AORARCHIVIA

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VIXEN

 

 

  • REV IT UP (1990)

Etichetta:EMI Reperibilità:buona

 

Le all female bands nella storia dell’hard rock non sono state poi tante. La più celebre – e celebrata – di tutte, le Runaways, è durata poco e non è che abbia lasciato esattamente dei classici ai posteri. C’è una grossa dose di prevenzione di fronte a bands composte totalmente da rappresentanti di quello che una volta era galantemente definito il gentil sesso, l’hard rock è secondo solo al rap per machismo, e far accettare al pubblico non la solita bella figliola che si limita a prestare la propria voce a musica suonata da uomini, ma una intera band di ragazze è impresa che le labels hanno tentato solo sporadicamente e con scarso successo. Quello delle Vixen è l’unico – mi pare – caso in cui non solo una label abbia fermamente creduto alle possibilità di un gruppo tutto al femminile, ma sia anche riuscita nel proprio intento di imporlo al grande pubblico.

Storia lunga ed intricata, quella delle Vixen, costellata di molti cambi di line up. La prima testimonianza a livello discografico, comunque, arriva nel 1983, tramite un EP su etichetta Word Records, poi viene la soundtrack del film “Hairbodies”, con altre sei canzoni, finché la EMI non mette le ragazze sotto contratto nel 1987. La line up che incide e pubblica l’esordio autointitolato nel 1988 è composta dalla fondatrice Jan Kuehnemund alle chitarre, la cantante Janet Gardner, la bassista Share Pedersen e la batterista Roxy Petrucci, l’unica ad essere passata sotto le luci dei riflettori con i suoi Madam X (ricordati più che altro per aver avuto temporaneamente dietro il microfono Sebastian Bach). ‘Vixen’ era un disco interessante e confezionato impeccabilmente (la produzione se la palleggiavano David Cole, Rick Neigher, Spencer Proffer e Richard Marx!) ma diceva ben poco sulle reali capacità della band, considerato che nove canzoni su undici erano fornite in tutto o in parte da songwriters esterni, con le Vixen che infine si limitavano a suonare senza metterci del proprio neppure una nota. C’era poi l’assurdo (a mio parere) di recuperare la bellezza di tre canzoni che Jeff Paris aveva registrato appena l’anno precedente sul suo album ‘Wired up’: “Cryin’”, “One night alone” e “Charmed life”. Chi, come il sottoscritto, già possedeva (e venerava) ‘Wired up’, poteva anche chiedersi se valeva la pena di spendere soldi per sentire queste canzoni interpretate da una voce femminile… ma questa considerazione (di natura non del tutto venale) fu solo del vostro webmaster e di pochissimi altri, dato che ‘Vixen’ volò fino al numero 41 della chart di Billboard (facendo molto, molto meglio di ‘Wired up’), e “Cryin’”, pubblicata come singolo, ottenne un notevole riscontro (ma la versione di Jeff la ritengo superiore).

