, quattro anni avrebbe congestionato il mercato. E la vera forza di ‘First Strike’ stava nella freschezza della proposta, ancora non costretta tra i limiti angusti dettati dalle band di maggior successo, limiti che entro breve sarebbero diventati muri di cemento armato che pochissimi avrebbero osato scavalcare: c’era in quel primo mattino dei Big 80s ancora la possibilità di inventarsi un sound, e i Cobra lo fecero. Guardandosi innanzitutto attorno, certo. Ma rimodulando a modo proprio gli spunti provenienti da una realtà musicale appena sbocciata e che consentiva ancora ai musicisti una libertà solo dopo pochi anni da considerarsi chimerica.

Blood On Your Money” già dice tutto: è un metal californiano sulla scia dei Quiet Riot o il class metal due anni prima dei Dokken? È tutt’e due le cose, una terza via che non si è mai concretizzata: serrata, spavalda, con un cantato drammatico. “Only You Can Rock Me” sorprende per quel riff greve e così heavy metal sparato in apertura, che sembra fare a pugni con le strofe agili e il refrain anthemico, ma “Travelin’ Man” conquista con quel basso che scandisce note dondolanti, la chitarra insinuante, fra le strofe notturne e d’atmosfera e quel refrain che rende chiaro perché Jim Peterick ingaggiò proprio Jimi Jamison per prendere il posto di Dave Briknel nei Survivor. Che i Journey fossero già diventati un punto di riferimento imprescindibile ce lo dice la power ballad “I’ve Been A Fool Before”: d’atmosfera nelle strofe, il refrain è splendidamente tramato di soul. La title track è notevolissima nel suo prendere gli Whitesnake e americanizzarli rendendoli più ruvidi e taglienti (mi piace immaginare che David Coverdale abbia ascoltato questa canzone e abbia pensato qualcosa del tipo: ‘Porca miseria, questo potrei farlo anch’io…’), mentre “Danger Zone” si apre con accordi ipnotici che si sciolgono in un riffone alla Quiet Riot per un metal californiano con qualche tentazione anthemica. Anche “Fallen Angel” spicca, una power ballad elettroacustica davvero ispirata, poi “Looking At You” torna al metal cromato: passo serrato ma una tessitura melodica raffinata e un bridge pacato con intervento delle tastiere. La superba “What Love Is” e “Thorn In Your Flesh” tornano a guardare in direzione Whitesnake: nella prima, Jimi Jamison riesce a iniettare una consistente dose di soul, la seconda ripropone alla grande le alchimie già sperimentate sulla title track.

Insomma: capolavoro? Non mi spingo tanto in là, ma sicuramente un disco notevolissimo, di grande freschezza, con begli spunti che nessuno ha davvero colto e poteva diventare il preludio a qualcosa di ancora più interessante. Invece, ‘First Strike’ scivolò nel dimenticatoio, al più ricordato come l’album inciso da Jimi Jamison appena prima di unirsi ai Survivor. Questa mancanza d’interesse spiega perché la ristampa sia arrivata solo nel 2008 per la Rock Candy, e con un remastering davvero eccellente che ci ha dato la possibilità di ascoltarlo finalmente in tutto lo splendore del digitale, dato che la Epic lo pubblicò in origine solo su LP e cassetta (per la verità, ci fu una prima riedizione su CD nel 1992, fatta sì dalla Epic, però pubblicata solo in Austria (!!)). ‘First Strike’ si trova comunque in vendita su Amazon Music in formato .mp3 e a prezzo modico, pregevole testimonianza del talento di una band che avrebbe potuto diventare una delle protagoniste del nostro genere, ma non è riuscito neppure a conquistarsi la dolceamara qualifica di lost gem.

 

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YA YA

 

 

  • II (1988)

Etichetta:WEA Reperibilità:buona

 

