AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

TALL STORIES

 

 

  • SKYSCRAPER (2009)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Sì, lo so cosa state pensando: che il vostro webmaster è sempre leggermente indietro, e le sue recensioni “recentissime” sono in ritardo di sei mesi, se tutto va bene… Okay, ma se non altro, quando leggete un pezzo su questo sito, potete star certi che chi lo ha scritto ha ascoltato veramente l’album in esame, e gli ha anche dato il tempo di maturare e ha potuto capire se era destinato a durare: quanti dischi entusiasmano e poi, dopo magari appena cinque o sei ascolti, si sgonfiano come soufflé mal cotti? La prima volta ti sembra magnifico, la seconda carino, la terza simpatico, la quarta appena decente e la quinta è diventato una palla mostruosa. Almeno a me, è capitato in più di un’occasione (con il primo album dei Caught In The Act, per esempio), credere di aver portato a casa un capolavoro e ritrovarmi dopo poco a meditare sul suo valore come oggetto di scambio al negozio dei CD usati.

Per quanto riguarda ‘Skyscraper’, la prima impressione è stata ottima e non è mutata né punto né poco con il passare del tempo. Questo disco arrivato davvero a sorpresa da una (grande) band che credevo morta e sepolta è stato una delle novità più piacevoli dell’anno in corso. Lasciati (non si sa ancora bene perché) i Journey, Steve Augeri convoca la sua vecchia band al completo o quasi (Tom DeFaria è sempre nella line up ma le parti di batteria sono state incise da vari session men, tra cui Bobby Rondinelli) e dà assieme a loro un seguito a quell’album autointitolato che resterà immortale nell’empireo dei capolavori del nostro genere. ‘Skyscraper’ ne rappresenta un degno successore? Mi pare proprio di sì, sopratutto colpisce la coerenza con cui la band è rimasta fedele al proprio suono e l’efficacia nell’aggiornarlo ai tempi nuovi, sfrondando e irruvidendo qua e là senza perdere nulla di quella grande estensione melodica che caratterizzava ‘Tall stories’, esplorando nello stesso tempo anche qualche nuovo sentiero.

Tomorrow” apre con un riff incalzante ed avvincente, su cui si adagiano fascinose alchimie vocali ed un incrociarsi di assoli che rimandano subito e senza incertezza a quel sound stratosferico che tanto ci aveva ammaliato nel 1991, e questo anche se le tastiere (oggi affidate a Jack Morer) sono quasi del tutto sparite. “Clementine” è un funk zeppeliniano, lento e molto heavy, con un bel refrain arioso e potente e qualche tocco moderno, sopratutto nel suono della chitarra. Andamento lento per “Original sin”, retta da un riff cadenzato scandito da una chitarra sporchissima, ancora un refrain arioso, qui spunta anche una tastiera dal gusto prog: l’atmosfera è quasi solenne, “alleggerita” da un’armonica nel finale. A seguire, due ballad: “All the world” è elettroacustica e solare, con un refrain molto soul; “Pictures of summer” è suadente, un favoloso esercizio di folk zeppeliniano dove su uno sfondo acustico spiccano i ricami delle chitarre elettriche: che classe… Come regola vuole, dopo le carezze, gli schiaffi: “River rise” ha un riffing a tratti moderno, nervoso, voce in parte filtrata ma con un refrain sempre aperto alla melodia, un assolo cupo e molto anni 70. “No justice” mi ricorda i Beggars & Thieves epoca ‘Look what you create’, la grande melodia del coro sgorga da un tessuto di tipico rock yankee. “Eternal light” è fatta di percussioni, un basso pulsante, un notevole riff, moderno e tagliente, e l’ennesimo refrain strepitoso, con il plus di un assolo distorto e sporchissimo. “Stay” rimanda ancora ai Beggars & Thieves, clima drammatico e accorato su una base sempre melodica ma molto heavy. In chiusura, la band vira inaspettatamente verso il blues, prima con “You shall be free”, introdotta e chiusa da un’acustica slide, ricca di soul, poi con la grandissima “Superman” un mid tempo lento ed acido con tanto di armonica ed Hammond e un assolo dal crescendo straordinario. Ottima qualità audio e bella produzione completano il quadro di un album che rappresenta, ripeto, una delle cose migliori del 2009 in ambito hard rock.

