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LITA FORD

 

 

  • DANGEROUS CURVES (1991)

Etichetta:RCA Reperibilità:in commercio

 

Sapevate che qualche anno fa Lita Ford ha pubblicato un’autobiografia? Be’: se ne eravate all’oscuro, poco male… Fateci caso: sono proprio le persone che hanno condotto una vita abbastanza insignificante quelle che ritengono di doverla raccontare, mettendola nero su bianco nella presunzione che possa interessare a qualcuno (e anche se non so quante copie abbia venduto questo libro, sono certo di non sbagliare affermando che non è mai diventato un best seller). Però, almeno un fatterello divertente ne è venuto fuori: il vero motivo per cui Lita lasciò le Runaways: quando si rese conto che le sue colleghe erano tutte e tre lesbiche, venne presa dal panico e scappò a gambe levate dalla band! Considerato come vanno le cose al giorno d’oggi, è strano che non l’abbiano azzannata sui social, scatenando contro di lei una campagna di insulti e offese per essersi comportata in maniera tanto politicamente scorretta. Ma forse, la mancata reazione di fronte a questa genuina manifestazione di omofobia segnala solo la totale irrilevanza del personaggio, un’irrilevanza che persiste nonostante il disco di platino ottenuto con ‘Lita’ nel 1988. Perché non riusciva, Lita Ford, a spiccare in nessun settore: come cantante, era solo passabile, e come chitarrista idem; esteticamente, la si poteva definire belloccia e niente più, e anche a livello di personale non è che potesse mettersi in concorrenza con – che so… – Anna Nicole Smith buonanima. I giudizi meramente estetici non sono ispirati da maschilismo galoppante, ma dal fatto che fu Lita stessa a mettersi in gioco anche come oggetto erotico: anche senza ricordare certi testi di sue canzoni – impostati su una ninfomania patinata da film soft core hollywoodiano – bastava guardare le foto che adornavano copertine e interno dei suoi album, tutt’altro che sobrie e castigate, quasi un messaggio ai possibili acquirenti, che, più o meno, diceva: non ho le corde vocali di Ann Wilson, non so suonare la chitarra come Jennifer Batten, però ho un bel culo…

Che poter sfoggiare un bel didietro poi non basti a far vendere i dischi è provato dal fatto che l’album preso in esame si arrampicò solo fino al numero 132 della Billboard 200, e non possiamo incolpare solo il momento storico infelice per giustificare il flop, dato che l’anno precedente, ‘Stiletto’ era arrivato appena al numero 52, non replicando neppure lontanamente i numeri di ‘Lita’, che aveva venduto un milione di copie negli USA soprattutto grazie a una promozione al limite del furibondo e a quell’insipido duetto con Ozzy Osbourne (che, immagino, Sharon dovette incatenare e portare in studio di peso per costringerlo a dividere il microfono con quella che all’epoca era una sua assistita).

Eppure, ‘Dangerous Curves’ resta il miglior album di Lita Ford: o, meglio, il miglior album intestato al suo nome. Il team che la seguiva era di quelli stellari, e ha certo contribuito in maniera determinante alla buona riuscita di ‘Dangerous…’. Produzione nelle mani di Tom Werman e Eddie DeLena, canzoni scritte oltre che da vari membri della sua support band (David Ezrin, Myron Gronbaker, Joe Taylor) anche da songwriter più o meno illustri come Michael Dan Ehmig, Jim Vallance, Al Pitrelli, il pelato Joe Lynn Turner, Kevin Savigar, Michael Caruso, Randy Cantor. E non dimentichiamo che diverse parti di chitarra sono eseguite dal Howard Leese, a quell’epoca ancora in forza agli Heart. Insomma, oltre alle sue “curve pericolose”, Lita non è che abbia poi messo molto qui dentro: giusto la sua voce e un po' di assoli di chitarra troppo spesso insignificanti. Riguardo poi la sua voce: intonata, d’accordo, ma assolutamente anonima, e a volte esageratamente teatrale.

