recensione

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AORARCHIVIA

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TRIXTER

 

 

  • HEAR! (1992)

  • NEW AUDIO MACHINE (2012)

 

Etichetta:'Hear!': Atlantic               

                'New Audio Machine':Frontiers

Reperibilità:'Hear!': scarsa

                     'New Audio Machine': in commercio

 

Eccoci alle prese con un’altra delle bands che nei Big 80s venivano classificate fra quelle “minori”. E vent’anni fa, i Trixter sembravano davvero appartenere a quella categoria, se paragonati a Giant, Bad English, House of Lords, Whitesnake, Bon Jovi, Baton Rouge e compagnia. Il livello medio delle uscite discografiche era talmente alto che bastava una sbavatura a far retrocedere una band tra quelle di seconda schiera. Naturalmente, se oggi venisse fuori una band con un album come ‘Hear!’ tutti griderebbero al miracolo. Per il nuovo ‘New Audio Machine’, pubblicato vent’anni giusti dopo ‘Hear!’, possiamo lanciare quel fatidico urlo? C’arriviamo fra un po’.

Tornando alla questione del piazzamento… Nel caso dei Trixter, non era tanto una faccenda di sbavature a collocarli in seconda fila, ma piuttosto la mancanza di un sound autonomo e, per soprasomma, un troppo evidente amore per quello codificato dai Bon Jovi. ‘Hear!’ si presentava, comunque, come un signor album, prodotto da Jimbo Burton, con un suono di gran lusso ed arrangiamenti spettacolari, curati nei minimi particolari, uno di quei prodotti discografici che al giorno d’oggi possono permettersi di registrare forse cinque o sei monikers sulla faccia della terra ma una volta erano (quasi) ordinaria amministrazione anche per bands tutt’altro che miliardarie.

Entriamo dentro ‘Hear!’ sulle ali di “Road of a Thousand Dreams”, power ballad elettroacustica dalla grande estensione melodica, figlia dei migliori Bon Jovi epoca ‘New Jersey’, ed è strano che la band abbia scelto proprio questa canzone per aprire un disco molto elettrico ed heavy (su dodici tracks ci sono solo altre due ballad). “Damn Good” è californiana, un po’ Ratt, spettacolare e divertente, e sempre a L.A. restiamo con il metal diretto e sfacciato di “Rockin’ Horse”. “Power of Love” è un arena rock da urlo, “Runaway Train” un’altra power ballad dal refrain fascinoso, un po’ alla Tangier era ‘Stranded’. Accademico ma piacevole si rivela il class metal “Bloodrock”, nello stesso tempo aggressivo e sinuoso. Due hard melodici debitori dei Bon Jovi (quelli di ‘Slippery…’, stavolta) sono “Waiting in that Line”, scanzonata e potente, e “Nobody’s a Hero”, con il suo bridge Beatlesiano e un bell’arrangiamento di tastiere. “Wild is the Heart” è invece un grande hard rock’n’roll, martellante, con tanto di armonica e piano boogie: provate a pensare a dei Jetboy cromati e tirati a lucido. “What it Takes” è un anthem guerriero e dokkeniano con ritornello ispirato dei soliti Bon Jovi prima della delicata ballad “As the Candle Burns”, tutta acustiche e tastiere, con un finale un po’ Beatles che non può non ricordare le analoghe cose dei Little Angels. In chiusura, “On the Road Again” spara un sensazionale boogie metallico condotto da una slide fragorosa.