Voglio concludere cogliendo l'occasione  di questa recensione per lanciare una sorta di appello alla Frontiers e/o a Giulio Cataldo, che cura l’artwork di quasi tutti i CD della label. Stampare dei booklet pieni di bei colori, di immagini che hanno fatto sanguinare il Photoshop per quanti effetti ci hanno applicato, va anche bene, ma quando si sceglie di includere i testi (lo facessero tutti…), la priorità dovrebbe essere quella di rendere i testi suddetti leggibili senza rischiare l’astigmatismo o la miopia. Questa esigenza non sembra invece essere la priorità di Cataldo, che in genere usa font svolazzanti e “artistici” e spesso li sovrappone agli sfondi con combinazioni di colore che o li fanno svanire o provocano allucinazioni psichedeliche agli incauti che tentano di leggerli. Almeno per gli spazi dedicati alle lyrics, un semplice nero su bianco sarebbe veramente il benvenuto…

 

AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

W.E.T.

 

 

  • W.E.T. (2009)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Parafrasando e adattando al nostro ambito quanto il Pascoli scriveva tanti anni fa, potremmo affermare che il critico musicale è un fanciullino che non solo ha brividi… ma lagrime ancora e tripudi suoi. Perché questa introduzione poetica / patetica? Perché, mi pare, certi critici/recensori, anche di quelli che operano nel nostro genere, si lasciano un po’ troppo andare al fanciullino che è in loro, e “gli fa vedere nelle cose il nuovo, non inventandolo ma scoprendolo; quel “nuovo” (…) che tutti potrebbero vedere, ma che invece solo lui, il fanciullino che è in noi, riesce a vedere” (Rosario Villari). Il critico/recensore in particolare a cui mi riferisco è Andrew McNiece, webmaster ed unico autore di un sito web che chiunque ami l’AOR conosce: melodicrock.com. Il buon Andrew, come tutti, ha i suoi gusti personali, le sue preferenze e, questa è la mia impressione dopo ormai una decina d’anni di frequentazione del suo sito, raramente riesce ad essere obiettivo con gli act che gli vanno dritto al cuore. Il fanciullino che è in lui tripudia e lagrima, imponendosi e spazzando qualsiasi tentazione critica. Uno dei personaggi che gli portano tripudio & lagrime alle stelle è Jeff Scott Soto. Qualunque cosa faccia Soto, è, per Andrew, bella, magnifica, perfetta: Soto è il non plus ultra dei cantanti, la perfezione, il top, il maximum, er più, ditela come preferite. Potrebbero dargli da recensire un jingle per la carta igienica cantato da lui e Andrew – che assegna punteggi ai dischi come se si fosse a scuola, cosa che personalmente non ho mai approvato – gli sparerebbe un 100% pieno d’entusiasmo, trovando mille buoni motivi per consigliarne a tutti l’acquisto: il sentimento che Jeff mette nel vantare la qualità del tessuto, l’immacolato tappeto sonoro imbastito dalla band che raffinatamente riflette la bianchezza della carta, l’inarrivabile tecnica del cantante quando magnifica la morbidezza del prodotto… Insomma: quando c’è Jeff Scott Soto di mezzo, Andrew McNiece smette di essere un critico e diventa un fanciullino, si esalta, va fuori di testa e scambia per capolavori epocali album che magari sono carucci e basta. Il nuovo progetto che vede coinvolto il nostro Jeff, Erik Martensson (Eclipse) e Robert Säll (Work Of Art), poi, lo ha esaltato al punto da vederci strade e panorami nuovi per l’AOR, il disco dei W.E.T., per lui (cito) “pushes the melodic rock genre forward”. Addirittura? Dopo vari ascolti, mi chiedo se non ho frainteso il senso di quel “forward”, perché questo disco non porta avanti proprio un bel niente. È bello ma convenzionale, e prende continuamente a prestito da dischi di band più o meno note di ieri (Journey, Whitesnake, House of Lords, Boulevard, Eyes, Talisman) e oggi (Soul Sirkus e Shinedown). Chitarristicamente parlando, semplicemente non esiste: tutto quello che Säll e Martensson suonano lo abbiamo già sentito altrove (sopratutto nei dischi di Journey e Whitesnake). Le linee melodiche che Jeff Scott Soto mette in campo sono sempre molto belle, ma per niente originali, certe volte ti fanno pensare agli Eyes o ai Soul Sirkus, altre ai Journey oppure ai Boulevard di ‘Into the street’… E allora, il “nuovo”, dov’è? O, meglio, cosa è “nuovo” per Andrew? Ho sentito cose nuove in ‘World play’ dei Soul Sirkus nel 2005, in ‘Good to be bad’ degli Whitesnake l’anno passato, in ‘Karma’ degli Winger e 'Skyscraper' dei Tall Stories quest’anno, ma se vogliamo allargare il discorso e considerare del rock melodico che semplicemente non appaia ricalcato dai dischi dei soliti nomi, allora anche nei Big 80s possiamo trovarne a bizzeffe (‘Inside out’ di Jay Aaron, ‘Never look back’ di Darby Mills, ‘Gimme gimme’ dei Warp Drive, ‘Modern pilgrims’ di Mark Ashton, e potrei continuare per molte righe ancora). Uscendo dagli steccati riconosciuti del nostro genere, per me “nuovo” sono i Nickelback di ‘Dark horse’ e i loro cloni melodici Shinedown di ‘The sound of madness’. In ‘W.E.T.’ c’è la solita zuppa: saporita ma nient’affatto “nuova”. E poi, Dio santo, bisogna essere completamente sordi per non accorgersi che “Just Go” è per metà uguale alla “Gimme All Your Love” degli Whitesnake o del finale squisitamente Springsteeniano di “If I Fall”. Forse il buon Andrew è talmente preso dalla produzione contemporanea che non riascolta più i vecchi dischi, salvo quelli delle sue bands preferite? Oppure considera un riciclaggio intelligente come quello operato dai W.E.T. un passo avanti per il nostro genere? Se mi pongo tutte queste domande è perché il sito di Andrew McNiece è oggi indubbiamente il più seguito e consultato da chi ama l’AOR e l’hard melodico, e se non arriva a fare testo presso la massa ormai rarefatta dei fans, poco ci manca. E chi, dopo aver letto la sua recensione, compra questo disco, se è giovane e implume crederà di avere a che fare con un masterpiece, mentre se è più vecchio o scafato, rimarrà (almeno parzialmente) deluso, credendo di trovarci chissà quali novità e ritrovandosi ad ascoltare invece del rock melodico di buona fattura ma nient’affatto grondante di spunti originali. Avrei potuto condurre questa recensione in maniera differente, ma ho creduto di dover mettere in guardia chi mi legge da aspettative esagerate su un album comunque bello, proprio perché quello che è, nel bene come nel male, il sito web numero uno dell’AOR l’ha incensato (secondo me) oltremisura. Insomma: il fanciullino di Andrew McNiece ha colpito ancora…

