AORARCHIVIA

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NO SWEAT

 

 

  • NO SWEAT (1990)

Etichetta:London Records Reperibilità:scarsa

 

 Continuando a trattare di dischi diretti da maestri della produzione, puntiamo i riflettori sull’unica opera firmata dai No Sweat (ma che bel moniker… ve l’immaginate una band italiana che si fa chiamare Niente Sudore?), su cui appose la propria firma quello che per il sottoscritto è stato il maestro assoluto: Keith Olsen.

I No Sweat erano irlandesi, sotto contratto con una importante etichetta britannica, la London Records: contratto ottenuto grazie ai buoni uffici di Joe Elliot, che produsse il loro primo singolo, “Heart and Soul” (una hit nelle classifiche irlandesi nell’estate del 1989). Per registrare l’album, però, la London spedì la band in California, a lavorare nientemeno che con Keith, e ovviamente nei suoi studi di Los Angeles, i Goodnight L.A. E quello garantito dalla London Records ai No Sweat non doveva essere un marginal record deal (per la spiegazione dell’espressione, andate alla recensione dei Magnum), considerato che, con il posto di batterista vacante, la band si potè permettere di ingaggiare James Kottak per incidere le parti di batteria, le tastiere vennero programmate da Jim Crichton dei Saga e il principe dei session man Tim Pierce aggiunse delle parti di chitarra a due canzoni (è però significativo il fatto che ‘No Sweat’ venisse registrato in analogico, quando i Goodnight L.A. disponevano di ben due multipista digitali Sony 3324, che all’epoca erano il massimo che la tecnologia offrisse per la registrazione audio: evidentemente il deal non era marginal ma neppure regale). Da sottolineare che il songwriting restava tutto interno alla band: le canzoni erano buone ma la loro efficacia stava in primis negli arrangiamenti e nella produzione, calibrati con impagabile raffinatezza e squisiti tocchi di fantasia da Keith.

La track d’apertura era (ovviamente) “Heart and Soul”, reincisa per l’occasione: agile ma nello stesso tempo vigorosa, bell’impasto di Journey, Foreigner e Asia con non indifferenti tocchi pomp, ma molto più californiana suonava “Shake”, dove i No Sweat diventavano quasi degli Autograph sofisticati, con le tastiere che recedevano sullo sfondo lasciando spazio alle chitarre. “Stay” addolciva sapientemente i Bon Jovi, con un arrangiamento attraverso cui risaltavano imprevedibili e riuscitissimi flash di ottoni, mentre “On the Edge”, aperta da un giro geometrico di keys, risultava notturna nelle strofe, molto Surgin’ nel refrain, con quella tipica urgenza che marchiava il sound della band di Jack Ponti. “Waters Flow” segnava un cambio di scenario, con un arpeggio country & western che ci portava in un southern laccato di cromo luccicante fra Tangier e Dillinger, arricchito da cori femminili e refrain anthemico, “Tear Down the Walls” aveva un inizio traditore, cominciava come un voodoo blues, diventava elettrica su un architettura di riff secchi e potenti scivolando poi in una dimensione melodica e anthemica sempre molto Autograph (e magari anche Kix, escludendone però del tutto la componente glam), gestendo le transizioni da un’ atmosfera all’altra con magnifica fluidità, e ancora la band di Steve Plunket tornava nelle note prima di “Generation”, poi di “Lean on Me”: la prima un hard melodico da spiaggia, spensierato e divertente, con un arrangiamento strepitoso in cui spiccano i tocchi policromi di tastiere; la seconda più elettrica e serrata, e nel refrain magari un po’ più anthemica e Kix. “Stranger” omaggiava i Survivor, tra strofe fascinose e un refrain rampante, il tutto orchestrato con mirabile eleganza, mentre in chiusura si tornava al southern cromato con “Mover”.

L’album, uscito anche in USA (distribuito dalla Polygram), Giappone e Germania, venne stranamente pubblicato in UK dalla FF RR Records, una sottoetichetta della London che era stata creata dalla label inglese per i suoi gruppi dance e techno: non credo fu questo a determinare il flop di ‘No Sweat’, ma senza dubbio generò un po’ di confusione… Oggi, a seconda dei supporti (CD, LP, cassette), il prezzo va dai dieci ai trenta dollari (su eBay, mentre su Amazon – dove regolarmente si concentrano i venditori fuori di testa – i prezzi raggiungono anche gli 80 euro… per le cassette!), cosa che renderebbe più che mai opportuna la ristampa di un lavoro eccellente, non tanto per merito di chi lo incise ma per quanto un produttore geniale seppe trasfondere in canzoni che in mani meno ispirate forse avrebbero finito per suonare se non trascurabili di certo molto meno efficaci.