La EMI credeva nelle possibilità delle Vixen e gli diede la possibilità di fare una notevole serie di tours a supporto del disco: tra Stati Uniti ed Europa, le ragazze si ritrovarono a suonare con Billy Idol, Scorpions, Ozzy Osbourne, White Lion, Bon Jovy e Deep Purple. Nel 1990, quando uscì ‘Rev it up’, la promozione continuò massicciamente, consentendo alle Vixen di esibirsi addirittura ai Monsters Of Rock tedeschi e italiani di quell’anno. E bisogna riconoscere che tanto impegno non era sproporzionato al valore dell’opera, perché, anche se privo di spunti originali, ‘Rev it up’ era un disco di assoluta eccellenza, un trattato di hard rock melodico suonato benissimo, arrangiato e prodotto alla grande (da Randy Nicklaus), in cui le Vixen dimostravano infine di non essere solo delle impeccabili esecutrici ma di possedere pure doti come songwriters. I contributi esterni in questo comparto sono infatti ridotti rispetto a ‘Vixen’, l’unica canzone su cui le ragazze non mettono mano è “It wouldn't be Love”, scritta da Diane Warren, una power ballad che si divide tra Bon Jovi e Bad English, mentre la title track (aggressiva, di nuovo sulle orme di Bon Jovi e magari quelle di Jeff Paris, adorna di una breve, fascinosa coda strumentale) la firmano anche Stan Diamond e Ron Keel. Su “How much love” troviamo il sigillo di Steve Plunkett: una canzone ariosa che fa pensare a dei Laos in versione più soft. “Love is a killer” è una favolosa power ballad, nello stesso tempo drammatica e d’atmosfera, con qualche ombra zeppeliniana (ma il refrain somiglia parecchio a quello della “In heaven” dei McQueen Street). “Not a minute too soon” è ancora un refrain spettacolare per un perfetto hard melodico californiano, “Streets in paradise” e “Hard 16” pure hanno dei ritornelli delizioni, veloce e turbinosa la prima, più cadenzata la seconda, sembrano venute fuori dalla penna di Jack Ponti (stranamente, potrei aggiungere, dato che “Streets in paradise” è l’altra canzone su cui ha messo mano Steve Plunkett…). “Bad reputation” è un hard rock divertito e beffardo, con qualche ombra Aerosmith ed un finale accelerato, “Fallen Hero” si realizza nell’opposizione di un refrain veloce, vagamente Ratt, stagliato su un tessuto d’atmosfera, prima rarefatto poi elettrico e veemente. Anche su “Only a heartbeat away” risalta la freschezza del ritornello che si innalza su un ordito molto vigoroso, mentre “Wrecking ball” chiude il disco con un class metal rocchenrollistico un po’ Dokken un po’ Warrant, con un finale convulso che sfuma nel rumore bianco. ‘Rev it up’, insomma, dava punti a tanti album contemporanei più celebrati, e le Vixen, come band, dimostravano di essere perfettamente all’altezza dei colleghi del sesso forte:  Janet Gardner era un’interprete di prima classe, Share Pedersen e Roxy Petrucci formavano una sezione ritmica agile e compatta, Jan Kuehnemund sapeva farsi valere sia come chitarrista ritmica che come solista (anche se i suoi assoli sono sempre troppo brevi).

Lo scioglimento avvenuto nel 1991 non trova cause “tecniche”, venne motivato con le solite “divergenze musicali”, ma probabilmente il successo ottenuto dette alla testa alle ragazze, ciascuna cominciò a pensare per sé, a volere la torta tutta intera invece di doverla dividere in quattro, ma i vari progetti che videro impegnate le ex Vixen o non si concretizzarono o dettero frutti molto modesti (i Contraband di Share Pedersen). Il monicker venne resuscitato da Roxy Petrucci e  Janet Gardner per l’esperimento grunge di ‘Tangerine’, di nuovo seppellito e ancora resuscitato, stavolta  da Jan Kuehnemund, che nel 2006 ha inciso ‘Live & learn’, assolutamente indegno del nome che gli hanno stampato sopra.

 

P.S.

Questa recensione è dedicata a Nicola, che adesso spero la pianterà di mandarmi una mail alla settimana per sapere se mi piacciono le Vixen.

 

 

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SOUTHGANG

 

 

  • TAINTED ANGEL (1991)

Etichetta:Charisma Reperibilità:scarsa

 