 

AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

HEADPINS

 

 

  • HEAD OVER HEALS (1985)

Etichetta:MCA Reperibilità:scarsa

 

Brian MacLeod aveva il dono del riff ancheggiante. Non saprei descrivere meglio il carattere delle figure ritmiche che uscivano dalla sua chitarra: dondolavano, sculettavano, possedevano quell’oscillazione provocante che in genere si associa al movimento cadenzato di un paio di bei fianchi femminili mentre la sua proprietaria li porta in giro camminando né troppo svelta né troppo rapida. Niente di strano, dunque, che il suo impegno sia stato rivolto quasi sempre a bands guidate da (belle) ragazze. Dopo aver lasciato i Chilliwaks, difatti, Brian prima si impegnò con gli Headpins, guidati dalla ex modella Darby Mills, poi con Chrissy Steele, il suo ultimo lavoro da chitarrista, songwriter e produttore prima che la morte lo cogliesse nel 1992.

'Head over heals' mi pare che sia il migliore dei tre dischi di questa band e mi spiace che sia anche quello più difficile da trovare: i primi due ed i best of sono regolarmente in vendita su eBay e sul sito dei riformati Headpins (che continuano ad esibirsi regolarmente tra il natio Canada e gli USA) mentre 'Head over heals' pare sparito dalla faccia della terra, un vero delitto considerato quanto è contenuto in un album di hard rock melodico robusto, vario, con una produzione davvero efficace ed arrangiamenti che non rinunciano ad uno squisito tocco di originalità.

