AORARCHIVIA

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STEVE STEVENS

 

 

  • ATOMIC PLAYBOYS (1989)

Etichetta:Warner Reperibilità:scarsa

 

Se c’è un baraccone che sembra aver chiuso definitivamente i battenti è quello che nei Big 80s ospitava i cosiddetti “guitar heros”. I funamboli della sei corde si sono rarefatti, solo alcuni reduci continuano – bene o male –  la loro carriera, le nuove leve scarseggiano, pare che prodursi in acrobazie chitarristiche non interessi davvero più nessuno.

Fenomeno più variegato di quanto possa apparire a prima vista, quello dei guitar heros, e difficilmente riducibile ad un numero ben determinato di categorie. I più noti furono i neoclassical, seguaci di Ritchie Blackmoore e Eddie Van Halen da un lato e Bach e Mozart dall’altro: Yngwee Malmsteen e Vinnie Moore (almeno al principio), ne furono i capofila, con la loro miscela di metal e musica classica che soggiogò più di un aficionado (ma non il vostro webmaster). C’erano poi quelli semplicemente veloci, i figliocci di Eddie Van Halen che riuscivano a suonare in quattro secondi quello che i chitarristi normali facevano in un minuto (John Sykes, per esempio) e gli originali, che non si accontentavano delle solite divagazioni lungo le solite scale e cercavano di rinnovare ed ampliare le possibilità espressive di quel pezzo di legno con sei corde attaccate chiamato chitarra: Randy Rhoads, Joe Satriani, Steve Vai…

Steve Stevens appartiene sicuramente alla terza categoria, quella degli originali, ma di un sottordine particolare: gli originali tiepidi. Come Paul Gilbert – tanto per fare un altro nome – Steve non pestava sull’acceleratore della creatività, rimanendo sempre in territori più o meno conosciuti e sicuri, almeno all’inizio di una carriera cominciata molto presto: il suo talento lo portò alla tenera erà di ventitrè anni, nel 1982, a collaborare con Peter Criss sull’album ‘Let me rock you’. In quello stesso anno, Steve entrò in contatto e si associò con Billy Idol – grazie ai buoni uffici di Bill Aucoin, l’ex manager dei Kiss – formando un sodalizio dallo strepitoso successo commerciale che si prolungò per parecchi album, il più fortunato dei quali resta ‘Rebel Yell’. Steve non si fece pregare per partecipare ai dischi di artisti prestigiosi e/o di grande successo (Thompson Twins, Ric Ocasek, Joni Mitchell, Robert Palmer, Steve Lukather e addirittura Michael Jackson, che lo volle accanto a sé anche in un videoclip) ma, naturalmente, la sua ambizione lo portava verso un progetto solista che vedrà la luce però solo nel 1989. Battezzata Atomic Playboys, la neonata band contava su due vecchie conoscenze di Steve (aveva lavorato assieme a loro sui dischi di Billy Idol), Thommy Price (ex Scandal) alla batteria e Phil Ashley alle tastiere, mentre il posto di cantante venne occupato da Parramore McCarty, ex Warrior e Rough Cutt (delle parti di basso si occuparono Steve ed un session man).

