AORARCHIVIA

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JOURNEY

 

 

  • FREEDOM (2022)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Eccomi alle prese con una recensione difficile. Perché stavolta non prendo in esame il parto della solita band svedese, così facile da prendere (quando se lo merita, ovviamente) a pesci in faccia, né un prodotto discografico degli anni d’oro, magari non soverchiamente ispirato o originale, ma che porta comunque – inconfondibile, non replicabile – il profumo della grande stagione del rock melodico. Nossignori. Questo è il nuovo album dei maestri assoluti, dei campioni, di coloro che il nostro genere lo hanno materialmente creato e portato al successo.

Quando una band come i Journey si ripresenta con un disco di studio le aspettative sono sempre, nonostante tutto, elevatissime. Chiariamo il senso di quel “nonostante tutto”. I Journey del 2022 non sono né potrebbero mai essere quelli del 1981 o del 1983. Eppure i fan sperano disperatamente di trovare in ogni nuovo lavoro una nuova pietra miliare: un’altra “Stone in Love”, o “Who’s Crying Now” o “Separate Ways”, fate voi. Ma accostarsi a ‘Freedom’ (o a uno qualunque dei dischi post anni d’oro) con aspettative del genere serve solo a rimanere delusi. Eppure, i fan altro non vogliono davvero da quel moniker. Ecco perché su Heavyharmonies, spesso gli album dei Journey usciti dopo il 1986 prendono più fischi che applausi. Neal Schon e compagni (alcuni compagni diversi dal solito, come saprete ormai tutti) lo sanno benissimo e se qui un’altra “Separate Ways” non c’è, credo che il motivo non sia che non vogliono proporcela, ma che non è più nelle loro possibilità scriverla. Questo però non significa che ‘Freedom’ faccia schifo, tutt’altro. Resta comunque lo scarto cruciale fra ciò che quel nome rappresenta e ciò che è in grado di offrirci adesso. È un problema che tutte le grandi band di ieri ancora attive oggi hanno. Non c’è un modo facile per risolverlo. Forse non c’è modo di risolverlo e basta. C’è il peso di quel moniker che ti schiaccia, ci sono i classici che ti rintronano nelle orecchie. Ascolti il nuovo materiale e pensi: “Ma che è ‘sta roba? Chi è ‘sto filippino che hanno messo davanti al microfono?”… E poi ricordi (malinconicamente?) che non è più il 1981, che alla Casa Bianca non dorme più Reagan e che sul Cremlino non sventola più la bandiera con la falce e il martello, e tutto il resto…

Back to 2022. A ‘Freedom’. Che ci dà la bellezza di quindici canzoni (sedici nell’edizione giapponese… e per quale dannato motivo i giapponesi hanno sempre diritto ad una canzone in più rispetto al resto del mondo, nessuno è stato mai capace di spiegarmelo), prodotte da Neal, Jonathan Cain e Narada Michael Walden. L’apertura è affidata a “Together We Run”, che ci offre armonie classiche moderatamente proiettate nel moderno, tante tastiere e Neil che si sente soprattutto nel finale: non mi dice molto. Mi dice male, invece, “Don’t Give Up On Us”, che inizia esattamente come “Separate Ways” e prosegue su quella scia sempre in senso abbastanza moderno: l’autocitazione è troppo smaccata, e ti fa pensare (inevitabilmente) ad una sorta di “vorrei (tanto) ma non posso (più)”… Buonina riesce invece “Still Believe In Love“, morbida, tutto atmospheric power modulato su una melodia che poteva essere più incisiva. “You Got The Best Of Me” parte ruvida, poi recupera nel coro la parte più melodicamente prog (con le solite sfumature moderne) del suono Journey, proponendola anche nel finale in crescendo. Con “Live To Love Again” arriva la prima ballad, anzi, la prima ballatona, con tanto di archi a inseguire “Open Arms” senza però riuscirci. “The Way We Used To Be” cambia marcia: più hard rock, più moderna, drammatica, efficace, ma il primo vero colpo arriva con “Come Away With Me”, decisamente hard rock, scatenata e un po’ funk, dominata dalla chitarra di Neal. Per “After Glow” Pineda lascia il microfono a Dean Castronovo: chiaroscuri e lampi prog, atmosfere moderne e una melodia sublime, ma su “Let It Rain” Neal riprende il controllo con uno splendido hard bluesy dondolante che non avrebbe sfigurato su ‘Piraha Blues’, e che bello quello sfondo variegato di tastiere ricamato da Jonathan Cain. “Holdin' On” è scatenata, fatta di riff nervosi e saettanti che si alternano a scoppi di keys sotto una melodia solare: davvero notevole, come l’arena rock “All Day and All Night”, sinuoso sui riff secchi e potenti. “Don’t Go” è pura nostalgia, sparisce ogni riferimento al moderno, qui si replica il suono epoca ‘Frontiers’ in una chiave più elettrica: buona senza stupire, ma pure inutilmente lunga. Su “United We Stand” aleggia una vaga sensazione di già sentito, ma questa power ballad smaltata di una vaga cupezza moderna risulta comunque pregevole. “Life Rolls On” è forse la perla del disco: potente e luminosa, melodica e suggestiva, con un Pineda che dimostra di poter clonare voce e stile di Steve Perry in maniera stupefacente ogni volta che desidera. In chiusura, gli oltre sette minuti di “Beautiful As You Are”, classica power ballad che parte con archi e chitarra acustica e si innalza drammatica e urgente, con un finale fatto di lunghi assoli.