Dicevamo dell’ “ancheggiare” che Brian MacLeod imprimeva alle sue canzoni: non c’è episodio tra i dieci in cui è diviso quest’album che ne sia immune, eppure nulla si ripete mai passando da una canzone all’altra, il “ritmo” suddetto è qualcosa di più sottile che una semplice figura basso/ batteria / chitarra, a cominciare da “Still the One”: diresti che è un boogie, sì, forse, quasi, si muove dondolando tra un riff secco e flash di tastiere e sopra aleggia una melodia di stampo Autograph con il plus di un assolo spettacolare e divertito. Non cambia la ricetta con “Death of Me”, che aggiunge un synth bass, ed ha un andamento più lento su cui Darby si esprime con un tono molto rauco ed aggressivo, aggiungendo un rapido intervento di una sezione fiati sul finale. “Stayin’ All Night” è più melodica, quasi una power ballad, sapientemente rilegata dalle tastiere, con un magnifico refrain ed un assolo che fa molto Neal Schon. Avventurosa “Hot Stuff”, dove un intro di keys molto d’atmosfera ci introduce in un riffing elementare ed ispido prima di un bridge anthemico segnato da percussioni hi tech ed un ritornello melodico e suadente (c’è qualcosa dei Loverboy?). “Chain Gang” è un grande mid tempo anthemico con un efficace solo di sax nel finale, “Never Come Down From the Danger Zone” inizia lenta ed un po’ bluesy ed ha un gran crescendo, un refrain fragoroso e anthemico, ancora con un certo feeling Autograph. “Don’t Matter What You Say” è invece un up tempo vigoroso, galoppante, metallico, ben lubrificato dalle tastiere: che refrain… Provate a tenere i fianchi fermi, se vi riesce… “Be With You” è un vero e proprio omaggio agli Heart, pur senza alcuna citazione: le sorelle Wilson l’avrebbero firmata con orgoglio: e che brava Darby a ricalcare le loro alchimie vocali. “(You’re Only) Afraid of the Dark” ha un intro di chitarra acustica un po’ western, un’atmosfera notturna e provocante che si scioglie nel ritornello molto melodico. L’assolo di Brian è veramente bello, tutto impostato su note lunghe e tirate. “Burnin’ At Both Ends” chiude il disco: veloce, sfacciata, rockandrollistica, anthemica e diretta.

Dopo ‘Head over heals’, gli Headpins si sciolsero, Darby pubblicò un grande disco solo (di cui parleremo, mi auguro, presto), Brian MacLeod continuò a produrre a suonare su una gran quantità di dischi di AOR, concludendo con l’unico album di Chrissy Steele, il superbo ‘Magnet to steele’ (seguite il link se volete saperne di più), una carriera che è stata troppo breve ma eccezionalmente luminosa.

 

AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

SHOUT

 

 

  • IN YOUR FACE (1989)

Etichetta:Frontline / Music For Nations

Ristampa:KMG

Reperibilità:discreta

 

Credo che tutti i frequentatori abituali del nostro genere sappiano che esiste negli Stati Uniti una piccola ma molto agguerrita frangia di bands che si definiscono “cristiane”. Sono tutte accomunate da una particolarità: i testi delle loro canzoni hanno come scopo principale quello di cantare le lodi del Signore. Vero e proprio proselitismo religioso, insomma. I più noti, e anche gli unici a raggiungere il grande successo in patria, furono gli Stryper, che si dichiaravano contrari alla droga, all’alcool ed al sesso prematrimoniale e distribuivano Bibbie al pubblico dei loro concerti. Dato che quasi tutto il Christian Rock è passato (e passa ancora oggi) attraverso etichette indipendenti di piccole dimensioni, poco di questo materiale è arrivato in Europa, dove del resto neppure gli Stryper hanno mai riscosso consensi, trattati sovente dalla stampa specializzata come fenomeni da baraccone, o ipocriti che usavano la religione solo per vendere dischi.