L’album è aperto da “Larger than Life”, un discreto metal californiano anthemico a cui un assolo di chitarra meno banale e inconsistente avrebbe comunque fatto un gran bene. Meglio riesce “What do Ya Know About Love”, scanzonata e divertente tra i Winger del primo album e i Van Halen, ma anche “Shot of Poison”, con il suo hard melodico vagamente Bon Jovi non si presenta male. Riguardo “Bad Love” non si può fare a meno di osservare che con un’altra cantante sarebbe stata una power ballad fantastica, così lenta ma sempre elettrica, ben bilanciata tra chitarre e tastiere: con Lita al microfono, risulta buona e basta. La melodia fresca di “Playin’ With Fire” (hard melodico ancora di marca Bon Jovi) precede il class metal anthemico “Hellbound Train”, che ha un bell’arrangiamento movimentato ma è afflitto da un assolo un po’ fesso. Riesce molto bene l’incalzante “Black Widow”, strofe misteriose e un refrain secco ed elettrico. Scontata ma non malvagia risulta “Little Too Early”, con la sua melodia alla Journey, senza infamia e senza lode è invece “Holy Man”, d’atmosfera nelle strofe ma con un coro più aggressivo e metallico. Gran finale con “Tambourine Dream”, che porta i Led Zeppelin sulle spiagge di Venice, con il suo fraseggio acustico e le vocals alla “Kashmir” e un refrain liscio e suadente, una canzone che avrebbe meritato un assolo migliore di quello che Lita gli ha appiccicato. In coda, “Little Black Spider” ci dà un minuto e quarantasei secondi di arpeggi acustici inframmezzati da qualche nota di chitarra elettrica: del tutto superflua… Come superflua, in fin dei conti, è stata la sua autrice, che solo grazie alla militanza nelle Runaways (band di cui, in ogni caso, la storia del rock potrebbe fare tranquillamente a meno) è riuscita a ottenere un notevole supporto da parte dell’industria discografica, supporto senza dubbio non commisurato alle proprie potenzialità come interprete e strumentista.

 

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DESERT DRAGON

 

 

  • THIS SIDE OF HEAVEN (2022)

Etichetta:Blue Wind Entertainment Reperibilità:in commercio

 

Sette anni dopo l’esordio, torna questo moniker poco noto ma che, alla luce del contenuto di ‘This Side Of Heaven’, si meriterebbe una notevole rinomanza. Della line up del primo album è rimasto solo il chitarrista Greg Patnode, al microfono c’era adesso il bravo Keith St. John (conosciuto soprattutto per la sua militanza nei Burning Rain), Jimbo Burton ha mixato il tutto e, insomma, questo disco è una delle cose migliori che l’anno prossimo alla conclusione ci abbia dato.

Bad Luck” dà il via alle danze con un hard bluesy decisamente Aerosmith, quasi un voodoo molto elettrico, arricchito da armonica e chitarra slide. Immediato cambio di scenario in “God Bless Miss America”, aperta da keys barocche che ci portano in una sorta di ballad elettrica, mutevole, camaleontica, più liscia nelle strofe, più brusca nel coro, mentre “Swamp Thing” ricorda un po’ le ultime produzioni di Slash, ancora bluesy, insinuante e dal coro molto heavy, con un bel contrappunto di armonica e sorprendenti flash di pianoforte nel finale strumentale. Fascinosamente zeppeliniana si rivela “What It Means to Me”, una classica contrapposizione voce/riff, con bei panneggi di tastiere e Keith che planteggia, poi arriva la power ballad “No Way Back”, incantata con le keys e le chitarre acustiche prima che entrino le chitarre elettriche per un coro diretto e trascinante, fra piano e archi romantici che spezzano la canzone e avviano un crescendo policromo. Avvincente, nello stesso tempo potente e notturna, è “Lock and Load”, tra il pulsare delle keys, il sax e il riffing serrato e molto Burning Rain. La title track è forse un pelo troppo lunga, procede fra tastiere arabeggianti e chitarre taglienti, ricordando le ultime cose degli House of Lords, ma con un arrangiamento più fantasioso e movimentato. “Pictures in a Magazine” guarda di nuovo ai Burning Rain, anche se l’hammond le dà uno smalto classic rock, “Vulture City” ha tastiere quasi prog su un ritmo nervoso e metallico, “Save My Soul” chiude l’album di nuovo sotto il segno degli House of Lords, forte e colorata nell’intreccio chitarre/tastiere.