“Capolavoro” non è una parola troppo grossa da usare in relazione a questo disco, dove Steve e la sua band esibiscono una misura encomiabile nel calibrare gli ingredienti di una ricetta sonora tutt’altro che inedita ma cucinata con stile sopraffino. Il paragone migliore è con i dischi della coppia David Lee Roth – Steve Vai, ma con alcune differenze capitali: qui, a differenza di ‘Eat 'Em and Smile’ e ‘Skyscraper’, non troviamo scherzi, ribalderie e stranezze. Steve si esercita sulla materia dell’hard rock melodico iniettandoci dentro una creatività ed un’originalità modulate quasi con discrezione. Non vuol stupirci (come tante – anche troppe… – volte ha fatto Steve Vai), ma prenderci al laccio, e lo fa innanzitutto grazie ad un songwriting brillante a cui il suo chitarrismo rimane rigorosamente sottomesso, mai debordando verso i territori stucchevoli del virtuosismo fine a se stesso (e questo probabilmente anche grazie alla mano ferma di Beau Hill e Ted Templeman che lo guidavano dietro il banco del mixer). La track d’apertura, “Atomic Playboys”, già dice tutto: un metal californiano mutante, quasi come dei Ratt OGM contaminati da un refrain strepitoso. “Power of Suggestion” è invece un hard blues dai tocchi funky, laminato di ottoni e backing vocals femminili, un’altra prova esemplare di classe, fantasia ed eleganza. “Action” è la cover dello storico brano dei Sweet, una versione metallica e serrata ma abilmente dilatata dalle tastiere. “Desperate Heart” è una ballad misteriosa e leggiadra, tutta acustiche e keys percorsa da insinuanti sferzate elettriche, mentre “Soul on Ice” è sinuosa, saltellante, vanhaleniana, con Steve che sparge effetti speciali di chitarra a profusione. “Crackdown” ci riporta sul Sunset Boulevard, metal californiano pigro e veemente nello stesso tempo, con un altro refrain avvincente ed un finale dove un assolo in crescendo si staglia su un delicato tappeto di keys cristalline. Di nuovo hard bluesy per “Pet the Hot Kitty”: riff stile macigno, flash di ottoni, ombre zeppeliniane, linee vocali fluide che si impennano nel refrain da party anthem. “Evening Eye” comincia come un rhythm and blues raffinato e divertito su cui si affacciano ancora i fiati in un clima quasi da piano bar prima che irrompa una chitarra gigantesca, torrida e affilata. Dopo un inizio soffuso e traditore, “Woman of 1,000 Years” spara un riff alla AC/DC, di nuovo gli ottoni, il canto del bravissimo Parramore McCarty si fa rauco ed il ritmo è quello del boogie: quasi un anthem a cui le tastiere danno una grande freschezza melodica, sopratutto nel bridge. L’unico strumentale che Steve si concede è “Run Across Desert Sands”, quasi quattro minuti di splendente chitarra acustica spagnoleggiante su un tappeto di tastiere e percussioni. Chiude “Slipping Into Fiction”, un class metal ritmato ed entusiasmante.

Il disco ricevette una buona accoglienza, le vendite andavano discretamente ma, dopo l’abbandono di McCarty, l’irrequieto Steve decise di sciogliere gli Atomic Playboys, imbarcandosi in una quantità di progetti (prima un disco con Adam Bomb, poi i Jerusalem Slim di Mike Monroe e la Vince Neil Band) che lo videro sempre recitare la parte di gregario di gran lusso prima di riprendere il mano il timone della propria musica con il trio formato assieme a Tony Levine e Terry Bozzio, quel memorabile saggio di crossover che fu ‘Flamenco a Go-Go’, qualche altro disco con Billy Idol e l’ultima fatica, l’ottimo ‘Memory Crash’, pubblicato nel 2008.

 

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GLASS TIGER

 

 

  • SIMPLE MISSION (1991)

Etichetta:Capitol Reperibilità:scarsa

 

C’è un leit motive nell’AOR di fine anni ’80, primi anni ’90, e si può riassumere in questo semplice motto: alziamo il volume. Più passa tempo, più l’Adult Oriented Rock si allontana dal pop e sposa architetture rock o addirittura metal. Il ruolo delle chitarre elettriche nel sound diventa fondamentale, le tastiere recedono sullo sfondo o ammutoliscono del tutto, le armonie vocali cambiano matrice. Pensiamo soltanto ai Loverboy: tra l’esordio autointitolato e ‘Wildside’ c’è un abisso fatto non solo di una catasta di decibel: nel giro di sette anni, la band passa dal quasi-pop al quasi-metal, e tutte le altre bands nordamericane li seguono a ruota. Il pubblico voleva più watt e nessuno o quasi se la sentì di deluderlo, inclusi i Glass Tiger. Che avevano cominciato nel 1986 con l’AOR leggero leggero di ‘The Thin Red Line’, avevano proseguito con il più robusto “Diamond Sun” nel 1988, approdando con questo 'Simple Mission' nel 1991 a quello che si può ben definire AOR hard edged. Preferire questo disco agli altri due è sopratutto questione di gusti. Io, che prediligo l’AOR più elettrico, lo reputo il migliore fra i tre album dei Tiger, ma chi ama le contaminazioni accentuate con la pop music sarà ovviamente di parere contrario.