Quale possa mai essere il significato di un moniker del genere non saprei dirvelo (forse c’è di mezzo una filastrocca britannica, ma è solo una mia supposizione), resta il fatto che un nome così originale non fu di ostacolo a questa band inglese per ottenere un contratto con la Scotti Bros. ed esordire nel 1984 con l’album ‘Scarred’. La band era composta da Terry Stevens (basso), Graham Garrett (batteria) e Ray Callcut (chitarre), mentre al microfono figurava Lea Hart, che però lasciò dopo poco per unirsi ai Fastway. Che cosa accadde precisamente fra l’uscita del primo e del secondo album non è chiaro, l’unica certezza è l’arruolamento come vocalist di Sam Blue e un nuovo contratto con la WEA in Europa e la ATCO per gli Stati Uniti, che permise ai Nostri di registrare ‘II’ prima a Los Angeles e poi a Londra, sotto la guida di ben tre produttori – Mike Chapman, (Blondie, Pat Benatar, Tina Turner, The Knack), Tony Taverner (ELP, Power Station) e Adrian Lee (Toyah, Mike and The Mechanics) – e farsi rimixare l’album a New York da Mike Shipley (Def Leppard, The Cars, Mr. Mister fra gli altri). Album, ‘II’, decisamente caratterizzato dalla vocalità alla Steve Perry di Sam Blue, fin dall’apertura affidata a “Caught In A Lie”, AOR high tech su base Journey ma con un vago flavour funky e danzereccio che si snoda tra tastiere pop e chitarre ora limpide ora robuste. La power ballad “When The World Cried” aggiunge al mix un vago smalto Def Leppard, su “Love In Vain” il volume delle chitarre aumenta assieme alle suggestioni Leppard che si fanno molto più consistenti in “Fear Of Flying”, su cui la band di Joe Elliot viene trasposta in una versione più melanconica e hard rock. Rimarchevole “The Toughest Race”, power ballad d’atmosfera ma molto elettrica, un po’ Journey ma anche anticipatrice di ciò che l’anno seguente faranno i The Works, mentre “Julia” cambia scenario, proponendo una piacevole versione vitaminizzata dei Toto, “The First Time” torna all’AOR high tech con il plus di una certa dose di r&b, “You’re All I Need” è una classica ballatona per piano e tastiere ma con chitarre sempre molto aggressive. Anche se l’alternanza chitarre / synth rimanda un po’ ai Loverboy, “All Through The Night” ha un refrain anthemico che parla nuovamente la lingua dei Def Leppard, mentre “Set Me Free” ripropone certe alchimie già sperimentate su “The Toughest Race” ma non nella dimensione della ballad, procedendo tra strofe pacate, un refrain molto cool, un bell’intreccio tra chitarre ora morbide ora brusche, le tastiere e il canto pop: per me, la miglior scheggia di un disco gradevole che vendette poco o nulla, ma portò la band in quella che era ancora conosciuta come Unione Sovietica per un tour che durò la bellezza di sessanta date e toccò sette repubbliche dell’ex URSS.

Ristampato per la prima volta nel 2009 dalla solita label pirata Time Warp Records, ‘II’ è stato riproposto nel 2022 dalla Melodic Rock Records in una versione rimasterizzata con l’aggiunta di un secondo album di demo, B side ed extended version: non indispensabile ma meritevole perlomeno di un ascolto.

 

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PRISM

 

 

  • BEAT STREET (1983)

Etichetta:Capitol

Ristampa: Renaissance Records

Reperibilità:scarsa

 

Questo album dei Prism è sempre stato trattato con un certo… sdegno? Forse è una parola troppo forte, ma a leggere i commenti su Heavyharmonies, l’impressione che si ricava è che ‘Beat Street’ venga considerato proprio con sdegno dai fan della band. Ma perché? Perché ‘Beat Streetnon è un album dei Prism. Il moniker è stato usato per battezzare quello che è di fatto il primo album solista di Henry Small: degli altri membri dei Prism (per non parlare del sound associato a quelli che venivano considerati i Supertramp canadesi) qui non c’è praticamente traccia. Un caso, in definitiva, di puro sfruttamento del marchio, di cui Small addossa la responsabilità al manager (dei Prism prima e soltanto suo dopo, oltre che di molti pezzi grossi come Loverboy, Offspring e Michael Bublé) Bruce Allen.

Che in questo genere di operazioni ci sia sempre qualcosa di disonesto e/o sgradevole è pacifico. Il più delle volte, poi, da un punto di vista commerciale il risultato è fallimentare: il fan della band si sente truffato, mentre chi dalla band si è sempre tenuto lontano neppure sa che la musica (in senso lato e spesso in quello letterale) è cambiata. Ma la tentazione di sfruttare la popolarità (anche minima) di un moniker sembra irresistibile per chi ne ha la possibilità, è un sistema spiccio per attirare l’attenzione e avere pubblicità a costo zero, e allora…