Una qualità audio senza macchia e la produzione accurata completano il quadro di un album che, lo confermo, si merita di salire in cima a tutte le liste del meglio che il 2022 ci abbia riservato in campo hard rock.

 

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DC DRIVE

 

 

  • DC DRIVE (1992)

Etichetta:Capitol / AEM Records Reperibilità:scarsa

 

Se c’è qualcosa che sembra mancare in maniera deprimente alle nuove band di rock melodico (soprattutto a quelle europee) è la voglia di proporsi in maniera originale al pubblico, offrendogli qualcosa che non sia la solita minestra riscaldata. Certo, non si può dire che il pubblico attuale apprezzi le proposte originali: quello è che accaduto agli H.E.A.T dopo la pubblicazione di ‘Into The Great Unknown’ ne è una conferma anche troppo evidente. Il punto, è che le band non dovrebbero avere un target così preciso, e tanto esigente riguardo la natura della proposta, i soliti quattro gatti che si macerano nella nostalgia e costituiscono il novanta per cento del fatturato delle poche label ancora interessate a pubblicare AOR e melodic rock. Fra questi quattro gatti, l’originalità senza dubbio non paga dividendi, ma è un’eresia credere che si possa interessare alla propria musica anche qualcuno che sta fuori dal cerchio suddetto? Se il rock è in affanno e quasi sul punto di disseccarsi in una mummia, la colpa è soprattutto di chi non riesce o non vuole mantenerlo vitale, offrendo qualcosa di nuovo, perlomeno provandoci.

I DC Drive, è chiaro che questa paura non l’avevano. E in un momento drammatico per le fortune dell’AOR, fecero quello che tanti altri – per vigliaccheria, pigrizia o inettitudine – non fecero: assodato che le alchimie sonore che avevano tenuto banco per una decina d’anni non tiravano più, cercarono di proporre qualcosa di diverso, ma rimanendo sempre nell’ambito del rock melodico. Una scelta coraggiosa? No, soltanto intelligente, molto più di quelle adottate da tanti: imitare Soundgarden e Pearl Jam, oppure buttarsi sul country o sulla musica pop. Che il risultato squisitamente pratico della scelta sia stato negativo conta solo fino ad un certo punto, soprattutto se consideriamo quanti ex artisti AOR abbiano avuto fortuna mettendosi a suonare grunge o country…