Per meglio abbordare il vascello dell’hard melodico, i Glass Tiger rinunciarono, dopo le esperienze dei due album precedenti, alla produzione di Jim Vallance – che si limitò a collaborare con loro al songwriting – affidandosi alla guida del più metallico Tom Werman, e la nuova strategia risalta immediatamente con “Blinded”, che dopo un intro d’effetto propone una track dalla grande estensione melodica tipicamente canadese (diamoci come riferimento i decani Honeymoon Suite) ma attraversata da chitarre quanto mai incisive, e sulla stessa falsariga prosegue “Animal Heart”, con una maggiore dinamica ed un intreccio elettrico ancora più fitto, mentre “The Rhythm of Your Love” spalma sul nuovo tessuto hard AOR un gran refrain rhythm and blues. “Let’s Talk” porta l’inconfondibile sigillo di Jim Vallance, ricollegandosi nitidamente alle produzioni primi anni ’80 di Bryan Adams, “My Town” è elettroacustica, nostalgica e delicata, una splendida melodia su cui il singer Alan Frew duetta con un ospite d’eccezione, Rod Stewart (che appare però svogliato, distratto e leggermente assente: sembra quasi che l’abbiano appena tirato giù dal letto…). “Where Did Our Love Go” è una squisita ballad tutta archi e pianoforte, impreziosita da begli assoli di sax su una base sempre molto elettrica, e si replica dopo poco con “Rescued (By the Arms of Love)”, su cui spiccano però le chitarre acustiche. Dopo la strana “Spanish Slumber” (un minuto e mezzo di chitarra acustica su un tappeto di keys con la voce ultrasexy di tal Maria Del Rey che sussurra in spagnolo qualcosa che suppongo abbia un alto contenuto erotico) arrivano la title track, un eccellente funky hard high tech, ritmato e melodico, e “Stand or Fall”, drammatica, tutta luci ed ombre. Il finale è all’insegna dei Loverboy, prima con “One to One”, una strepitosa esercitazione sul sound più pop della band di Mike Reno, poi con il peso massimo del disco, “One Night Alone”, col suo riffone superamplificato, il clima anthemico, un refrain che sembra rubato da 'Keep it up' o ‘Lovin’ Every Minute of It’, un bell’assolo di piano boogie, e la conclusiva “(She Said) Love Me Like a Man”, sempre ad alto voltaggio e sulla stessa lunghezza d’onda delle track più dure di ‘Wildside’.

 “My Town” fu un singolo di discreto successo in Gran Bretagna, ma nel 1991 per l’AOR le campane stavano già suonando a morto e dunque non stupisce che le vendite di ‘Simple Mission’ siano state così basse da spingere la band allo scioglimento. Si sono riformati nel 2003, suonano sempre dal vivo e nel 2006 hanno pubblicato un live che si può acquistare esclusivamente sul loro sito web.

Per chi ama il Canuck AOR, una band globalmente imperdibile; chi preferisce l’AOR più tosto, può limitarsi a recuperare il solo ‘Simple Mission’, un disco in linea con le migliori produzioni di quel triste inizio di anni ’90 che vide la fine commerciale del nostro bistrattato genere.