Astraendo da quel nome in copertina e tralasciando le considerazioni di ordine morale che il suo uso tutto sommato fraudolento ci autorizzerebbe a fare, ‘Beat Street’, valutato come puro e semplice album musicale, è buono? Direi di sì. È ben prodotto (da John S. Carter, ricordato soprattutto per il suo lavoro con Sammy Hagar e Tina Turner), suonato da una pattuglia di session men di valore (Richie Zito – anche songwriter –, Alan Pasqua, Mike Baird, Paul Warren e altri). Soffre però di una dicotomia che risaltava particolarmente nell’era del vinile, quando ogni album era caratterizzato da un lato A e un lato B, e non solo la scaletta ma anche in qualche modo il songwriting veniva influenzato dal fatto che le canzoni (lo si volesse o meno) dovevano sempre e comunque essere divise in due lotti distinti e fisicamente separati. ‘Beat Street’ è uno di quei dischi in cui la divisione di cui sopra era stata sfruttata per creare quasi due album in uno, dato che c’è una notevolissima differenza fra le quattro canzoni del lato A e le cinque del lato B. Differenza che il CD rende in un certo senso più stridente, perché ci consente di ascoltare l’album dal principio alla fine, senza interruzioni, mentre con il 33 giri, l’operazione di spostare il braccio del giradischi, capovolgere il piattone di vinile, riposizionare la puntina faceva – diciamo così – da cuscinetto, era un po’ come se il discorso ricominciasse da capo e veniva più facile separare (nettamente, se era il caso) quanto si ascoltava su un lato da quanto usciva dal lato opposto.

La prima canzone (lato A, naturalmente) si intitola “Nightmare”: immerge la solennità dei Triumph in un clima da film horror primi 80, con una ritmica rotolante e veli di tastiere. La title track è un pop rock tipico del periodo: batteria e basso elettronico, spruzzi di chitarre e keys, quasi un brano da discoteca. “Dirty Mind” recupera qualcosa del sound classico dei Prism e ha una certa enfasi pomp, ma sempre tradotta nel linguaggio di quel particolare momento storico (in campo musicale, naturalmente). “Modern Times” è del tutto immersa nel contemporaneo: robotica come i trend comandavano, fra suoni di tastiere e chitarre a volte dissonanti. Insomma, il lato A di ‘Beat Street’ ha più in comune con le cose che all’epoca facevano Dan Hartman o Sheena Easton che con l’AOR. Ma giriamo il disco e attacchiamo il lato B, che è aperto da “Is He Better Than Me?”, validissimo hard melodico con strofe d’atmosfera e un refrain semplice ed efficace che arieggia un po’ i Survivor. Anche “Blue Collar” è di buona caratura, procedendo tra chitarre secche e le solite keys geometriche più o meno nella direzione in cui (a quell’epoca) manovrava Aldo Nova, mentre l’ottima “Wired” è Journey e liscia nelle strofe, spavalda e Survivor nel refrain. Anche se il bridge parla la lingua del pop contemporaneo, “State Of The Heart” è una power ballad ancora molto Journey inspired, e sempre la band di Neil Schon viene presa a modello per “I Don’t Want To Want You Anymore”, che chiude impeccabilmente un lato B tutto impostato sul rock melodico.

Non mi sembra molto probabile che chi ama l’AOR riesca a trovare grandi motivi di interesse nel lato A, ma non avrebbe regione di lamentarsi del lato B. Che possa essere stato questo dare un colpo al cerchio del pop e uno alla botte dell’AOR il motivo che determinò il flop di ‘Beat Street’ non mi pare. “I Don’t Want To Want You Anymore” fu un singolo di discreto successo, ma quando l’album stava cominciando a farsi notare nelle classifiche (soprattutto sulla costa est degli USA), Bruce Allen ebbe uno scontro con il presidente della EMI (scontro che riguardava Tom Cochrane, anche lui amministrato da Allen) e i Prism ne fecero le spese, dato che la label cessò da un giorno all’altro di promozionare l’album e ritirò i fondi che avrebbero permesso a Henry Small di andare in tour, stracciando una volte per tutte il contratto pochi mesi dopo.

Inizialmente proposto solo su LP e cassetta, ‘Beat Street’ venne edito su CD dalla stessa EMI/Capitol nel 1992 e ristampato dalla Renaissance Records nel 2008 con l’aggiunta di nove bonus track.

I miei dubbi sul gradimento che il lato A possa riscuotere fra chi ama il nostro genere li ho già espressi: il lato B è al di sopra di ogni sospetto, e se cinque canzoni vi bastano per fare un album, investite pure in sicurezza su ‘Beat Street’.

 

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HONEYMOON SUITE

 

 