Il successo dei DC Drive fu sicuramente modesto, ma comunque significativo, anche se limitato al Canada e alla città di Detroit. La band nasceva difatti dalle ceneri degli Adrenalin, che nella Motor City erano basati, e pubblicarono tre album fra il 1983 e il 1986, senza molta fortuna (la title track del terzo album ‘Road of The Gypsy’, finì però nella colonna sonora del film Aquile d’acciaio). Scaricati dalla MCA nel 1987, si sciolsero per riorganizzarsi come DC Drive, cambiando cantante e bassista: trovarono un deal con la EMI/Capitol canadese e lavorando con il produttore Vini Poncia (Kiss, Ringo Starr, Peter Criss) registrarono un album che fu pubblicato in Canada nel 1992, l’anno successivo negli USA dalla AEM Records. La AEM era una label specializzata in musica funk e dance (aveva pubblicato, fra gli altri, album di George Clinton e Brides Of Funkenstein) e già questo fatto dice molto riguardo i contenuti generali di ‘DC Drive’, dichiarati immediatamente nella track d’apertura, “You Need Love”, che si può descrivere come gli INXS virati all’AOR, piacevole giustapposizione di keys limpide e pop  a chitarre decise, con begli innesti di sax e ottoni e un finale virato sul r&b. Sulla stessa rotta procede “Outta Bounds”, ancora più funk, agile e vagamente danzereccia, tutto un gioco di chitarre con gli ottoni sullo sfondo: i Sons of Angels non erano poi molto distanti; mentre “Young Gun” trasla questo suono in una dimensione arena rock, con un refrain trascinante. Con la power ballad “All I Want” si torna al classico, qui la band guarda dalle parti di Bon Jovi e Mitch Malloy, ma sulla policroma “Into You” la band  torna al funk, anche se il riff portante è di scuola AC/DC e il coro fa molto Drive, She Said, procedendo tra sax, ottoni e tastiere. “Don’t Let It Get You Down” risulta un po’ nevrotica, ma anche ancheggiante e divertente, con il consueto impasto di chitarre ruggenti e keys che alternano suoni limpidi o robusti, la magnifica e vagamente bluesy “Obsession” è cadenzata, procede a passo felpato fra l’organo Hammond e la chitarra funk, tastiere pop e un refrain r&b. La fascinosa “Streetgirl Named Desire” tinge di funk il rock FM di John Parr, mentre “Fool In Love” è una power ballad con una somiglianza (immagino) tutt’altro che casuale con la “Never Enough Time” dei Legs Diamond. In chiusura, “Just Don’t Get It” riprende le stesse atmosfere di “Into You”, ma in un contesto più bluesy e r&b, con tanto di assolo di pianoforte.

La reperibilità di questo bellissimo album è discreta, ma i prezzi, purtroppo, sono alti: da 25 a 70 dollari negli USA. Una ristampa sarebbe quantomai opportuna.

 

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KARLA DEVITO

 

 

  • WAKE 'EM UP IN TOKIO (1986)

Etichetta: A&M Reperibilità:in commercio

 

Affermare che Karla Devito non abbia avuto un più che discreto successo come cantante non sarebbe corretto, considerato che la sua carriera è stata abbastanza intensa e variopinta, snodandosi tra teatro, cinema e TV. È però verissimo che non è mai riuscita ad affermarsi come interprete con il proprio nome: comparsate come corista in molti dischi (fra cui tre dei Blue Oyster Cult), voce in una canzone nell’unico album solo firmato da Jim Steineman, ma a suo nome sono usciti solo due dischi, ignorati dal pubblico e, da quel che so, neppure entrati nella Billboard 200 e addirittura mai stampati su CD. Karla Devito avrebbe meritato ben altra attenzione: aveva (e ha ancora oggi) una voce straordinaria, tecnicamente impeccabile e espressiva, camaleontica, in grado di spiccare in qualsiasi contesto con impagabile efficacia. Non so se la A&M, quando le fece incidere ‘Wake ‘Em Up in Tokio’ sperasse di lanciarla, ma considerato che questo suo secondo e ultimo (ad oggi, almeno) album venne messo sul mercato con un minimo supporto promozionale, non credo che da parte della label vi fosse una grande convinzione riguardo le possibilità che la Nostra potesse diventare una stella. Questo non impedì però alla A&M di farle incidere un signor disco, prodotto e arrangiato da David Anderle, Steve Goldstein e Bob Ezrin, composto da prestigiosi songwriter e suonato da una pattuglia di session man di prima grandezza (alle chitarre si alternavano Jeff Southworth, Michael Landau, Waddy Wachtel e Steve Hunter).