 

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MARC FERRARI AND FRIENDS

 

 

  • GUEST LIST (1995)

Etichetta:Seagull Reperibilità:scarsa

 

Il valore di quest’album non si può semplicemente ridurre alla musica in esso contenuta: va oltre, molto oltre questa. È la data di uscita che ci dice quanto e perché ‘Guest list’ conta (o contò) nella piccola storia del nostro genere: 1995. In quel periodo, come ho ricordato nel pezzo dedicato al disco del progetto Fredericksen / Phillips (per leggerlo, seguite il link), parve davvero che l’hard rock melodico, in tutte le sue forme, fosse prossimo all’estinzione, vicino alla fine, kaput. Come il disco di Fergie e Ricky, ‘Guest list’ arrivò, inaspettato, a darci una luce di speranza, una boccata d’ossigeno, una pacca sulle spalle. Siamo sempre qui, parevano dirci Marc Ferrari ed i suoi amici: messi in un angolo, emarginati, fuori dal giro buono; eppure, teniamo duro; solo per quei pochi che ancora vogliono ascoltarci, sopratutto per coloro che ricordano quanto erano belli i bei tempi andati. Nelle note del booklet, Marc ce lo dice in maniera esplicita (la traduzione è mia): «Quando scesi dall’aereo che mi portò a Los Angeles nel gennaio del 1984, ebbi immediatamente la sensazione di essere arrivato nella città giusta. Ero solo un pivello di 22 anni pieno di sogni e rapidamente mi ritrovai coinvolto in quel grande incendio che venne conosciuto come la “scena metal di L.A.”. Per uno come me, nato nell’upstate di New  York, fu un vero e proprio shock culturale essere catapultato in un mondo dove ogni notte del fine settimana c’erano duemila metallari capelloni sul Sunset Strip e l’hard rock ed il metal erano i generi musicali più in voga tra le stazioni radio, le riviste ed i club. Era davvero come essere un ragazzino a cui avessero regalato le chiavi della pasticceria del rock ‘n’ roll! ».

Del contenuto di quella pasticceria, Marc ed i suoi friends (diversi membri delle sue vecchie band, i Cold Sweat ed i Medicine Wheel – Keith St. John, Eric Gamans, Mark Normand, Anthony White – e una bella fetta dell’aristocrazia musicale losangelena: Robin McAuley, Steve Plunkett, Bob Kulick, Tommy Thayer, John West, Pat Torpey, Michael Mulholland, Todd Jensen, Carl Dixon…) ci offrono una parte focalizzata sulle farciture più metalliche, dieci canzoni per 42 minuti di musica ad alto voltaggio.

E il metal californiano diventa subito protagonista con l’apripista “Cardshark”, cantata da Keith St. John, diretta ma melodica nelle migliori tradizioni del genere. “Long gone” (John West al canto) deve essere stata composta ai tempi dei Cold Sweat, dato che porta anche la firma del singer di quella eccellente band, Rory Cathey, un bollente mid tempo bluesy, ma anche “Cold Hands Warm Heart” riporta alla memoria la prima, sfortunata esperienza di Marc lontano dai Keel, un eccellente metal melodico cantato da Mike Mulholland, sempre dietro il microfono per lo strepitoso metal da spiaggia “The Night Is Young”. “Money Hungry” è un perfetto esercizio di sound Ratt, pilotato dalla voce di un sempre bravo Robin McAuley, “All Hell’s Broke Loose” vede tornare dietro il microfono Keith St. John, porta la firma e la chitarra di Tommy Thayer, un party metal molto cool che ci porta (ovviamente?) in territorio Black’n’Blue. “Run for the Border” ha ancora come protagonista Tommy Thayer, al canto si esibisce un inedito e bravissimo Todd Jensen (anche al basso, naturalmente): cowboy song elettroacustica sulla scia di Tangier, Dillinger, Soul Kitchen: super. Arriva poi sua altezza Steve Plunkett con “She Don’t Wanna See Me”, tipicamente Autograph nella melodia su un solido telaio metallico, mentre Carl Dixon canta un’altra composizione della coppia Ferrari/Thayer, “Blind Faith”, un class metal notturno dal refrain sinuoso (qualcosa dei primi Great White?). In chiusura torna Keith St. John per “Rolling Thunder”, scritta da Marc con Bob Kulik (anche alla chitarra), un metal per bykers, che alterna un riff zeppeliniano a furiose accelerazioni.