Questo è ‘Freedom’. Bello? Certo. Superlativo? Non del tutto. Non sono le concessioni al suono moderno a indisporre, ma il fatto che la band in almeno un paio di frangenti ha ritenuto di dover stuzzicare la nostalgia di chi li ascolta con il classico mezzuccio della citazione. E indispone perché tutto il resto di ‘Freedom’ dimostra che non ne hanno bisogno, che sanno sempre comporre grande rock melodico. Non nella forma esatta di una volta, ma non possiamo chiedergli di essere esattamente quelli di quarant’anni fa. Sempre brillanti, in definitiva, ma non più geniali come nei primi anni ’80. E non possiamo certo rimproverargli di non essere più capaci di dimostrarsi geniali.

 

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THINK OUT LOUD

 

 

  • THINK OUT LOUD (1988)

Etichetta:A&M Reperibilità:in commercio

 

Ai Think Our Loud avevamo già fatto un accenno parlando del primo disco solo di Peter Beckett: un duo formato dal Beckett suddetto e da Steve Kipner, con cui l’ex Player aveva formato una redditizia società dedita al songwriting. Dopo sei anni passati a scrivere canzoni per gli altri, Beckett e Kipner ritennero evidentemente fosse giunto il momento di registrarne qualcuna in proprio. Il contratto major con la A&M era già un buon punto di partenza, il duo (Beckett a chitarre e voce, Kipner a basso e tastiere) si fece coadiuvare da turnisti di alto livello (Michael Landau e Steve Lukather per le chitarre, mentre alle tastiere ritroviamo Randy Goodrum, John Capek, Bob Marlette, Bobby Caldwell; basso e batteria vennero programmate) ma si occupò quasi in esclusiva della stesura delle canzoni, con appena qualche aiuto esterno, sovrintendendo anche alla produzione.

Think Out Loud’ non era uno di quei dischi che fanno esattamente fuoco e fiamme: la coppia Beckett-Kippner impostò il suo discorso musicale sulle coordinate del pop rock da alta classifica che a quell’epoca faceva furore. Ma la produzione era contraddistinta da una raffinatezza estrema, tutte le canzoni risultavano lavorate allo spasimo e il voltaggio sempre moderato non indisponeva più di tanto, compensato ampiamente dalla varietà e ricchezza degli arrangiamenti.