 

 

AORARCHIVIA

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FRENZY

 

 

  • STRONGER THAN DIRT (1992)

Etichetta:Big Noise Records Reperibilità:scarsa
 

Chi conosce questa unica testimonianza discografica dei Frenzy potrebbe ritenere superfluo dedicarle una recensione di quelle lunghe… e non è detto che abbia torto. Se spendo un po’ più di inchiostro virtuale per descrivere a chi non lo conosce ‘Stronger Than Dirt’, questo non accade perché voglio concedermi il divertimento di affondare più o meno sadicamente il coltello nelle piaghe di un album imperfetto, ma solo per mostrare cosa accade a chi ha delle ambizioni e magari anche le capacità per tradurle in fatti (nel nostro caso, musica) concreti, però non dispone della lucidità e della misura necessarie per operare la traduzione tutto da solo… e a questo punto qualcuno avrà già compreso dove voglio andare a parare. ‘Stronger Than Dirt’ è un album a cui avrebbero fatto un gran bene le cure di un produttore esperto e capace: invece venne coprodotto dal batterista della band, Tony Lee, e da Tony Ricci, all’epoca appena agli albori della carriera e comunque mai – né prima né dopo questo album – coinvolto nel rock melodico. Aggiungiamo il fatto che la label indipendente che lo pubblicò, pur non essendo una di quelle più dilettantesche e scalcinate, non era ovviamente in grado di assicurare alla band uno di quei deal che consentono ai musicisti di rimanere in studio per tre o quattro mesi e la frittata era fatta. Ma fu, ‘Stronger Than Dirt’, vera frittata? Andiamo a scoprirlo.

Fin dalla prima track si ha la sensazione che questa band non voglia conformarsi alle regole più o meno buone con cui si compila un album. Difatti al numero uno della scaletta compare l’unico strumentale contro undici pezzi cantati: non un semplice intro, ma proprio un brano strumentale, lungo più di tre minuti, intitolato “Time Travel”, drammatico, dove le tastiere hanno pari dignità con le chitarre e in qualche momento non è un’eresia paragonare i Frenzy a dei Rush meno cerebrali. Una dichiarazione d’intenti? Per niente. È piuttosto la successiva “Dirty Dream” a rappresentare bene l’album, col suo metal californiano alla Bulletboys, completato da un refrain brado e mezzo stonato, e su quella stessa falsariga procede “Popular Car”, più ritmata, con nel bridge e nell’assolo qualcosa degli Extreme. “Tell Me a Story (Mr. Destiny)” è aperta e chiusa da un bel pianoforte che però fa a pugni con quello che sta in mezzo, una canzone che non sa decidersi tra essere una power ballad o qualcosa di più elettrico e – soprattutto – con vocals a tratti decisamente stonate: non posso credere che non se ne siano resi conto, deve essere stata una cosa voluta, ma quale senso debba avere non saprei dirvelo. Le sfumature Extreme si fanno più forti su “Runnin' Outta Patience”, specialmente nel riff portante, i flash di tastiere, l’assolo davvero efficace, e proprio buona risulta “Far Away”, che parte con un bell’intreccio di acustiche dal suono robusto, salendo con un lento crescendo verso un’elettricità selvatica e irriverente. Se “Pump” suona come dei Motley Crue più heavy metal del solito, “Aunties Grand” è un assolo di pianoforte che certifica le qualità del key player e cantante Chris Stuart ai tasti d’avorio: tasti disertati da Stuart nella successiva “City Funk”, che di funk non ha proprio niente, è il solito metal californiano di grana non troppo fine, con un cantato sopra le righe e le solite parentele Bulletboys. Con “Bad Seed” si sfiora il demenziale: rotolio di basso, un riffone zeppeliniano che sta all’incrocio tra “Kashmir” e “Ten Years Gone”, le tastiere, ma Chris Stuart sembra che qui si diverta a fare la parodia di un basso lirico o dello sconosciuto cantante dei Delta Rebels, roboante, sguaiato e spesso stonato… Cosa mai volessero esprimere con un cantato del genere non riesco a immaginarlo, anche perché la voce qui esce talmente impastata da essere quasi inintelligibile, e quella che poteva essere una buona canzone diventa cinque minuti e ventisei secondi di strazio sonico. Anche “(Lead Us Not Into) Temptation” prova un approccio originale, ma meno eccentrico della canzone precedente: aperta e chiusa da un coro da chiesa con tanto di organo, completata da una strana coda strumentale, rimanda ancora agli Extreme, così nervosa, ritmata e saltellante, mentre “Where R U Now” è quasi una power ballad, fra chitarre pulsanti, veli di tastiere, un po’ nevrotica (alla Kik Tracee, direi), con un crescendo cupo, tempestoso e confuso. In chiusura, “If U Like It Hot” va dritta verso i Van Halen, con tanto di chitarre acrobatiche e cantato istrionico.

Insomma, un album confuso nel suo complesso, privo di direzione e con delle soluzioni più bislacche che discutibili: Chris Stuart sapeva cantare, e pure bene: se spesso, molto spesso, la sua voce la sentiamo stonata deve essere perché così ha voluto lui. Il disco è curato nelle timbriche, ma i tentativi di distinguersi e fare qualcosa di diverso dal solito risultano il più delle volte maldestri: pare che ‘Stronger Than Dirt’ sia stato assemblato alla garibaldina mentre la produzione (nel senso più completo del termine, ossia: dare un senso a un lotto di canzoni riunite a comporre un album, canzoni anche molto diverse tra loro come stile e atmosfera) sembra mancare del tutto.

E dunque, sì: ‘Stronger Than Dirt’ è proprio una frittata. E, al giorno d’oggi, una frittata particolarmente costosa. Su eBay i CD vengono prezzati dai cinquanta ai cento dollari (su Amazon neppure mi sono preso la briga di controllare, ma suppongo i prezzi siano ancora più alti), rendendo l’unica testimonianza lasciataci dai Frenzy merce per collezionisti assatanati. Mi auguro solo che qualche etichetta non venga tentata dalle quotazioni stellari a ristamparlo (lo fece la label pirata Time Warp Records nel 2006, ma soltanto su CDr): con tanti album magnifici che attendono una riedizione, ripubblicare ‘Stronger Than Dirt’ sarebbe addirittura grottesco.