Guest List’ non fu dunque mera celebrazione, questa manciata di canzoni avrebbe potuto giocarsela alla pari con la concorrenza se fosse uscita cinque o dieci anni prima e al di là di qualunque significato che possa aver avuto ai nostri occhi in quel tetro periodo che furono i mid 90s, resta un prodotto apprezzabile partorito da una scena musicale che come poche altre ha il diritto di essere definita “mitica”.

 

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PRECIOUS METAL

 

 

  • PRECIOUS METAL (1990)

Etichetta:Chameleon Music Reperibilità:buona

 

I toni acidi e/o sarcastici che spesso uso quando prendo in esame le produzioni contemporanee del nostro genere rischiano sempre di farmi prendere per un vecchio nostalgico con la puzza al naso, lo so, ma il mio non è affatto un atteggiamento e meno che mai l’espressione di una linea di principio. Mi piacerebbe immensamente trovare bands capaci di fare quello che tanti, tantissimi facevano nei Big 80s, ma purtroppo ciò accade solo molto, molto di rado. Questo, di per se, è un rospo che potrei anche inghiottire, ma quello che proprio non riesco a mandare giù è lo spettacolo della mediocrità innalzata agli altari della gloria da recensori e fans impazziti. Che ci piaccia o meno l’idea, la produzione attuale in campo AOR è fatta prevalentemente di mediocrità allo stato puro. Quando viene fuori qualcosa di interessante, in genere porta su il monicker di band resuscitate dai Big 80s o anche prima.

Chi si contenta, gode, dicevano gli antichi, nella loro (presunta) saggezza. Io posso anche contentarmi, ma il godimento che me ne viene è modesto. Ma altri, potreste dirmi, godono a perdifiato con gente come W.E.T., Eclipse, Wig Wam eccetera che tu consideri replicanti di terza o quarta scelta. Forse i miei gusti sono troppo difficili? Per niente. Mi chiedo, piuttosto, se coloro che sbavano per le band sopraccitate e tante altre che oggi vengono considerate colonne del rock melodico, hanno una visione davvero completa di quello che era il panorama dell’AOR durante il suo periodo d’oro, tra il 1981 ed il 1993. Della messe di band davvero strepitose che quasi quotidianamente invadevano i nostri impianti stereo. Delle centinaia di album fantastici che si contendevano ferocemente la nostra attenzione. Il valore di questa produzione spicca ancora più al giorno d’oggi, quando ci accorgiamo che una buona parte di quanto proposto dalle bands odierne e trattato come capolavoro non è altro che insipida riscrittura o sfacciato “copia & incolla” (quando non è continuazione di un discorso che nei Big 80s veniva addirittura considerato secondario e tutt’altro che superlativo, e mi riferisco a tutto il complesso dell’hard melodico scandinavo/teutonico, diventato ormai centrale e maggioritario). E tutta questa produzione è talmente vasta che si potrebbe passare la vita a scandagliarla, concedendo solo una minima attenzione a quanto si fa oggi, perché questa è l’attenzione che si merita.

Ma, replicherà qualcun’altro, i vecchi dischi a volte costano cari, e non è neppure facile trovarli. A parte che il settore ristampe è più che mai in fermento, perché le labels hanno ormai realizzato quanto sia lucroso ripubblicare album degli anni d’oro, non tutte le lost gems sono lost o hanno prezzi da gems. Naturalmente bisogna darsi un po’ da fare, sopratutto imparare a guardarsi attorno. Prendiamo le Precious Metal. Se facciamo un giro su eBay, ci troviamo di fronte al deserto o quasi. Perfino la compilation uscita nel 1998 ha un prezzo feroce, e questo loro ultimo disco autointitolato non si trova a pagarlo un miliardo. Ma basta spostarsi su Amazon USA per trovarlo in vendita intorno agli 8 dollari, e in notevole quantità, oppure andare su questo sito (www.rocketcityrecords.com/preciousmetal/) dove si può acquistare l’intera discografia in copie autografate per 17.50 $ a CD. Perché diavolo si sia creata una situazione del genere, non riesco ad immaginarlo, ma l’importante è che chi vuol ascoltare le Precious Metal non deve dannarsi l’anima scandagliando per mesi il mercato dell’usato né vendere la macchina per mettere assieme la moneta necessaria ad entrare in possesso dei loro dischi. E se consideriamo che questa band, così poco conosciuta ed osannata, ci ha dato con questo suo terzo album un lavoro che affossa tranquillamente quanto legioni di bands attuali ci propongono e incauti recensori lodano con gran strombazzare e impiego di aggettivi degno di miglior causa, i sentimenti del sottoscritto riguardo la scena AOR del ventunesimo secolo forse diverranno più chiari per chi mi legge.