In a Perfect World” chiariva alla perfezione gli intendimenti della band, un pop rock high tech con sfumature funky e prog, dalla grande atmosfera. “Stranger Things Have Happened” era ancora più keys oriented, con le chitarre che si limitavano a sottolineare, rifinire e dare colore, mentre su “Original Sin (Jumpin’ In)” spiccava il notevole intreccio di percussioni che davano dinamismo ad un brano prevalentemente d’atmosfera. La ballad “The Deep End” precedeva la abbastanza Toto “Raise You Up”: le chitarre dal volume più alto davano alla track un bello smalto anthemico. “After All this Time” era decisamente Asia, “Faithful Love” adottava una ritmica reggae e ci spalmava sopra un refrain melenso, “Body and Soul (Lost in the Rhythm)” riproponeva i Toto in una versione più cerebrale e con un refrain robotico, “In No Uncertain Terms” era una ballad policroma che procedeva in un susseguirsi di atmosfere. In chiusura, “Talk to Yourself “, un tipico funky pop dei Big 80s.

Ristampato nel 2009, ‘Think Out Loud’ non è facilissimo da trovare su CD ma è in vendita come .mp3 su Amazon Music. Reperibilità su disco ottico stranamente migliore per il secondo (e altrettanto ottimo) album, ‘Shell Life’, pubblicato dalla MTM nel 1997, ma prezzi regolarmente più alti (sui trentacinque euro). Per chi ama quel pop rock cromato che dominò le classifiche USA soprattutto nella prima metà del decennio con gente come Rick Springfield, Starship e Asia, un acquisto quasi obbligato.

 

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H.E.A.T

 

 

  • FORCE MAJEURE (2022)

Etichetta:Edel Reperibilità:in commercio

Gli H.E.A.T hanno cambiato un’altra volta cantante, è tornato al microfono Kenny Leckremo, ma rispetto a ‘II’ non è cambiato il sound, sempre molto metallizzato e infinitamente meno avventuroso rispetto a quel capolavoro maltrattato da fan ignoranti e ottusi che fu ‘Into The Great Unknown’ nel 2017 (lo recensii a suo tempo su Classic Rock). Di fronte a quel coro di critiche ingiuste, la band non ebbe la forza di insistere in una direzione che a chi compra i loro album proprio non riusciva gradita, tornando alle atmosfere fracassone di ‘Tearing Down The Walls’ e espungendo qualsiasi elemento moderno dal proprio sound. Questo ultimo ‘Force Majeure’, anche nel titolo poco originale prosegue il discorso avviato con ‘II’, in cui la band cerca di venire incontro ai desiderata di un pubblico per niente sofisticato, a volte assecondandone la rozzezza in maniera addirittura sconcertante. Quando mai si era sentito in un disco degli H.E.A.T un power metal adenalinico ed epicheggiante come “Demon Eyes”? E quel pappone tra l’epico e il pomposo intitolato “Paramount” in cui viene sparsa un’insopportabile tronfiezza germanica sulle strofe? E le dosi massicce di tipico metal teutonico che infestano “Back To The Rhythm”? Neppure i Journey sfuggono a questo funesto trend, la band ce li serve in salsa di crauti nella power ballad “One Of Us”. Meglio funzionano “Hollywood” e “Nationwide”, metal californiani inzuppati di melodia scandinava, e meglio ancora riesce “Tainted Blood”, altra esercitazione in tema di metal californiano, ma volto all’arena rock, potente e ariosa nello stesso tempo. “Harder To Breathe” ha una bella cifra melodica, vagamente House of Lords, “Wings Of An Aeroplane” e “Not For Sale” sono i soliti arena rock spettacolari della band, ma anche quando fanno quello che gli riesce meglio, sembrano raffrenati dall’esigenza di non uscire troppo dal consueto, di riciclarsi piuttosto che progredire. Il riffing è sempre trito e scontato, la sensazione di già sentito assale l’ascoltatore in più di un frangente. Tutto questo ha un nome: involuzione. E un’involuzione scandalosa, perché non è stata determinata da una crisi di creatività della band, ma da quelle che si possono definire solo esigenze di mercato. È come se gli H.E.A.T si fossero detti: “Dunque ci vogliono rozzi? Li accontentiamo senza pensarci due volte”… Che tristezza. Che pena.