I contenuti di ‘Wake ‘Em Up in Tokio’ fanno intravedere anche una certa indecisione da parte della label riguardo il possibile target verso cui puntare, così che questo album fatto in prevalenza di AOR e pop rock robusto viene aperto da una canzone pop – di sconcertante bruttezza, oltretutto – intitolata “Money Can’t Buy Love” (scritta dalla coppia Ian Hunter / Tommy Mandel), che sembra voler traslare su un tessuto di melodia anni ’50 alla ‘Grease’ le atmosfere della “Girls Just Want to Have Fun” di Cyndi Lauper. Facciamo finta di niente e passiamo a “Little America”, discreto rock melodico con un vago sapore heartland che precede due notevoli stesure pop rock: “Hard Way”, sexy e d’atmosfera, ha il classico ritmo robotico del pop primi anni ’80, mentre la luminosa “Whatever Will Be” sfoggia vigorose parti di chitarra e batteria. Incalzante e sempre molto sexy risulta “Love I Can Taste”, impostata su un telaio Loverboy, con un refrain che fa un po’ Blondie, mentre “We Accelerate”, drammatica e serrata, mescola Journey e Surgin’ alla band di Mike Reno. “Can’t Change My Heart” è una splendida power ballad, potente e ricca di chiaroscuri ammalianti, “Nobody Makes Me Crazy (Like You Do)” torna ai ritmi robotici, con vocals prima leggiadre e poi provocanti sui tappeti di tastiere e una chitarra dal pulsare irrequieto, “I Rocked The Boy” è un vero e proprio party anthem ben lubrificato dalla keys con un ritmo secco alla Joan Jett, “The Weakness In Me” chiude con una power ballad che fa tanto Heart, dalla grande estensione melodica.

Wake ‘Em Up in Tokio’ è in vendita su Amazon Music in formato .mp3 e si può ascoltare su Spotify: chi ama le grandi (e sottolineo grandi) voci femminili non può assolutamente privarsene.

 

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HELIX

 

 

  • WILD IN THE STREETS (1987)

Etichetta:Capitol Reperibilità:in commercio

 

Qualcuno, leggendo i miei articoli sui produttori usciti su Classix e anche quanto di loro scrivo nelle recensioni su AORARCHIVIA, può avere il sospetto che il sottoscritto li stimi e li rispetti molto più dei musicisti con cui lavorano. Temo che sia vero. Ma ci sono in giro tanti e tanti aneddoti che confermano ad usura questa mia (lo riconosco) incrollabile convinzione. E sto per offrirvene uno.

Nel 1987, agli Helix viene offerta quella che si può definire l’ultima carta del successo. La band canadese non riusciva a sfondare negli USA, anche il tentativo di ammorbidire il sound in direzione AOR nel discreto ‘Long Way To Heaven’ non aveva prodotto risultati su Billboard. Che fare? Brian Vollmer e compagni ritennero che una soluzione potesse essere lavorare con qualche produttore di fama. Nacque l’idea di registrare un album prodotto addirittura da cinque specialisti, ciascuno dei quali si sarebbe occupato di due canzoni. Il primo produttore selezionato fu Neil Kernon (e, dato che il budget messo a disposizione dalla Capitol non era esattamente principesco, le due canzoni dovettero essere registrate in appena tre giorni). Poi, saputo che era disponibile nientemeno che Mike Stone (David Coverdale lo aveva appena licenziato, rivolgendosi a Keith Olsen per sovrintendere a quella specie di fabbrica di San Pietro che stava diventando il futuro ‘1987’), gli Helix chiamarono lui. Però Mike Stone non aveva voglia di applicarsi solo su due pezzi, chiese alla label di fare tutto il resto dell’album e pur di averlo al banco del mixer, la progettata parata di produttori venne accantonata e gli Helix volarono in Inghilterra per completare il disco assieme a lui. Mike Stone decise di registrare ai Manor Studio, poi portò i nastri al Townhouse di Londra per il mixaggio e in quel momento la band cominciò ad andare seriamente in fregola. Quando ascoltarono il primo mix proposto da Mike Stone, tutti e cinque trovarono da ridire, ciascuno aveva le sue idee e i suoi suggerimenti per rendere ‘Wild in The Streets’ un album da top ten. Mike Stone pazientemente ascoltò, prese appunti e al principio cercò anche di accontentarli, solo che ogni nuovo remix trovava qualche membro della band dissenziente. Alla fine il produttore perse la pazienza, li riunì tutti e cinque in studio e gli fece ascoltare un mix che – così disse – era il risultato del recepimento di tutte le direttive e i desiderata espressi dalla band. Una volta che lo ebbero ascoltato, i cinque Mozart o Chopin o quello che preferite dissero al produttore che adesso finalmente funzionava tutto, il disco era perfetto, se non fosse stato per i loro suggerimenti… Solo allora Mike Stone gli rivelò che gli aveva fatto ascoltare di nuovo il primo mix. La reazione degli Helix non è nota ma chiunque può facilmente immaginarla. Chi non ha mai fatto la figura dell’idiota, in vita sua? Chi non si è trovato nella condizione di sentirsi citare, con ragione, uno di quei vecchi proverbi che invitano a occuparsi solo di ciò di cui si possiede almeno una minima competenza? Quanti musicisti credono di saperla lunga ma quando provano a misurarsi con un grande produttore sono come scalpellini davanti a Michelangelo?