Le Precious Metal esordirono nel 1985, con un disco su etichetta Polygram prodotto da Paul Sabu, ma gli scarsi responsi di vendite decretarono il loro licenziamento dalla major. Il secondo album, ‘That Kind of Girl’, uscì nel 1988 per la indie Chameleon, sempre prodotto da Sabu, un lavoro qualitativamente superiore rispetto a quanto fatto tre anni prima, e ancora oltre andava questo ‘Precious Metal’, ultima testimonianza che la band ci ha lasciato. Orfane di Sabu, le ragazze si rivolsero a Phil Kaffel (l’ingegnere del suono di Richie Zito) e Dave Resnik per la produzione di un disco molto elettrico fin dall’iniziale “Mr. Big Stuff”, robusto hard melodico dal refrain accattivante e scanzonato. “Trouble” conta fra i songwriters le sorelle Wilson e la loro storica collaboratrice Sue Ennis e dunque non meraviglia che suoni molto Heart su una base ritmata e metallica. “Two Hearts” è una cover di Bruce Springsteen, brillantemente metallizzata dalle ragazze per un risultato finale che – ovviamente – richiama le produzioni contemporanee dei Bon Jovi. “Thrilling Life” è un sopraffino, avvincente anthem metallico in chiaroscuro a cui segue la sensibile power ballad “Forever Tonight”, mentre “Reckless” suona come dei Tyketto più heavy. “Eazier Than You Think” si rivela un suggestivo class metal zeppeliniano, arcano e notturno, che esplode in un coro nello stesso tempo risoluto e suadente. Anche “Nasty Habits” si colloca nei territori del metal melodico, quello da arena, californiano, secco e anthemico. “Downhill Dreamer” è un hard bluesy splendente di riflessi zeppeliniani, “In The Mood” vira con più decisione verso la musica del diavolo, un mid tempo cromato, sexy e festaiolo, rifinito dall’armonica. Torniamo in California con “Howl At The Moon” (che refrain…) e per chiudere  c’è la melodia Beatlesiana innestata su un bel telaio metallico di “Chasing Rainbows”.

Che meritassero più attenzione di quanta ne hanno avuta, da quanto ho scritto dovrebbe essere evidente, alle Precious Metal toccò invece il destino comune a innumerevoli altre bands dei Big 80s: non erano solo tante, erano troppe, il mercato non poteva digerirle tutte e così una larga parte di esse rimase confusa nella moltitudine, nell’inconsapevole attesa che, vent’anni dopo, qualcuno venisse a tirarle fuori da quella massa sterminata per rendergli (finalmente) quanto gli era onestamente dovuto.