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RIO

 

 

 

  • BORDERLAND (1985)

  • SEX CRIMES (1986)

 

Etichetta:Music For Nations Reperibilità:scarsa

 

Che praticamente nessuno si ricordi dei Rio quando si citano alla spicciolata un po’ di band inglesi di AOR dei Big 80s, è strano: non tanto in relazione al valore della band, quanto per il fatto che il primo album ebbe una distribuzione tutt’altro che micragnosa (fu pubblicato anche dalla Elektra negli USA e dalla Victor in Giappone). Oggi, su Heavyharmonies quel disco ha una valutazione di 89/100: del tutto spropositata, per i motivi che andrò tra poco a elencare.

I Rio nacquero come duo, formati da Jon Neill (Voce e chitarra) e Steve Rodford (tastiere, basso e batteria, nonché produzione). ‘Borderland’, il loro primo album, non venne registrato sotto l’ala di una major, ma della Music For Nations, indipendente di mezzi certo non spropositati. E così, mentre Shy, FM, Virginia Wolf ebbero produttori di prima classe e a volte anche songwriter prestigiosi a sovrintendere i loro album, Rodford e Neil dovettero fare tutto da soli. E, indubbiamente, si sente. I punti deboli di questo disco sono un songwriting un po’ opaco e una produzione tutt’altro che geniale. Gli arrangiamenti trovano il loro punto debole nei refrain: non solo c’è spesso troppa insistenza nel ripeterli, ma sembrano costruiti quasi tutti allo stesso modo, secondo lo schema coro/voce solista/coro/voce solista, di modo che finiscono per assomigliarsi involontariamente. Il suono praticato dal duo è in genere quello dell’AOR canadese, a volte sul versante Honeymoon Suite (“I Don’t Wanna Be The Fool”, “Straight To The Heart”, i bei chiaroscuri di “Close To You”) altre su quello Loverboy (“She’s A Virgin”, che deve qualcosa anche a Huey Lewis; l’arena rock dell’ottima title track), ma si svaria comunque con buona efficacia: “Tommy Can’t Help It” è fatta di atmospheric power nelle strofe ma diventa elettrica nel refrain, “Better This Time” è dinamica, “Shy Girl” è dinamica e d’atmosfera, il peso massimo “State Of Emergency” ha un refrain vagamente anthemico.

Insomma, ‘Borderland’ era un album di discreta fattura, ma non mi pare che potesse reggere l’urto della concorrenza di là da venire. E i riscontri sulle charts dovettero essere infimi, al punto che l’anno succesivo, per il successore ‘Sex Crimes’ ci fu un netto cambiamento di scenario, passando dall’AOR al metal californiano, genere che evidentemente il duo (aumentato a quartetto nei credits, dove figurano anche un batterista e un tastierista) riteneva (Dio solo sa perché) più facilmente smerciabile sul mercato britannico. Difatti, ‘Sex Crimes’ non godette della diffusione internazionale del predecessore, restando confinato nel Regno Unito e in qualche paese europeo in cui la MFN aveva distribuzione. La vecchia identità ritorna solo nella notevole “Danger Zone”: sempre molto Honeymoon Suite e anche un po’ Simple Minds, suggestiva commistione di atmosfera e potenza. La band di Johnny Dee echeggiava anche fra le note dell’hard melodico “Atlantic Radio”, tutto il resto, come detto, era ambientato fra le spiagge di Venice e il Sunset Strip, a cominciare da quei classici mix tra Ratt e Crüe intitolati “Pay For Love”, “When The Walls Come Down” e “Highschool Rock”, e continuando con “Under Pressure”, anthemica alla maniera dei Quiet Riot. Gli inevitabili Autograph spuntavano nel refrain della title track (che ha molte più tastiere rispetto al resto e un cantato pop) e in “Dirty Movies” (ma qui sono Autograph di grana molto grossa, e il risultato è decisamente monotono), mentre “Bad Blood” era heavy e veloce ma vantava un refrain arioso. Il top stava in “Guilty”, anthemica alla maniera dei Great White era ‘Once Bitten’, bell’amalgama di energia metallica e atmosfera in senso arena rock.

Sex Crimes’ risulta, alla fine, un album contraddittorio, perché il nuovo corso metal non produce nulla di memorabile, mentre è proprio nell’AOR che la band ci dà la cosa migliore, con “Danger Zone” (e voglio sottolineare che una track di questo livello, su ‘Borderland’, non c’era), mentre lo splendore di “Guilty” fa sospettare che, più che a girovagare tra il Roxy e il Troubadour orecchiando quanto facevano le grandi band dello Strip, i Rio avrebbero dovuto insistere sul versante melodico di quel suono, che avevano dimostrato di saper coniugare con grande sapienza.