Vent’anni dopo – per citare Dumas padre – arriva un nuovo disco di studio (per la verità, nel 1994 avevano inciso un cover album, ma quanto contino i cover album, poi…), ‘New Audio Machine’. Questo disco ci ha indotti ad emettere un assordante urlo alla Tarzan? Non proprio, ma i Trixter, nell’anno domini 2012 pubblicano per la Frontiers, incidono da soli, senza un produttore, e non sui nastri da due pollici ma con il Pro Tools, come fanno tutti oggi. Il suono è asciutto, pulitissimo, le tastiere sono sparite o quasi, gli arrangiamenti risultano meno densi e più lineari, ma la band non ha registrato questo disco sotto la guida di un produttore di vaglia, né ha potuto investire nell’incisione un capitale. Insomma, certi risultati, non mi stancherò mai di ripeterlo, non vengono da soli, per ispirazione o semplice convinzione, sono frutto di un lavoro certosino di team affiatati e costano cifre che oggi pochissimi possono permettersi. E allora, senza fare troppo i sofisti, ringraziamo i Trixter per averci dato un album di hard melodico e class metal nello stile del bel tempo che fu, una boccata di buon ossigeno americano tra le zaffate sulfuree tedesche e le folate dall’aroma asettico di deodorante da casa che vengono dalla penisola scandinava in cui siamo ormai immersi quotidianamente.

Entrando nello specifico di ‘New Audio Machine’, e dopo aver doverosamente sottolineato che la voce del singer Peter Loran è sempre strepitosa e camaleontica e gli impasti vocali impeccabili, si parte subito fortissimo con “Drag Me Down” ed il suo flavour western, prima acustica poi tirata su un bel riff galoppante, il tutto in bilico fra Tattoo Rodeo e Dillinger. A seguire, il class metal martellante ma ben lubrificato di melodia anthemica intitolato “Get On It” e poi due classici metal californiani, “Dirty Love” (allupata e con un favoloso ritornello sleaze) e “Machine” (bell’impasto di Ratt, Whitesnake e Bulletboys). “Live For The Day” è una power ballad elettroacustica dalla melodia suggestiva, mentre “Ride” impasta i Poison ai Bon Jovi più western. “Physical Attraction” è un’eccellente esercitazione sul sound dei Van Halen, mentre con la bellissima melodia di “Tattoos & Misery” torniamo nell’universo dei Bon Jovi epoca ‘New Jersey’ / ‘Keep the Faith’. “The Coolest Thing” è una splendida ballad che rimanda senza equivoci alle ultime cose dei Beggars & Thieves ed è anche l’unica track con qualcosa di moderno, ma solo nel disegno delle percussioni. “Save Your Soul” è invece un party rock su riff AC/DC dal ritmo irresistibile (immaginate dei Kix più melodici) e a chiudere ancora due puntate verso il New Jersey dei Bon Jovi con le melodie stratosferiche di “Walk With A Stranger” e “Find a Memory”, proprio quel genere di canzoni che Jon e compagni non sanno o non  vogliono più scrivere.

Insomma, questa nuova prova discografica dei Trixter può guardare 'Hear!' senza arrossire: non ci avrà indotti a fare l’imitazione dell’uomo scimmia, ma ci ha strappato parecchi grugniti di soddisfazione. Per chi ama l’hard rock americano, ‘New Audio Machine’ è una priorità assoluta.

 

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H.E.A.T

 

 

  • ADDRESS THE NATION (2012)

Etichetta:ear Music / Edel Reperibilità:in commercio

 

Questo nuovo capitolo discografico degli H.E.A.T. è segnato dal cambio di vocalist (tal Erik Grönwall ha preso il posto di Kenny Leckremo) e da una produzione che, rispetto al disco precedente, risulta più sofisticata. La qualità audio è ottima ed anche il songwriting ha guadagnato una certa autonomia, i “copia & incolla” sono ridotti ai minimi termini e ‘Address the Nation’ si presenta compatto, solido, senza fillers (dieci canzoni, quarantadue minuti di musica). La voce del nuovo singer non è poi tanto diversa da quella del suo predecessore, ed è davvero una gran bella voce, dispiegata in tutta la sua forza già su “Breaking The Silence” che apre l’album con un anthem potente e spettacolare. Su “Living on the Run” i ragazzi suonano come dei Journey più elettrici, mentre “Falling Down” si snoda tra una chitarra pulsante e limpida ed un’altra sporca e ringhiosa prima del bel refrain. Notevole l’orchestrazione dei cori in “The One And Only”, power ballad brillante e molto Bon Jovi, mentre un efficace impasto chitarre / tastiere regge “Better Off Alone”, interessante anche per la scansione ritmica e la melodia che però risulta un po’ sotto tono nel ritornello. “In and Out of Trouble” e “Need Her” sono due splendide tracks Boulevard inspired (nella prima fa la sua corretta comparsa anche un sax fascinoso), “Heartbreaker” torna all’arena rock veleggiando su un riff secco e bluesy prima del refrain alla Survivor, “It’s All About Tonight” parte come un hard bluesy ruvido e turbinoso con tanto di organo Hammond proseguendo lungo un crescendo che la trasforma in un anthem dal ritornello di marca Def Leppard e chiude “Downtown”, ariosa ma potente, pregevole variazione sui sempiterni temi dei Journey.