  • ALIVE (2024)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Le ultime prove degli Honeymoon Suite – ‘Clifton Hill’ (2008) e ‘Hands Up’ (2016) – sono state dignitose e niente più, ma ci hanno riconsegnato perlomeno una band di rock melodico, dato che né ‘Lemon Tongue’ (2001) né ‘Dreamland’ (2002) avevano a che fare con l’AOR e i suoi parenti più o meno stretti. In definitiva, Johnny Dee e soci avevano capito l’antifona ed erano tornati a fare quello che il loro pubblico gli chiedeva, anche se non ai livelli di un tempo… ma, dopotutto, chi si aspettava da loro un altro ‘The Big Prize’? Questo ‘Alive’, però, se non li riporta ai livelli del 1985, è un prodotto di assoluta eccellenza, molto superiore alle ultime due release. Non so quanto abbia giocato la produzione di Mike Krompass, (Steven Tyler, Meghan Trainor, Theory of a Madman), ma certo male non ha fatto a ‘Alive’, che comincia benissimo con la title track, AOR d’atmosfera con qualche tocco moderno nei suoni di tastiere e nel refrain, ma del tutto aderente a quello che possiamo considerare il suono classico della band. “Find What You’re Looking For” segue la stessa rotta ma risulta più elettrica e dinamica, la pregevole “Done Doin’ Me” staglia ottoni e keys su un bel chitarrone ringhiante che non ne stempera il buon sapore r&b, “Not Afraid To Fall” è una power ballad dai bei chiaroscuri. Se “Tell Me What You Want” è un hard melodico con nuance moderne più accentuate, “Give It All” recupera le atmosfere da metal californiano che permeavano ‘Monsters Under The Bed’ ma con un refrain AOR. La power ballad “Love Comes” e l’AOR di “Broken” pure impastano (e molto bene) il classico con il moderno, “Livin Out Loud” è un arena rock superbo, “Doesn’t Feel That Way” chiude l’album con una ballad elettroacustica adorna di tastiere d’archi e qualche tocco Beatles.

L’unico difetto (sempre che tale vogliamo considerarlo) di ‘Alive’ è nella durata totale, poco più di trenta minuti: è un lavoro di ottima caratura, sapientemente prodotto, che ci riconsegna una band di nuovo capace di dire qualcosa di nuovo sfuggendo alla trappola della nostalgia per un’epoca irripetibile.

 

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THE END MACHINE

 

 

  • THE QUANTUM PHASE (2024)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Ho un po’ di rammarico per aver dedicato a questa band solo recensioni brevi, anche se sempre positive. Mi faccio perdonare dando più spazio a questo appena uscito terzo album che vede dietro al microfono un nuovo cantante, Girish Pradhan. L’addio di Robert Mason mi aveva fatto temere cambiamenti di sound, invece in ‘The Quantum Phase’ cambia poco o nulla rispetto ai due album che lo hanno preceduto. Voglio precisare poi qualcosa che nelle mie recensioni di 'The End Machine' e 'Phase 2' non ho sottolineato a sufficienza: quanto meglio si esprima George Lynch – sia come chitarrista che nel ruolo di songwriter – in questa band rispetto ai Lynch Mob, dove lavora sostanzialmente da solo, mentre qui è diretto da Jeff Pilson, che si riconferma ancora una volta produttore di gran classe. Di Pradhan non si può dire che bene: non è certo un novellino (di recente lo abbiamo sentito cantare con Joel Hoekstra’13 e Firstborne) e quel suo bel vocione (chi non lo conosce può immaginare una sovrapposizione ideale tra Jeff Scott Soto e David Coverdale) si incastra benissimo nella trama sonora che George, Jeff e Steve Brown stendono per lui.

Apre le danze il riff di matrice zeppeliniana di “Black Hole Extinction”, un feroce heavy metal ben lubrificato di melodia, e la strada della metallurgia pesante viene percorsa anche da “Silent Winter”, aperta da un bell’amalgama di riff policromi. Cambio di scenario per le due canzoni successive, dato che sia “Killer Of The Night” che “Hell Or High Water” sono class metal in stile Dokken, la prima agile, la seconda serrata e potente. Da qui in poi si entra nell’universo dei Lynch Mob, ma con una produzione un po’ più cromata rispetto a quanto abbiamo ascoltato dai Mob degli ultimi anni, a partire da “Stand Up” – street metal acido e beffardo – e proseguendo bene con la power ballad dai toni cupi “Burning Man”. Davvero eccellente risulta “Shattered Glass Heart”, così elettrica e melodica, ma ancora più in alto sale “Time”, con quel suo riffing pulsante e il clima sexy. Con “Hunted” ritroviamo i Mob più notturni, inquietanti e feroci (quelli di “Hell Child”, per capirci), mentre “Stranger In The Mirror” proietta su un riffone rotolante un refrain che arieggia non poco i Def Leppard, anche se l’atmosfera è tutt’altro che scanzonata. Chiude “Into The Blazing Sun”, che su un telaio di class metal dokkeniano innesta un tipico refrain sleaze alla Mob.

George, lo ripeto ancora una volta, suona davvero alla grande, le canzoni sono superbe e, insomma, questo ‘The Quantum Phase’ lascia parecchio indietro l’ultimo Lynch Mob, anche se di quella band pratica per la gran parte della sua durata lo stesso sound. Per i fan dei Mob è un ascolto – ovviamente – imprescindibile, ma non gli manca niente per piacere a tutti.