 

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TEN

 

 

  • STORMWARNING (2011)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Dopo l’opaco ‘Far beyond the world’ e l'offensivo (per l’intelligenza ed il buon gusto di chi ebbe la sventura di comprarlo) ‘Return to evermore’ (se volete saperne di più su questi dischi, seguite i link), i Ten erano praticamente spariti dalla faccia della terra, e credo che nessuno ne abbia sentito la mancanza. ‘Return…’ era riuscito in un colpo solo a distruggere tutto quanto di buono Gary Hughes aveva fatto nella sua ormai lunga carriera, azzerando la sua già scarsa credibilità come autore e facendo rimpiangere amaramente l’addio di Vinnie Burns. La disaffezione verso questa band trovò conferma nell’indifferenza che accompagnò l’uscita di ‘The Twilight Chronicles’, un disco passato praticamente inosservato, ancora più opaco di ‘Far…’, che poco aveva potuto fare per risollevare un monicker in apparenza del tutto spompato ed al tramonto. Insomma, quella dei Ten era una pratica che si poteva considerare chiusa e archiviata, una gran bella storia che il finale triste non riusciva comunque a rovinare, c’erano sempre ‘Ten’, ‘The Name of the Rose’, ‘The Robe’, ‘Babylon’ e – in misura minore – ‘Spellbound’  a ricordarci di cosa questa band era capace.

E poi, cinque anni dopo ‘The Twillight…’ e out of the blue, come dicono gli yankees, arriva l’annuncio del ritorno più o meno in pompa magna, con un altro chitarrista al posto dell’insignificante Chris Francis (Neil Fraser) ed una nuova sezione ritmica (Mark Sumner e l’ex Warlord e Fates Warning Mark Zonder alla batteria). Nel comunicato che si può leggere sul sito della Frontiers, i continui rimandi a ‘Spellbound’ non facevano presagire niente di buono, almeno al sottoscritto che ritiene quel disco l’anello debole della catena (non contando l’ignobile ‘Return to evermore’, of course) nella discografia dei Ten, con la sua deriva epicheggiante nei territori cari ai Magnum. Per fortuna, oggi non è più necessario decifrare e/o interpretare i comunicati stampa o le recensioni, basta scaricarsi i samples delle canzoni per avere conferma o meno dei propri presagi, buoni o cattivi che siano. Ed i samples erano talmente convincenti, che cinque minuti dopo aver terminato l’ascolto il webmaster si era già prenotato la sua copia di ‘Stormwarning’.

Dal punto di vista del sound, si potrebbe dire che con quest’ album Gary Hughes ha chiuso il cerchio, tornando ai tempi di ‘Ten’ tramite un AOR robusto che solo in qualche caso deriva verso il solenne o il pomposo. ‘Stormwarning’ è un disco sobrio, misurato, ma nobilitato da un songwriting che se non è quello degli anni d’oro si mantiene comunque di alto livello, esplorando nuovi territori senza snaturare il sound caratteristico di questa band. Certo, gli manca quel calore, quell’emozione che faceva letteralmente palpitare ‘Ten’, ‘The Name Of The Rose’ e ‘Babylon’. Gli arrangiamenti, in confronto a quanto la band ci serviva quindici anni fa, suonano addirittura asciutti, e Gary Hughes non forza la sua voce fragile più di tanto: forse il paragone più calzante per ‘Stormwarning’ è quello con i suoi album da solista, in particolare ‘Precious ones’.

Entriamo in questo disco tramite il breve preludio di percussioni tribali che introduce “Endless Symphony”, il tema melodico dettato da organo e piano, prima grave poi sempre più aereo e romantico, spezzato da un riff imponente e dal refrain pomposo. “Centre Of My Universe” e “Kingdom Come” sono eccellenti hard melodici nelle migliori tradizioni della band, la seconda sullo stile di certe cose di ‘The Robe’, con quella solennità che non scade mai nel pomp più indigesto. Stessa musica sulla title track, con un andamento ritmico galoppante in cui va ad incunearsi un refrain delizioso, mentre “Book Of Secrets” parte suadente e notturna facendosi elettrica e veemente, con piacevoli sfumature Little Angels, sfumature che non sono più tali su “Invisible”, dove la matrice del sound della band di Toby Jepson è evidente al punto che questa canzone non avrebbe sfigurato su ‘Jam’. “Love Song” è quasi una power ballad, malinconica e tenera, dove risaltano particolarmente i dosaggi perfetti tra chitarra e tastiere nell’arrangiamento. “The Hourglass And The Landslide” è debitrice alle melodie degli FM più pop, mentre “Destiny” torna all’antico, ma nel modo peggiore, una sorta di patchwork delle stesure più “eroiche” della band, inutile come tutte o quasi le canzoni di ‘Return to Evermore’. Chiude “The Wave”, bella ballad orchestrale decisamente Beatles, un genere di cosa che non sentivamo dai tempi della ‘Bonus Collection’. Menzione d’obbligo per la nuova ascia, Neil Fraser, abilissimo nel variare il registro del proprio chitarrismo tra una canzone e l’altra, e ispirato come Cris Francis non era mai riuscito ad essere.