Il maggior pregio di questa band, rispetto alla concorrenza aborigena, resta un sound che nella sua globalità guarda molto all’AOR d’oltreoceano e non si perde fra le nevi eterne o quei coretti fessi e dolciastri che caratterizzano il rock melodico svedese. ‘Address the Nation’ è probabilmente il miglior album degli H.E.A.T. ed una delle cose più interessanti di questo 2012 ormai arrivato al giro di boa.

 

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TOTO

 

 

  • THE SEVENTH ONE (1988)

Etichetta:Columbia Reperibilità:in commercio

 

Perché proprio ‘The Seventh One’, vi starete forse chiedendo? Perché non il loro fondamentale e vendutissimo ‘IV’, o il mio preferito ‘Hydra’? Perché – forse – ‘The Seventh One’ rappresenta meglio di ogni altro disco le tante facce di questa band, perennemente sospesa (o indecisa?) tra pop e hard rock, inossidabile colonna portante del genere AOR. La critica mainstream li ha considerati sempre poco più di una combriccola di professionisti lautamente prezzolati (Lukather e compagni hanno lavorato come session men in una quantità assolutamente spaventosa di dischi, spaziando in tutti i generi della musica leggera: pop, rock, rhythm & blues, soul, blues, jazz, fusion…) unita solo dalla voglia di far soldi con musica “facile”, ma neppure i più acidi detrattori hanno potuto negare la professionalità e la valentia nel songwriting di questi mercenari di gran lusso. Che poi la musica dei Toto sia o sia stata sistematicamente “facile” è tutto da dimostrare, considerato che quasi la loro intera discografia è densa di episodi che si potrebbero tranquillamente catalogare alla voce “fusion” (ed ho usato il condizionale e le virgolette perché praticamente nessuno di coloro che trattano e passano al setaccio questo genere dai confini quanto mai incerti si è mai sognato di iscrivere i Toto nel proprio registro e di sicuro si opporrebbe energicamente alla loro inclusione nella lista delle band fusion) o prog rock.

The seventh one’ appartiene comunque al periodo più pop della band di Steve Lukather, e difatti lo inaugurano tre canzoni che anche con tutta la più buona volontà di questo mondo proprio non si possono inquadrare in ambito rock, adulto o meno. Se “Pamela” è un favoloso rhythm & blues dalla melodia sublime, “You Got Me” suona pop, funky e danzereccia alla maniera dei DeBarge: nel suo genere sarà anche apprezzabile, ma di sicuro chi in quel 1988 andò a comprare ‘The seventh one’ l’avrà trovata (come minimo) fuori posto; molto meglio “Anna”, raffinatissima ballad marchiata dalle inconfondibili linee melodiche della band. E l’AOR? Arriva, finalmente, con la divina “Stop Loving You”, sempre un po’ funky, grande crescendo e ritornello magistrale. “Mushanga” alterna parti soffuse ad un refrain pomp: si pone sulla scia di “Africa”, ma è più sofisticata, con un arrangiamento variegato ed un marcato flavour etnico. Nuova giravolta con il rockaccio ruvido condotto da una chitarrona ringhiosa “Stay Away”, e a seguire due tracks di AOR dinamico e diretto, “Straight for the Heart” e “Only the Children”, questa più elettrica della precedente e con un’estensione melodica che la proietta nei territori del big sound più maestoso. “Thousand Years” e “These Chains” sono notturne, carezzevoli, suadenti, la seconda con un’impennata d’energia nel ritornello e chiude “Home of the Brave”, robusto AOR smaltato di suggestioni prog.