Al di là del valore dei singoli ensemble, ci si può chiedere quale possa essere la validità di un discorso che usa la musica principalmente come veicolo di idee. Personalmente, non lo approvo, e non mi sento molto a mio agio quando mi trovo alle prese con il materiale di bands che si esibiscono in vere e proprie messe cantate. Nel caso degli Shout, la faccenda potrebbe semplificarsi per il semplice motivo che il singer e leader di questo gruppo, Ken Tamplin (fra l’altro, cugino di Sammy Hagar), pur avendo una splendida voce (come un David Coverdale più impetuoso ed irruente), tende a impastare le parole e risulta scarsamente decifrabile. Ergo, uno può ascoltare le canzoni senza preoccuparsi necessariamente di quello che Ken sta dicendo, ma limitandosi ad ascoltare la sua voce… che è poi quello che la maggior parte della gente fa ogni volta che ascolta una canzone cantata in una lingua diversa dalla propria, mi pare, a meno che non faccia parte di quella minoranza – a cui appartiene il vostro webmaster  – che vuole sempre capire, parola per parola, quello che sente, cercando accanitamente i testi delle canzoni quando non sono inclusi nel booklet del CD o stampati sulla busta del vinile (fu una delle prime cose che feci quando cominciai a navigare in Internet: ricordo benissimo che il primo album di cui cercai le lyrics fu ‘Sonic temple’ dei Cult). Considerando poi la musica degli Shout, ci si potrebbe chiedere come era possibile farsi prendere sul serio nel ruolo di evangelizzatori lanciando il messaggio su una base di rovente, cazzutissimo metal californiano fortemente imparentato con gli Whitesnake di ‘1987’… Mistero della Fede, tanto per rimanere in tema.

In your face’ era il secondo album degli Shout, seguiva ‘It won’t be long’, pubblicato l’anno precedente, da cui non si discostava granché per le architetture sonore, tutte impostate su una dirompente fisicità fin dalla track d’apertura, “Borderline”, che dopo un intro roboante mette in campo un riff breve e veloce su cui vanno a sovrapporsi ricami di chitarra e flash di tastiere per un class metal movimentato e segnato dagli assoli del bravo Chuck King (ex Idle Cure), un guitar hero che si imponeva autorevolmente e senza eccessi sul tessuto sonoro delle canzoni. “When the Love is Gone” è più lenta ed imponente, ma arieggiata dalle tipiche melodie leggere californiane ed una complessa orchestrazione dei cori. “Give me an answer” è un riff di scuola AC/DC, clima anthemico un po’ alla Quiet Riot, un notevole metal da spiaggia; a seguire, “Faith, Hope, and Love”, più melodica, sinuosa, quasi una power ballad con un refrain party oriented, ma con un testo che si adatta bene solo ai party dell’Azione Cattolica. “Gettin’ Ready” è un bell’anthem dal riff saltellante, con un finale accelerato, scherzosamente parossistico, la title track è veloce e cattiva, vagamente Racer X,  ma con un ritornello sempre molto melodico, assoli che si incrociano ed intrecciano in maniera spettacolare. “Getting On With Life” è invece un hard blues lubrificato dall’organo Hammond, con un finale tutto chitarristico, “Waiting on You” una bella power ballad con lyrics da canto liturgico, “Moonlight Sonata” sono una ventina di secondi di chitarra malmsteeniana prima di “It’s All I Need”, up tempo sinuoso dal riff  pulsante, un altro anthem esemplare dal refrain imparentato con quelli degli Autograph e chiude “Ain’t Givin’ Up”, drammatica e un po’ Bon Jovi.

A dar retta a Wikipedia, gli Shout avrebbero venduto più di 100.000 dischi in patria tra ‘In your face’ e ‘It won’t be long’, prima di sciogliersi per lo scarso supporto della label, la Frontline, etichetta specializzata in bands cristiane (ma in Europa, ‘In your face’ venne edito dalla MFN) e le beghe legali con gli Shout di New York (la band in cui militò John Levesque prima di unirsi ai Wild Horses) che portarono ad un contenzioso sul monicker che dovette risolversi successivamente a favore di Ken Tamplin, dato che nel 1999 la band tornò a farsi viva con ‘Shout Back’, una parentesi nella carriera solista che Ken aveva avviato fin dai primi anni ’90 e continua ancora oggi. In quello stesso anno, la KMG ristampò ‘In your face’ e ‘It won’t be long’ su un unico CD (ma da questa edizione manca “Ain’t Givin’ Up”, tagliata per poter comprimere tutto su un solo disco), sicuramente più facile da reperire su eBay rispetto all’edizione originale, e in genere venduto a prezzo di saldo.

In definitiva, per la sola qualità della musica, l’ascolto è consigliato a tutti, al di là di qualunque prevenzione ideologica.