Bene, questo è l’aneddoto… ma ‘Wild in The Streets’, in ultima analisi, che disco era? E quante chance aveva di prendere alloggio ai piani alti della Billboard 200? Dopo i toni più soft di ‘Long Way To Heaven’, la band canadese tornava a ruggire il suo hard rock su base AC/DC, ma indubbiamente più cromato e americanizzato del solito. Di tre canzoni non erano autori gli Helix, per scelta del loro manager: c’era la cover della “Dream On” dei Nazareth e poi un parto dei fratelli Overland, “Never Gonna Stop the Rock” (che, pare, la band non trovò di proprio gusto, ma diligentemente incise senza far storie), mentre “She’s Too Tough” portava la firma addirittura di Joe Elliot. Se un brano dei Nazareth, opportunamente innervato di elettricità, non era certo fuori posto in un disco degli Helix (e la band onora questa power ballad con una bella interpretazione maschia), anche gli altri due brani si inseriscono con notevole fluidità nel contesto di ‘Wild…’: “Never Gonna Stop the Rock” è un class metal con gradevoli sfumature Van Halen, mentre “She’s Too Tough” potrebbe tranquillamente passare per un brano scritto da Doctor Doerne e soci, suonando come un parto di ipotetici AC/DC più vivaci e melodici. Perché la ricetta degli Helix, come già accennato, prevedeva come ingrediente base il patrimonio di riff e atmosfere della band di ‘Back in Black’, opportunamente lucidato e melodizzato: l’apertura affidata alla title track era una evidente dichiarazione di intenti, un arena rock che parlava la stessa lingua dei Kix, ma senza traccia di glam e con un notevole bridge bombastic. Il party metal selvatico “What Ya Bringin’ to the Party” precedeva una “High Voltage Kicks” che dopo un inizio traditore, morbido e soul, si scatenava diventando serrata ed elettrica, riproponendo il paragone con i Kix. “Give ‘em Hell” riusciva più anthemica, soprattutto nei cori che spalmavano fresca melodia californiana sui riffoni australiani, “Shot Full of Love” saliva in un crescendo metallico, “Love Hungry Eyes” variava il passo galoppando sinuosa su un riffing zeppeliniano e una melodia leggera e sofisticata, “Kiss it Goodbye” chiudeva l’album con un metal ‘n’ roll beffardo basato su un bel riff saltellante.

Insomma, un buon disco. Che potesse farcela a vendere un paio di milioni di copie negli USA… be’, perchè no? I Cinderella, l’anno precedente, avevano venduto tre milioni di copie di un disco, ‘Night Songs’, che non era certo migliore (o peggiore) di ‘Wild in The Streets’. Ma, anche se la band ce la mise tutta a promozionarlo andando in tour fino allo sfinimento, c’era troppa concorrenza in quel 1987 che vide calare come un macigno sulle ambizioni degli Helix i nuovi album di Def Leppard e Whitesnake, per tacere del fatto che ‘Slippery When Wet’ stava decollando definitivamente nelle charts e di lì a poco sarebbe esplosa sulla scena rock quella bomba termonucleare intitolata ‘Appetite for Destruction’. Era la solita storia: troppa concorrenza, e in quel particolare anno di una caratura così elevata che le speranze degli Helix di poter (finalmente?) emergere dal mucchio si riducevano senza dubbio al lumicino. E difatti, ‘Wild in The Streets’ non fece meglio dei lavori che l’avevano preceduto, e la label perse interesse in una band che nessuno ormai più riteneva potesse guadagnarsi un disco di platino o perlomeno d’oro. Gli Helix, nonostante tutto, continuarono con ammirevole perseveranza a incidere, in formazione molto rimaneggiata sono attivi ancora oggi, senza più (ovviamente) ambizioni da star ma solo (cos’altro?) per il piacere di suonare per la piccola platea di nostalgici che di rock melodico non ha mai abbastanza.