Avrei qualcosa da dire sul mixaggio, che lascia il volume della batteria di Mark Zonder troppo basso, ma la qualità audio è – finalmente… – di nuovo su alti livelli, permettendoci di gustare appieno un disco che si allinea tra i migliori della band, coraggiosamente diverso da quanto ci saremmo aspettati dai Ten in più di un frangente. Che ‘Stormwarning’ sia un segnale di rinascita artistica voglio sperarlo, anche per quanto questa band ha significato per tutti noi che nei primi anni ’90 ad essa ci siamo aggrappati come ad un salvagente, sballottati dalla marea del Grunge e dell’alternative che aveva spazzato via tutta la musica amavamo. I Ten ci sono stati fedeli compagni in quegli anni bui e ritrovarli capaci di poter dire ancora la loro nel nostro genere non può che farci piacere.

 

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ROBIN BECK

 

 

  • THE GREAT ESCAPE (2011)

Etichetta:Neo BOB-Media/Cargo Reperibilità:in commercio

 

Ed è arrivato un nuovo album anche per Robin Beck. Quattro anni dopo ‘Livin’ On A Dream’ la signora Christian si ripresenta con un lavoro che è sicuramente il suo miglior disco dai tempi di ‘Human Instinct’. Suonato e prodotto da James Christian e Tommy Denander, con una qualità audio veramente buona (sorprendentemente superiore a quella dell’ultimo House Of Lords), ‘The Great Escape’ è aperto alla grande da “The One”, un bel innesto Journey/Whitesnake dal refrain vagamente teutonico, atmosfera replicata da “Inside Of Me” con un ritornello stavolta più suadente. Stratosferica “Got Me Feelin’ Sexy”: spettacolare, agile e sinuosa tra un bel riff saltellante ed il pulsare delle tastiere. Sulla tosta  “That All Depends” Robin duetta con Joe Lynn Turner: prestazioni vocali impeccabili ma la canzone è un po’ opaca, salvo sul coro che però ricorda quello di “If You Were a Woman And I Was A Man”. Altra musica su “Baby I’m Not A Bitch”, l’unica canzone a portare la firma di songwriters esterni, una bella melodia che si fa accorata nel refrain, con limpide punteggiature di pianoforte. Cambio di atmosfera con “Everything Is Alright”: californiana, piacevolmente ritmata, quasi ancheggiante. La title track è spettacolare, una grandiosa, elettrica, debordante scheggia di arena rock, mentre “Don’t Think He’s Ever Comin’ Home” si rivela per una power ballad piena di sentimento, tra gli Heart e Bon Jovi. “Cross My Heart” è la (piccola) sorpresa del disco, con il suo deciso modern edge (come dei Garbage AOR?), ma il refrain è semplicemente strepitoso. Altro masterpiece con “All The Rivers”, un coacervo di riff prima funk, poi massicci e infine rotolanti che si alternano magistralmente sciogliendosi in un ritornello lento e avvolgente. In chiusura, “Till The End Of Time” vede Robin duettare con il marito James su una power ballad romantica ma tutt’altro che convenzionale, con un bello spiegamento di tastiere sul riff molto elettrico.

Insomma, a ‘The Great Escape’ non manca niente: songwriting, arrangiamenti, produzione, resa fonica, tutto è su alti livelli. E, naturalmente, ha un plus unico: la voce di Robin. Come dire: imperdibile.