Ricordato che dietro il microfono, per questo disco, c’era il bravissimo Joseph Williams (tornato da poco in pianta stabile nella band, almeno stando a quanto è riportato nel sito web dei Toto), non c’è altro da aggiungere. Certo, chi predilige le frange più dure dell’AOR, in questo come in altri dischi dei Toto non si sarà sentito del tutto a proprio agio, ma questa band non è mai stata fatta per gli oltranzisti delle chitarre a manetta e dei Marshall fumanti. Travalicando i generi, rifiutandosi di appiccicarsi un’etichetta addosso, vagando attorno a quei confini incerti che pure dividono in compartimenti stagni la musica, i Toto sono riusciti a creare un sound inconfondibile e veri e propri standard per l’AOR (“Hold the line” è ancora oggi un manuale imprescindibile per chi decide di suonare Adult Oriented Rock), ma la mia sensazione è che questo sia accaduto se non proprio per caso, di sicuro senza una volontà precisa da parte della band, il cui principale obiettivo è sempre stato esprimersi in libertà. Dopo le sessions in studio agli ordini di qualche produttore, Steve Lukather, Jeff Porcaro e tutti gli altri si riunivano sotto quel monicker per fare esclusivamente quello che gli piaceva, e al diavolo tutto il resto. Il fatto che l’intellighenzia del rock (e della fusion, naturalmente…) li abbia sempre guardati dall’altro in basso è solo l’ennesima conferma di quel vecchio, saggio detto popolare: non c’è miglior sordo…

 

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JIMMY LAWRENCE

 

 

  • THE WORLD IS ROUND (1996)

Etichetta:MTM Reperibilità:discreta

 

Jimmy Lawrence è un’altra vittima degli zozzoni di Seattle. A fine anni ’80, si era fatto notare alla guida di una band, i Rocklin, su cui diverse major labels avevano messo gli occhi. Jimmy ottenne invece un contratto come solo artist, da quale major non è chiaro (la Sony, probabilmente) e registrò un album con un team che definire “stellare” è perfino riduttivo, considerato che tra produzione, songwriting, e performance strumentali, il disco poteva contare su (citati in ordine sparso) Robert White Johnson, Stan Meissner, Peter Wolf, Rick Neigher, Tom Werman, Bill Cuomo, Michael Lunn, Carl Dixon, Dan Huff, David Huff, Tim Pierce, Allen Holmes, Denny Fongheiser, Vinnie Colaiuta e tutti gli altri ve li risparmio. Dopo aver speso Dio solo sa quanto per registrare l’album (in studi di quattro città diverse, fra l’altro), la major di cui sopra decise però che il mutato scenario musicale  imponeva dei radicali cambiamenti e chiese a Jimmy di darsi una sostanziale ripassata al look e buttarsi nel grunge. Ma Jimmy rispose picche, così il suo contratto venne stracciato ed il disco finì chiuso in uno scaffale. Fu grazie ai buoni uffici di Stann Meissner che la tedesca MTM (label defunta ormai da diversi anni) rilevò il master di ‘The world is round’ e lo pubblicò nel 1996. Disco, ‘The world is round’, stellare in perfetta coerenza con il team che lo realizzò assieme a Jimmy, una collana di undici perle di AOR hard edged che inizia a srotolarsi nelle nostre orecchie con “All We Have Is Our Dreams”, dove Jimmi suona come un Bon Jovi vellutato o un Mitch Malloy meno impetuoso. “One Night Like This” vira nei territori del Big Sound di Giant e Starship, “Under The Influence” è invece un AOR funky dal ritmo sinuoso e irresistibile, mentre su “Test Of Time” aleggiano ombre Foreigner in un clima di atmospheric power che ha il suo picco in un refrain grandioso. “Ain't No Thing But Love”, effervescente e movimentata, coniuga il gusto pop di Van Stephenson con una marcata vena rhythm & blues nei cori, “Tonight I Got The World” torna alle atmosfere di rock mainstream alla Mitch Malloy, “Rose Tattoo” è una ballad lenta e intensa che viaggia su un basso pulsante, meraviglioso impasto di Foreigner, Bryan Adams e Chris Isaak. Sempre Foreigner inspired la melodia strepitosa di “Cool Blue”, con il suo bell’assolo di sax, mentre il robusto AOR “Fight For Your Love” si basa su un bel riff singhiozzante, con le tastiere che salgono maestose nel refrain. “After The Fire” è vivace e frizzante, con un ritmo quasi danzabile e le punteggiature di chitarra e keys, il bridge molto Giant ed i piacevoli intarsi funky. Chiude “A Little More Blue Sky”, uno strepitoso funky AOR nello stile dei Dan Reed Network.