Se c’è stato un “uomo ovunque” nell’hard rock degli anni 80 quello è stato Desmond Child. Bastano i nomi di tre bands con cui ha collaborato e di cui ha diretto con sagacia il songwriting per comprendere l’importanza dell’uomo e la sua influenza sulla scena dell’hard melodico: Kiss (sull’asse Paul Stanley), Bon Jovy, Aerosmith. Dalla metà dei Big 80s in poi, Desmond è stato considerato il re Mida dell’AOR dalle labels, che lo convocavano per instradare sulla via del successo band esordienti oppure ridare smalto a monickers logori o spompati. Nessuno provava imbarazzo nel rivolgersi a lui, anche band famose e influenti come i Ratt hanno beneficiato del suo tocco magico, della sua sensibilità negli arrangiamenti. È vero che qualche volta ha riciclato con troppa disinvoltura riff e melodie (quante versioni sotto falso nome di “You give love a bad name” e “Livin’ on a prayer” abbiamo ascoltato nei dischi di cui è stato, come amava sempre qualificarsi, produttore esecutivo?) ma è anche vero che se la band sapeva il fatto suo, Desmond poteva concentrarsi sul lavoro che gli riesce meglio, ossia: completare, rifinire, arrangiare. Non esiste un sound che possiamo marcare senza incertezze con il suo nome, e chi ascolta senza pregiudizi i dischi da lui diretti non può certo considerarli mere copie carbone l’uno dell’altro. Prendiamo questi Southgang: la Charisma, dopo averli presi in scuderia, li mise sotto la sua ala protettrice (ma pare che la band avesse avuto un contatto diretto con Desmond grazie ai Ratt, a cui avevano fatto da supporter), ed ecco che i maligni preconizzano per i novelli esordienti un album sofferente di bonjovite acuta… Sbagliato! I Southgang (in precedenza, Byte The Bullet) guardavano invece al party rock californiano, ed in particolare a quella band di recentissimo (all’epoca, of course) successo che erano i Warrant. E ‘Tainted angel’ è sicuramente il disco da consigliare a chi ha atteso invano una replica di quel ‘Cherry pie’ presto rinnegato dalla band di Jani Lane per un hard rock tanto selvatico quanto poco ispirato. Un disco meno pop, più duro ed elettrico eppure strepitosamente simile nelle atmosfere a quel capo d’opera che fu ‘Cherry pie’, con la produzione di Howard Benson ed il mixaggio di Mike Fraser a rilegare il tutto. “Boys nite out” apre le danze, un glam anthem tra i Motley Crue ed i primi Skid Row, mentre “Love for sale” rende omaggio alla band di Jani Lane, con begli innesti di una sezione fiati a dare un certo calore rhythm and blues ed un assolo di chitarra slide. “Georgia lights” ha un intro di armonica e chitarra acustica, e riesce ad essere heavy ed anthemica pur procedendo con un passo felpato. “Love ain’t enough” (firmata anche da Steve Plunkett) è una power ballad molto power smaltata dall’organo Hammond, ancora Warrant con qualcosa dei Guns’N Roses più southern, poi esplode “She’s danger city / Seven hills saloon”, un indiavolato boogie rock’n’roll metallico con un pianoforte martellante e una coda strumentale molto blues. La title track parla ancora la lingua dei Warrant, glam e melodica, arricchita di cori femminili quasi soul e qualche tocco southern. “Big city woman” è di nuovo un boogie metallizzato, rifinito dall’armonica, con un ritmo formidabile ed un ritornello che l’ineffabile Desmond riciclerà l’anno dopo per la “Cowboy and the ballerina” scritta per Mitch Malloy. Gli ultimi Ratt ispirano “Shoot me down” (il peso massimo del disco) e la ritmata “Russian roulette” (che non avrebbe sfigurato su ‘Detonator’), mentre “Aim for the heart”, che vede tra i songwriters anche Diane Warren, è una splendida power ballad dal refrain assieme arioso ed imponente, e chiude l’album “Groove bucket”, trenta secondi di chitarra acustica blues.

Dopo un altro disco di ottimo livello, ‘Group therapy’, pubblicato nel 1992, i Southgang si sciolgono o, meglio, si trasformano, dato che il chitarrista Butch Walker ed il bassista Jayce Fincher danno vita ai The Floyds, poi ai Marvelous 3, cogliendo con questa band un notevole successo in USA, prima che Walker avvii una carriera solista che pure gli ha regalato parecchie soddisfazioni.

E Desmond Child? Lui, alla faccia di chi gli vuole male, è sempre sulla breccia. Dopo aver fatto diventare miliardario Ricky Martin scrivendogli e producendo “La vida loca” e “The cup of life”, continua a lavorare per i pezzi grossi del mercato discografico: The Rasmus, Joss Stone, Hilary Duff, gli unici che al giorno d’oggi possono permettersi (finanziariamente parlando) il suo tocco magico, dall’agenda di Desmond l’hard rock è scomparso già da parecchi anni, per le band del nostro genere, relegate nel mercato indipendente, i suoi cachet sono diventati proibitivi, un gruppo AOR che voglia un sovrintendente per il proprio lavoro, oggi può concedersi al massimo Tommy Denander, e ogni ironia è superflua.