Cancellati da una concorrenza agguerrita e dal disinteresse del pubblico europeo per generi musicali che solo negli Stati Uniti raggiungevano la cima delle classifiche, la speranza di ripetere i fasti dei Def Leppard (o almeno quelli dei Fastway) si infranse quando a ‘Sex Crimes’ mancò la distribuzione fuori dal Regno Unito, e allora non meraviglia che dopo il 1986, dei Rio non si sentì più parlare.

La loro discografia è stata ristampata più di una volta, ma le quotazioni sono abbastanza consistenti: da venti a trenta dollari per ‘Borderland’, anche più di cinquanta per ‘Sex Crimes’, non commisurate al valore artistico ma solo ad una rarità che li rende fruibili unicamente per i collezionisti più fanatici.

 

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BILOXI

 

 

  • LET THE GAMES BEGIN (1993)

Etichetta:Ash America Records / Zero Corporation Reperibilità:scarsa

Biloxi è una città dello stato del Mississippi, con una popolazione di (lo dice Wikipedia) 49.449 anime. Non è stata teatro di un qualche avvenimento storico, e l’unica sua particolarità attuale sta forse nel fatto che ospita ben otto casinò (di una di queste case da gioco è comproprietario Greg Giuffria). Domanda: perché la band in discorso ha scelto come moniker il nome di questa città? Forse perché vengono tutti e quattro da lì? E se pure fosse? È una strana usanza americana questa di battezzare le band con i nomi delle città, a volte con quelli degli stati. Gli inglesi non lo fanno (anche se – raramente – scelgono i nomi di città straniere, come quel gruppo glam che per imperscrutabili ragioni si battezzò Torino). È una moda che le band nostrane, appartenenti a qualsivoglia genere musicale, non hanno mai ritenuto di dover seguire, e in effetti non mi risulta che qualche gruppo italiano abbia adottato come marchio Milano, Sassari, Genova, Taranto, o magari Ariccia, Casapulla o San Benedetto del Tronto. Non mi azzardo a speculare sui perché e percome di questa abitudine, ma ogni volta che mi imbatto in una band omonima di una città americana non posso fare a meno di domandarmi cosa li ha spinti a scegliere proprio quella città in particolare. Passino Boston e Chicago, ma cosa ha mai Biloxi di tanto notevole o interessante da meritarsi di essere scelta per donare il proprio nome ad una band? Dio lo sa. Una cosa è certa: non vi è la minima corrispondenza tra l’ordinarietà e il presumibile grigiore da piccolo centro di Biloxi, Mississippi e la musica dei Biloxi, almeno dei Biloxi di questo primo album uscito nel 1993. Difatti, la band si rifece viva in formazione molto rimaneggiata per altri due dischi nel 2003 e nel 2008, che non ho mai sentito ma di cui non si scrisse bene. Di questo ‘Let The Games Begin’ si sarebbe dovuto scrivere benissimo, ma pochi lo notarono, non solo per il momento storico, ma anche perché pubblicato negli USA da una label sconosciuta che probabilmente era stata messa su dalla stessa band (ma in Giappone venne preso in carico dalla Zero Corporation). Venendo ai contenuti, l’inizio è davvero notevolissimo: “Run For Your Life” si potrebbe descrivere in molti modi, ma nelle mie orecchie suona come una sorta di incrocio tra i Bad Company e i Queen, con qualche sfumatura presa a prestito dal David Lee Roth meno estroso: a volte pacata, altre adrenalinica, il solo di chitarra viene oltretutto preceduto da un altro assolo di basso slappato. Originale? Decisamente, ma per nulla “strana”. Un pezzo di bravura, anche dal lato strumentale, che la band decide di non replicare immediatamente, concedendosi all’hard melodico con “Angel”, dove sembrano dei Danger Danger più bruschi. La “Mississippi Queen” dei Mountain viene sapientemente cromata ma non perde l’irruenza originale, la power ballad “Don’t Cry No More” (aperta e chiusa da un bel pianoforte) guarda all’universo Journey, la divertente “Out Too Late” comincia con un’ armonica, ha strofe molto Bon Jovi e un refrain solare e vicino all’r&b. “Livin’ Time”, veloce eppure ariosa, rinnova i contatti con i Danger Danger, ma “Show Me the Way” sale molto più in alto: gran ritmo, una chitarra pulsante, gli interventi dei fiati, un refrain per cui i Tyketto avrebbero ucciso. “Magic” è fatta di una trama fra Firehouse e Mr. Big su cui vengono intessute melodie di stampo Journey e ancora Danger Danger, ma con “Dancin’” si può quasi gridare al miracolo: i fiati che impazzano su un tessuto molto Firehouse (dei Firehouse più sofisticati e melodici), quel riffone massiccio e beffardo, il bridge sui generis di basso e tastiere, l’assolo che vede protagoniste prima le keys e poi una chitarra scatenata. “Somewhere in the Night” è tutta chitarre acustiche, voci e tastiere, una ballad magnificamente orchestrata, mentre la chiusura è affidata alle atmosfere più metalliche di “Here and Now”, drammatica e potente, con le tastiere che solo qui prendono una certa enfasi pomp. Con una produzione realmente creativa curata dal cantante e bassista Clyde Holly e un songwriting tutto interno alla band (fatta salva, ovviamente, la cover dei Mountain), i Biloxi erano una di quelle rare entità che cercavano di percorrere i sentieri del rock melodico se non proprio in maniera del tutto originale quanto meno tentando di proporre qualcosa di diverso dal solito e ci riuscivano benissimo in più di un frangente. Purtroppo lo fecero quando le campane a morto per il genere erano già suonate, oltretutto senza il supporto di una label che potesse garantirgli un’esposizione decente. Oggi, le quotazioni su eBay di ‘Let The Games Begin’ sono alte ma non proibitive: una ristampa sarebbe comunque d’obbligo per quello che fu uno dei migliori album di hard rock melodico del 1993.