Di Jimmy Lawrence, dopo questo disco fenomenale, non si sentì più parlare, ma ‘The world is round’ si può reperire senza doversi sottoporre a dolorosi salassi finanziari, la NEH Records, solo per fare un esempio, ce l’ha in stock a 12.99 $, e credo che anche su eBay si possa trovare intorno a questa quotazione. Ma sbrigatevi a prenderlo prima che diventi un’altra lost gem.

 

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BLACKFOOT

 

 

  • RICK MEDLOCKE AND BLACKFOOT (1987)

Etichetta:ATCO

Ristampa:Wounded Bird

Reperibilità:buona

 

Scrivendo di alcune band appartenenti alla scena del Southern Rock, ho già ricordato come questo genere, durante gli anni ’80, sia stato molto vicino alla morte per inedia. I gruppi storici si erano quasi tutti sciolti, altre bands si limitavano a suonare dal vivo oppure cambiavano genere per mettersi al passo con quanto attizzava il pubblico americano, che al rock degli stati del sud non pareva più interessato. Tra le bands storiche, i Blackfoot erano state senza dubbio una di quelle più vicine (forse la più vicina in assoluto) all’hard rock tout court, e cambiare pelle per accostarsi a quelle sonorità che facevano furore su Billboard appariva tutt’altro che un’eresia per Rick Medlocke e compagni. Nessuno poteva prevedere, però, che gli ex guerrieri pellerossa avrebbe cercato fortuna addirittura nel settore dell’AOR più commerciale, né che questi dischi dei Blackfoot si sarebbero rivelati davvero eccellenti, anche se il lavoro che Rick aveva fatto come produttore sul primo, notevolissimo album dei Warp Drive, dimostrava che il nostro era in grado di maneggiare la materia dell’hard melodico con disinvoltura e senza il minimo timore reverenziale verso i maestri del genere. La notevole caratura di questi album (‘Vertical Smile’ nel 1984 e ‘Rick Medlocke And Blackfoot’ nel 1987) non bastò comunque a proiettarli nei quartieri alti delle classifiche, al punto che nel 1990 Rick fece un paio di passi indietro e tornò con ‘Medicine Man’ a macinare Southern Rock per un pubblico che, evidentemente, non riusciva a traslare quel moniker in una dimensione diversa da quella tradizionale… E si può immaginare il raccapriccio che il tipico southern rocker avrà provato contemplando l’immagine del retro copertina di questo disco, dove Rick posa assieme alla sua band, in quel periodo formata da due neri che nella foto indossano vestiti da discotecari più adatti a membri degli Immagination o di Kool & The Gang, un bianco di taglia robusta con barba e capelli corti che porta una coppola ed una giacca bianca alla Dr. John e Rick stesso abbigliato nello stile chic rock losangeleno.

Entrambi gli album AOR dei Blackfoot sono stati ristampati dalla Wounded Bird qualche anno fa e si trovano in giro a prezzo onesto, concentro l’attenzione su ‘Rick Medlocke And Blackfoot’ perché mi pare il più interessante dei due.