 

 

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MR. BIG

 

 

  • BUMP AHEAD (1993)

  • HEY MAN (1996)

 

Etichetta:Atlantic; 'Hey Man', ristampato dalla Wounded Bird Reperibilità:in commercio

 

Alla fine degli anni 80, la scena dell’hard rock vide salire alla ribalta una massa tutt’altro che trascurabile di nuovi gruppi che avevano una precisa caratteristica in comune: erano formati da personaggi molto noti e dal pedigree particolarmente lustro. Si trattava, insomma, di vere e proprie superband. Blue Murder, Shadow King, Contraband, Bad English, Badlands, Damn Yankees, The Storm… a scorrere  i nomi dei componenti di questi ensemble c’era da farsi girare la testa. Anche i Mr. Big vennero iscritti in questo specifico registro, sebbene i quarti di nobiltà che potevano vantare non fossero poi esorbitanti. Salvo per il fondatore Billy Sheehan, che era stato il bassista degli UFO e della band di David Lee Roth, gli altri membri non è che avessero trascorsi a cinque stelle. Il cantante Eric Martin, pur avendo già pubblicato tre ottimi dischi solisti, era praticamente uno sconosciuto mentre il chitarrista Paul Gilbert veniva dai Racer X, band indubbiamente seminale ma che a livello di popolarità non aveva mai ottenuto riscontri fenomenali. E il drummer Pat Torpey, chi accidenti era? Solo un session man (ma aveva lavorato, fra gli altri, con Ted Nugent e Robert Plant). I Mr. Big sarebbero stati una superband un po’ più super se Billy Sheehan fosse riuscito a trovare un accordo con Steve Stevens, contattato prima di Gilbert (che pare gli venne raccomandato dal produttore Ted Templeman), ma tra i due non si stabilì un gran feeling, e la cosa abortì anzitempo. Sotto l’ala del management dei Journey, la nuova band si chiuse in studio (i Berkley Studio, naturalmente) con (provate ad indovinare, su, non è tanto difficile…) Kevin Elson (visto?) dietro il banco del mixer. L’assistenza di un produttore legato a doppio filo ai numi dell’AOR non condizionava però minimamente il sound della neonata band, che, nonostante impiegasse due mesi a registrare il debutto autointitolato, sceglieva di presentarsi al pubblico con un lavoro dal sound decisamente raw e scarso di sovrincisioni, in perfetto stile da power trio (Eric Martin, in fondo, si limitava a cantare). ‘Mr. Big’ si rivelava infine un lavoro poco accessibile, non tanto per il suo suono scarno e live oriented, quanto perché lo scarso amalgama tra i componenti del gruppo generava canzoni che non erano mai veramente tali, ma piuttosto occasioni per divagazioni strumentali indiavolate e talvolta un po’ schizofreniche. Il tutto suonava come una specie di prova generale, fatta secondo lo spirito dei tempi: se negli anni settanta le bands cercavano il giusto feeling ed una buona coesione suonando standard e cover (pensate per esempio ai primi dischi di Cream, Led Zeppelin e Deep Purple), nei Big 80s si preferiva presentarsi al pubblico con una sorta di biglietto da visita che certificasse le proprie capacità in termini di abilità strumentale o di puro generatore di potenza. E non si può negare che ‘Mr. Big’ desse ampia prova (ma ce n’era poi veramente necessità?) della perizia che il quartetto possedeva, anche se questo sfoggio di classe si impantanava sui terreni sterili del virtuosismo fine a se stesso. ‘Lean into it’ fu un consistente passo avanti, ma, per me, solo una tappa verso cose ancora più interessanti. L’esplosione a livello di popolarità venne grazie alla ballad "To be with you", che rimorchiò l’album nei quartieri alti di Billboard (numero 15 negli USA), consentendo se non altro alla band di lavorare con una certa tranquillità anche nel periodo d’oro del grunge, nonostante sia ‘Bump ahead’ che ‘Hey man’ non replicassero neppure alla lontana le vendite di ‘Lean into it’. Eppure, i dischi più belli e interessanti dei Mr. Big secondo me sono proprio questi, e mi pare giusto approfondire il discorso riguardo questi due album piuttosto che dedicare spazio a ‘Lean…’, album straconosciuto e già assurto al rango di classico.