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LAST TEMPTATION

 

 

  • LAST TEMPTATION (1997)

Etichetta:Sonic Messiah Records Reperibilità:scarsa

 

Attenzione: questi Last Temptation NON sono la stessa band che pubblicò un album fantasmatico con Frank Vestry al microfono nel 1991 (album ripubblicato nel 2009 con il titolo ‘Better Late Than Never’). Non sono neppure la band tedesca che si è recentemente appropriata del moniker (due album, nel 2019 e 2022). Questi particolari Last Temptation venivano dalla California, fecero uscire il loro unico album nel 1997 (per un’etichetta creata da loro stessi, suppongo, dato che il suo catalogo comprendeva solo questo disco), sono sconosciuti a Heavyharmonies e dovrebbero essere recuperati senza esitazione dagli amanti dello street rock, anche se il CD è irreperibile e una ristampa molto improbabile. Non li segnalo ai miei fedeli lettori per sadismo, ma perché il contenuto del disco comunque è reperibile, e a buon intenditor…

L’apertura è affidata a “The Devil is on my Trail”: hard blues molto anni ’70, convenzionale ma non spiacevole, è comunque del tutto diversa dal resto del materiale, al punto che si potrebbe dire l’album comincia davvero con “Can You Feel It”, decisamente street rock, in bilico tra Tora Tora e Lynch Mob, e su quella stessa falsariga segue “Desperate Road”, più metallica e cadenzata. Notevole risulta “The Last Mile”, street con belle vibrazioni southern rock, procedendo elettrica e melodica fra incantevoli chiaroscuri. “Nobody Said It Was Easy” si muove più lenta e sinuosa, “Lookin’ For Real Love” è una ballad elettroacustica vivace e luminosa, “Black Cat Moan” è scanzonata e divertita, “Save Me Some Love” aggiunge al mix una buona dose di Tesla e Black Crowes, e si caratterizza anche grazie all’arrangiamento movimentato. Se “She Walks By” è swingante e divertente alla Van Halen (dei Van Halen in versione Bulletboys, diciamo) il gran finale è affidato a “Vodou Man”, che inizia come una danza di guerra pellerossa e prosegue bluesy e misteriosa tra riffoni sabbathiani, scoppi di melodia e chitarre che ricamano accordi insinuanti.