Back On The Streets” apre alla grande il disco con un riffone zeppeliniano impastato a percussioni, keys e chitarre di derivazione funky dance, “Saturday Night” ci porta sulle strade di L.A., anthemica e festaiola, con uno splendido contrappunto di piano boogie contro i muri di tastiere hi-tech, un pregevole melange di elementi solo in apparenza antitetici: chitarre bluesy e basso slappato, cori spettacolari e la voce sempre un po’ sguaiata di Rick. “Closest Thing To Heaven” è una bella esercitazione sul sound Journey, qui Rick duetta nel ritornello con Liz Larin. “Silent Type” ci porta invece nell’universo dei Survivor, e con notevole autorità: gran crescendo, begli arrangiamenti vocali, notevole l’impasto fra le keys cristalline e le chitarre caldissime. “Reckless Boy” è veloce, heavy, dominata dall’amalgama tra le tastiere e chitarre tutt’altro che vellutate, mentre “Private Life” è totalmente Loverboy: scanzonata, caratterizzata dal basso slappato e dall’andamento sculettante nelle strofe. Su “Liar”, Rick e compagni suonano come una versione più sofisticata e funky degli Autograph, con un ritornello anthemico ed essenziale ed una bella successione di assoli variegati. La superba “Steady Rockin’” è fatta di riff secchi e rudi fra cui si vanno ad incuneare parti di tastiere eleganti e incisive, il suo ritmo stuzzicante deve qualcosa agli Headpins, con la stessa ricetta viene cucinata “My Wild Romance” che però è più diretta e con un certo flavour Journey nelle linee melodiche. Chiude la spettacolare “Rock ‘N Roll Tonight”, veloce, sfacciata, condotta da un chitarrone fragoroso, party rock ricamato di cori Rhythm and Blues e tastiere guizzanti con un bellissimo refrain.

Da diversi anni Rick Medlocke è entrato in pianta stabile nei Lynyrd Skynyrd, la sua incursione nel rock melodico è stata breve ma assolutamente significativa e non posso che consigliare caldamente a tutti di impossessarsi di ‘Rick Medlocke And Blackfoot’: non una pietra miliare del nostro genere, ma di certo uno dei dischi migliori di AOR hard edged degli anni ’80.

 

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SHY

 

 

  • EXCESS ALL AREAS (1987)

Etichetta:RCA Reperibilità:buona

 

Alla fine del mese di ottobre del 2011, appena un mese dopo l’uscita di quello che potrebbe essere l’ultimo album degli Shy, Steve Harris, il chitarrista e leader di questa band (e l’ultimo membro originale rimasto nella line up) moriva a soli quarantasei anni per un tumore al cervello. Lee Small ha dichiarato in un’intervista che Steve incise tutte le sue parti di chitarra prima che le sue condizioni si aggravassero, ma continuò a venire in studio per seguire la registrazione e la produzione dell’album anche quando la sua salute si era tanto compromessa da impedirgli di suonare. Chi ha sentito ‘Shy’, sa quanto questo disco suoni fresco, energico, entusiasmante, in contrasto con quella copertina quasi uniformemente nera che Lee Small nell’intervista di cui sopra ha ammesso senza reticenze fu scelta per simboleggiare il lutto della band per la scomparsa del suo leader. Perché ci si poteva girare attorno quanto si voleva, ma la realtà dei fatti era quella: Steve Harris stava morendo, riuscì appena a vedere l’uscita dell’album e poi lasciò questo mondo. Se ‘Shy’ deve essere considerato il suo testamento, non si può che ammirare quest’uomo che prima di partire per il suo ultimo viaggio ci lascia un disco magnifico, sopratutto un’opera piena di una vitalità strepitosa e travolgente.

Ma la fama di questa band riposa quasi unicamente (e forse ingiustamente) sul suo terzo lavoro ‘Excess all areas’ che nel 1987 catalizzò l’attenzione di una buona parte dei fans dell’AOR e portò gli Shy in prima fila, accanto a FM e Virginia Wolf, tra le bands inglesi che tentavano di sfidare gli americani sul loro terreno, quello dell’hard rock melodico. Come le altre due band citate, gli Shy fallirono il bersaglio, principalmente per mancanza di una promozione adeguata e neppure il tentativo di cambiare parzialmente pelle con ‘Misspent youth’, che nel 1989 li vedeva abbordare (timidamente) la scena street/glam metal, portò frutti, al punto che la RCA stracciò il loro contratto ed il successivo ‘Welcome to the Madhouse’ venne pubblicato nel 1994 solo in Giappone.