Bump ahead’, dunque, “migliore” di ‘Lean into it’? Diciamo piuttosto che la band ampliava – e non di poco – il proprio range espressivo, abbandonando quasi del tutto i toni più aspri. Nelle swinganti e scanzonate  “Colorado bulldog” e “Temperamental” i Mr. Big travasano dosi massiccie di Van Halen d’annata, “The whole world’s gonna know” è semplicemente un hard rock melodico e metallico dalla bella melodia, “What’s it gonna be” si regge su uno strano riff funkeggiante, nello stesso tempo lento e nevrotico, con un ritornello di chiara marca Extreme, “Price you gotta pay” è il momento più infuocato, meno blues di quanto la band vorrebbe farci credere nelle note che corredano ogni canzone, con quel suo riff claustrofobico e mutante e gli interventi di armonica. La cover di “Mr. Big” non sfigura di fronte all’originale dei Free, del resto è condotta in maniera quasi filologica, anche se su un registro (ovviamente) molto heavy. “Mr. Gone” è fatta di armonie vocali di ampio respiro, un riff zeppeliniano, ombre di keys, un coro soul: d’atmosfera ma niente affatto eterea. Ancora una cover con la “Wild world” di Cat Stevens, clima anni ’60 e suggestioni folk, e poi le ballad, “Ain’t seen love like that” interamente acustica, con impasti vocali di nuovo reminiscenti degli Extreme, ad inseguire le charts sperando di replicare il successone di “To be with you”, i delicati chiaroscuri di “Promise her the moon” e il clima fin troppo pomp di “Nothing but love”, con le sue sezioni d’archi.

Dicevamo che ‘Bump ahead’ non fece il botto come ‘Lean into it’, ma sopratutto dal vivo la band non perdeva colpi, erano rimasti fra i pochissimi esponenti dell’ hard rock ad avere ancora un contratto major durante gli anni della dittatura grunge, e nonostante le pressioni che i discografici sicuramente gli fecero perché cambiassero direzione al proprio sound, i Mr. Big continuarono imperterriti a suonare quello che gli piaceva, anche se le vendite calavano (‘Bump ahead’ raggiunse appena il numero 82 su Billboard). Un provvidenziale aiuto venne dal Giappone, dove la band mantenne posizioni di assoluta preminenza nelle classifiche, sia con ‘Bump…’ che con il successivo ‘Hey man’, rimasto fuori dai top 100 di Billboard ma numero 1 e due volte di platino nella terra dei kamikaze, e di sicuro l’incondizionato sostegno nipponico giocò un ruolo determinante per la sopravvivenza della band e sopratutto per quella del suo contratto major con l’Atlantic.

Hey man’ conserva ben poche tracce del furore metallico degli inizi, è un disco di hard rock sofisticato nel senso migliore che si può dare a questo termine, anche le sfuriate soliste sono ridotte al minimo, il tessuto sonoro imbastito dalla band risulta di una raffinatezza strepitosa fin dall’iniziale “Trapped in toyland” che ha un intro ed un outro di pianoforte, note delicate e sognanti che preludono e sfumano un riff pesantissimo il quale a sua volta scivola in un altro geometrico e altalenante nel coro dalle cadenze ipnotiche, con l’intarsio di un assolo Hendrixiano. AOR d’atmosfera con “Take cover” (chitarra pulsante, vocals rarefatte, ombre U2, che classe…) e “The chain” (cadenzata e semiacustica). “Jane Doe” è un funk tremendamente cool, tagliente e sinuoso, “Goin’ where the wind blows” la “solita” ballad acustica, con appena un fantasma di keys, a cercare ancora (ma vanamente) i consensi riscossi con “To be with you”. “Where do I fit in” giostra attorno ad un riff heavy ed agile nello stesso tempo, mentre quello di “Out of the underground” è vorticoso e scoppiettante, con qualche rifrazione blues per una canzone che gira e si avvolge su se stessa turbinando come una tromba d’aria. “If that’s what it takes” è una power ballad smaltata di Hammond, ancora con qualche tocco bluesy, “Dancin’ right into the flame” una ballad elettroacustica semplicemente stellare, “Mama D.” un southern rock mutante con un riff che sfrigola e sfavilla, l’hammond e le chitarre acustiche: addirittura stupefacente. Più convenzionale “Fool us today”, come un incrocio di Van Halen ed Extreme e chiude “Little mistake”, dal flavour decisamente settantiano, con un bridge arabeggiante ed ombre folk e zeppeliniane. Che questo magnifico disco – per me, il migliore in assoluto inciso dalla band – sia finito dopo pochi anni fuori catalogo negli USA ed in Europa è un crimine, a cui è stata fatta finalmente giustizia nel 2006 dalla Wounded Bird, che lo ha molto opportunamente ristampato.