Insomma, ‘Last Temptation’ non lo diresti un album indipendente (anzi, autarchico): è registrato benissimo, prodotto professionalmente (dal cantante, Robbyn Desperado Garcia) e con un songwriting maturo e accattivante. Come detto, il CD non si trova in giro, e le rarissime volte che ha fatto la sua comparsa tra eBay e Amazon è passato di mano per un intorno dei centotrenta dollari. Invece di pubblicare i demo dal suono orripilante di band conosciute all’epoca solo nel loro rione, perché qualche label specializzata non riedita questo bel disco?

 

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SANNE

 

 

  • LANGUAGE OF THE HEART (1994)

Etichetta:Virgin Reperibilità:discreta

 

So cosa state pensando: il webmaster sta per attizzarci con un altro disco conosciuto solo da lui e da chi lo ha inciso, e che passa di mano sul web a cifre che possono permettersi di sborsare solo i petrolieri. E invece no! Sanne Salomonsen non è celebre come Lady Gaga, ma una certa notorietà l’ha conquistata (ha perfino la scheda di Wikipedia in italiano), e questo disco è presente su eBay in notevole quantità e a prezzi variabili ma del tutto ragionevoli.

Chi è, comunque, la signora in questione? Una cantante danese, che ha esordito addirittura nel 1973 ed ha inciso una quantità notevole di dischi (alcuni cantati in lingua madre). Per i palati AOR, i più interessanti mi pare siano ‘When Blue Begins” (1991) e questo ‘Language Of The Heart’ (1994) di cui mi appresto a riferirvi. Prodotto da Nick Davis (Marillion, Genesis, Waysted), con canzoni fornite da songwriter di prima classe come Jim Vallance, Rick Springfield, Kim Wagner, Sheryl Crow e una backing band che vedeva all’opera (fra gli altri) Bill Payne, Kenny Aaronoff e Paul Barrere, ‘Language…’ esplorava i territori del pop rock e dell’AOR più sofisticato modulati tramite arrangiamenti curatissimi e una produzione impeccabile, mettendo (ovviamente) al centro del quadro la voce di Sanne (per inciso: non un esotico nome danese, ma solo un modesto diminutivo di Susanne), che si presentava spigliata, policroma, espressiva e dotata di una timbrica davvero accattivante. L’apertura era affidata a “Haven’t I Been Good To You”, AOR patinato e luminoso a cui seguiva la title track, una ballad gentile tutta acustiche e voce appena segnata da una bava di tastiere. Più notturna ma nello stesso tempo vivace si configurava “Love Done Right”, mentre “Last Chance For Love” esprimeva un AOR bluesy morbido e raffinato. Sanne omaggiava poi gli Stage Dolls incidendo la perla del loro album ‘Stripped’, “Love Don’t Bother Me”: nessuna deviazione significativa rispetto all’originale, ma la bella voce di Sanne rendeva questa versione (per me, almeno) più interessante. “What Does It Matter” era una ballad dal magnifico crescendo, partendo morbida e diventando gloriosamente power, ma il top arriva con “Walking That Fine Line”, che si muove ad un ritmo morbidamente boogie, passando dall’atmospheric power delle strofe ad una luminosità quasi soul nel coro. Altra eccellente ballad acustica si rivela “Come To The Water”, a cui segue “Grip Of Love”, classico pop rock sofisticato che pende nella melodia sull’r&b. Chiude “When A Woman Pretends”, con i suoi tocchi bluesy e ancora una bella cifra melodica r&b nel refrain, il tutto proiettato nei cieli dell’AOR più cristallino.

Sanne Salomonsen non è l’unica artista danese che può interessare chi segue l’AOR, anche Hanne Boel ha inciso almeno un paio di album che ricadono nel nostro genere: provate ad ascoltare il suo ‘Dark Passion’, altra delizia sonora per chi ama le voci femminili inserite nel tessuto dell’Adult Oriented Rock.