Excess all areas’ era uno di quei dischi fatti senza risparmio, registrato tra gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Olanda, supervisionato da Neil Kernon, con il contributo al songwriting di Michael Bolton, Don Dokken, Duane Hitchings e Michael Jay, un prodotto di classe superiore che aveva tutti i numeri per sbancare le classifiche e non ci riuscì perché nessun album poteva farsi strada da solo in un mercato affollatissimo e competitivo come quello USA della fine dei Big 80s.

Ad aprire le danze è “Emergency”, classico AOR bilanciato alla perfezione tra le chitarre e keys sintetiche, urgente e turbinoso, un po’ Survivor, “Can't Fight the Nights” è patinata e suadente, parte con un rapido pulsare di basso per impennarsi poi nel refrain. “Young Heart”, se non è il perfetto anthem AOR ci va molto vicino: la melodia sinuosa delle strofe, il ritornello semplice e coinvolgente, il martellare molto Toto delle tastiere… “Just Love Me” si risolve in una grande ballad vellutata ma che non rinuncia all’elettricità, caratterizzata dai begli impasti vocali, mentre “Break Down the Walls” è una divina tranche di Leppard sound, melodica e anthemica ma con un riff portante secco e (naturalmente) molto AC/DC. Il lato due del mio disco di vinile comincia con il ritmo galoppante di “Under Fire”, un class metal che vira con decisione sull’AOR nel refrain, con qualcosa dei Bon Jovi (era ‘Slippery…’, of course) sopratutto nel bridge, prosegue con la cover della “Devil Woman” resa celebre da Cliff Richards, trasformata in un formidabile impasto di Autograph e Whitesnake, e “Talk to me” che, preceduta da un intro d’organo, esplora con raffinatezza temi cari ai Journey. Di “When the Love Is Over” basta dire che è una delle più belle ballad AOR di tutti i tempi (e aggiungere magari che c’è dentro qualcosa del miglior Jeff Paris). “Telephone” conclude con una sferzata di energia molto californiana, sempre supremamente elegante.

Excess all areas’ mi pare che non sia mai stato ristampato, ma si trova senza difficoltà tra eBay e Amazon ed a prezzi tutt’altro che folli. Non voglio spingermi fino al punto di definirlo un acquisto obbligato, ma nessuno che ami l’Adult Oriented Rock può permettersi di farne a meno.

 

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BONRUD

 

 

  • SAVE TOMORROW (2012)

Etichetta:Escape Music Reperibilità:in commercio

 

Paul Bonrud si rifà vivo dopo ben otto anni cambiando cantante (Rick Forsgren ha preso il posto di David Hendricks), label (dalla Frontiers siamo passati alla Escape), ingaggiando ben tre session men per le parti di tastiere, ma sopratutto registrando questo nuovo album sotto la guida di sua maestà Keith Olsen.

Nonostante il gran dispendio di tastieristi, ‘Save tomorrow’ è un disco impostato in prevalenza sul class metal, melodico ma potente e vario. “We Collide” apre l’album con un riff geometrico e sinuoso sul fondo di keys, e riesce ad essere nello stesso tempo solenne e maschia. “Bullet in the Back” è lenta, cadenzata e minacciosa, mentre “American Dream” è decisamente californiana, metal da spiaggia che veleggia su una melodia un po’ Autograph. Se “Last Sunrise” è un’ottima track che insegue da presso i Bad Moon Rising (o gli Whitesnake di ‘1987’, fa lo stesso…), la notevole “Blinded” si rivela anthemica e notturna, magari un po’ Def Leppard, mentre la splendida “End of Days” è marezzata di sfumature zeppeliniane ed ha un refrain che vale un milione di dollari. Suggestioni a-là-Page anche sulla fascinosa e solare “Liquid Sun”, che alterna impasti di armonie acustiche e tastiere a vigorose tempeste elettriche nel segno degli Unruly Child; “You’re the One” guarda invece all’universo musicale di Bryan Adams, ma ha un refrain un po’ opaco. Le altre quattro canzoni sono hard rock melodici tutte più o meno su base Journey, a partire da “Save Tomorrow”, proseguendo con “I’d Do Anything” (qualcosa dello Stan Bush epoca Barrage?), la molto ispirata “Torn Apart”, le belle armonie vocali di “Dominoes”.