 

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URGENT

 

 

  • CAST THE FIRST STONE (1985)

Etichetta:Manhattan Records Reperibilità:scarsa

 

Gli Urgent dell’AOR sono due: ci sono quelli canadesi e quelli americani (nel 2005, una band francese si appropriò del moniker, ma solo per un album), e mi pare che quelli made in USA siano stati sempre un po’ trascurati… a torto o a ragione?

Esordirono nel 1985 con questo ‘Cast The First Stone’, inciso per una label tutt’altro che scalcinata come la Manhattan Records (era in effetti una division della Capitol, nel gergo dell’industria musicale si trattava di una in-house major, ossia una label creata in seno alla major, indirizzata  verso precisi generi musicali e con una certa autonomia decisionale), però l’album venne pubblicato solo in USA e Giappone. Il nucleo della band era formato dai tre fratelli Kehr (Michael voce e chitarra, Don alle tastiere e Steve alla batteria), scomparsi nella nebbia dopo il secondo disco, ‘Thinking Out Loud’, mentre i due personaggi destinati ad una sia pur modesta carriera erano Yul Vazquez (chitarre) e Klyph Black (basso): il primo lo ritroveremo in quella splendida band che furono i Diving For Pearls, il secondo negli altrettanto validi The Works. ‘Cast…’ venne prodotto addirittura da Mick Ronson ed è un album che la data descrive già con precisione chirurgica, impostato su un pop rock e un AOR colorati di new wave. “Running Back” apre l’album con un pop rock tipicamente mid-80s, con qualche lieve tocco pomp, ma pure vagamente danzerecio e ispirato soprattutto da quanto di più commercialmente valido facevano i Blondie e i Buggles e magari gli OMD (quelli di “Enola Gay”). “Say Goodbye” segue sulla stessa scia, aggiungendo tastiere a tratti molto più pomp, mentre la title track aumenta l’enfasi rock rispetto alle architetture new wave. Dopo “Love Can Make You Cry”, delicata ballad tutta acustiche e tastiere, viene “Pay Up”, arena rock robotico che procede fra dardeggi di synth e chitarre secche, rimandando (inevitabilmente) ai Loverboy contemporanei, ma anche “Love Him or Leave Him” strizza l’occhio alla band di Mike Reno (e anche ai Surgin’, magari) con il suo ritmo serrato. Con “Dedicated to Love” rimaniamo sempre in territori Loverboy, l’enfasi rock ha preso definitivamente il sopravvento su quella new wave, anche la power ballad in crescendo “Only You” è del tutto AOR. Il top lo raggiungono con la potente “So This Is Paradise”, ben lubrificata di melodia suggestiva dalle tastiere, mentre “Tell the Boys, No” chiude l’album con un hard’n’roll che ha il tradizionale piano boogie ma mantiene un inconfondibile flavour anni ’80. ‘Cast The First Stone’, in definitiva, è senza dubbio un prodotto di buona caratura, raccomandabile soprattutto a chi adora il pop rock in auge alla metà degli anni ’80, tenendo però ben presente il fatto che se pure venne ristampato nel 2001 dalla label tedesca ATM, ha oggi quotazioni di tutto rispetto: difficile che i CD (originali o ristampe) vadano via a meno di cinquanta dollari, mentre gli LP quotano intorno ai venti. Una nuova edizione non sarebbe una cattiva idea.