Ottima qualità audio, produzione asciutta ma (ovviamente, considerato chi era seduto dietro il banco del mixer) efficace, nessuna contaminazione moderna, solo robusto, caldo, cromato hard rock americano in puro stile Big 80s. Raccomandatissimo.

 

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STAN BUSH

 

 

  • EVERY BEAT OF MY HEART (1992)

Etichetta:L.A. Records Reperibilità:scarsa

 

Quando un artista può vantare una discografia molto ampia è sempre problematico focalizzare e circoscriverne la personalità in un solo album. Nel caso di Stan Bush, mi faccio guidare dal mio gusto personale. Dato che i dischi con i Barrage non mi hanno mai detto molto (e non chiedetemi perché), mentre la sua ultima produzione ha acquistato un carattere decisamente rock mainstream, vado sul sicuro individuando quale suo album rappresentativo ‘Every beat of my heart’, indiscusso e indiscutibile masterpiece dell’AOR.

La carriera di Stan comincia negli anni 70, con i Boulder, band che pubblicò un solo album per la Elektra prima che quattro membri del sodalizio mollassero per entrare nel gruppo del compianto Warren Zevon. Stan fece il suo esordio solista nel 1983 con un disco (prodotto da Kevin beamish, con Alan Pasqua alle tastiere) che passò praticamente inosservato, solo nell’87, con il primo album dei Barrage ottenne consensi di critica ma non di pubblico, dato che le vendite irrisorie di ‘Stan Bush & Barrage’ gli costarono il deal con la Scotti Bros. Altre delusioni arrivarono dal progetto Ambush e dal mancato arruolamento nei Foreigner (gli fu preferito Johnny Edwards). Ma a quel punto, Stan aveva trovato il suo sbocco come songwriter per una quantità impressionante di band, colonne sonore e jingle pubblicitari (restano celebri quelli scritti per la Toyota e la birra Miller), e poteva permettersi di incidere la sua musica senza necessità di riscontri faraonici: ‘Every beat of my heart’ uscì infatti per la piccola indipendente L. A. Records.

La forza di questo disco sta, ovviamente, nel songwriting (in cui Stan si fa coadiuvare da diversi colleghi prestigiosi: Jim Vallance, Jonathan Cain, Bobby Barth…), niente arrangiamenti straripanti ed una produzione abbastanza sobria, si punta al sodo con un lotto di canzoni strepitose, a partire da “Straight to the Top”, con il suo riff pulsante, fascinosamente in bilico tra John Parr e Michael Thompson. “Can’t Hide Love” è una power ballad immensa che rinnova la magia del primo album dei Bad English, mentre la melodia ariosa di “It Don’t Get Better Than This” chiama di nuovo in causa l’AOR patinato di John Parr. La grandiosa “Never Ending Love” sale in crescendo da un intreccio di chitarre acustiche ad un ritornello di stupefacente intensità, “Ain’t That Worth Something” parla invece la lingua di Bryan Adams, ruvida, melodica, elettroacustica. “Landslide” si risolve in una cavalcata elettrica dal refrain delizioso, mentre la divina “Could This Be Love” presenta un’alternanza di strofe pacate ed intimiste ed un ritornello vibrante ed energico. Se “Full Circle” è un riff secco sopra un tappeto di keys con una melodia alla John Waite, la title track ha un ritmo galoppante un po’ Survivor ed un po’ Triumph, mentre in chiusura Stan spara un’altra power ballad gigantesca, “The Search is Over”.

Every beat of my heart’ non è mai stato ristampato e gira su eBay a cifre intorno ai venticinque dollari, un esborso tutto sommato sopportabile per entrare in possesso di uno dei capolavori dell’AOR.