Dopo ‘Hey man’ Paul Gilbert lascia la band non troppo amichevolmente e viene sostituito da Richie Kotzen per i due ultimi dischi in studio, ‘Get over it’ (2000) e ‘Actual size’ (2001). Il tour d’addio venne fatto – ovviamente –in Giappone e documentato dall’ultimo live pubblicato dalla band (il settimo, addirittura uno in più dei dischi di studio) ‘In Japan’, nel 2002, mentre quest’anno i Mr. Big si sono riuniti in formazione originale per un paio di show che dovrebbero preludere ad un vero tour e – chissà – magari anche ad un nuovo album.

 

P.S.

Questa recensione è dedicata a Paolo, per l’indispensabile assistenza fornita.

 

 

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REFUGEE

 

 

  • BURNING FROM THE INSIDE OUT (1987)

Etichetta:CBS

Ristampa:NL Distribution

Reperibilità:buona

 

Tempo fa, commentavo (acidamente) la discutibile scelta di una label che aveva deciso di ristampare il primo album dei canadesi Refugee, lavoro gradevole ma tutt’altro che indispensabile, anziché il secondo, ‘Burning from the inside out’, che da parecchio tempo ed a furor di popolo è classificato ai primi posti nella chart delle lost gems. Bene: infine, la ristampa è arrivata, ed oggi chi è interessato, non deve più svenarsi per entrare in possesso di un disco di notevole valore artistico ed importanza storica. I Refugee, difatti, documentano quasi alla perfezione il passaggio dall’AOR della prima metà degli anni 80, fatto di ritmi sintetici di tastiere ed un cantato molto pop, a quello molto più rockeggiante in voga dal 1986 in poi. E un po’ di storia, a questo punto, è d’obbligo.

La band firma per la Chrysalis nel 1985, il nome in origine è Michael Fury, ma la label teme confusioni con un altro gruppo del suo rooster, gli Stone Fury di Lenny Wolf e Bruce Gowdy, così i Michael Fury diventano i Refugee. Con il vecchio monicker era già stato inciso un disco presso un’altra label che la Chrysalis acquistò, rimixò e pubblicò con il titolo di ‘Affairs in Babylon’, ovviamente con il nuovo monicker. Il leader dei Refugee era il cantante e chitarrista Myles Hunter, gli altri componenti della band rispondevano ai nomi di Howard Helm (tastiere, ex Zon, zuccherosa pomp band attiva fra la fine degli anni 70 ed i primi 80), Rob Kennedy (chitarre), Martyn Jones (basso) e Brian Doerner (batteria). La promozione di ‘Affairs in Babylon’ annoverò anche un episodio tragicomico che vale la pena di raccontare nei dettagli, perché ebbe un riflesso nel songwriting del disco recentemente ristampato. Nel 1986, una delegazione ufficiale dello Zimbabwe – nato sei anni prima sulle ceneri della Rhodesia, stato campione dell’apartheid – si trovava in Gran Bretagna  e qualcuno del gruppo vide casualmente il videoclip che la band aveva girato per il singolo “Exiles in the dark”, rimanendone tanto colpito da invitare ufficialmente i Refugee in Africa per una serie di concerti. Lo Zimbabwe stava cercando di avviare con l’occidente una serie di scambi culturali, e portare una rock band nel paese dovette sembrare una buona idea: almeno, questo fu il pensiero di una parte delle forze politiche che lo governavano a quell’epoca. Venne messo in cantiere un vero e proprio tour di sei concerti da svolgersi lungo l’arco di una decina di giorni, ma le cose si misero subito male, perché non tutti, nel regime di quel Robert Mugabe già leader ad un passo dalla dittatura, gradivano la presenza di quei visi pallidi in un contesto che stava già scivolando verso un nuovo razzismo, quello della maggioranza nera contro la minoranza bianca. La politica ed i giochi di potere cospirarono contro questo timido tentativo di comunicazione tra culture diverse, e si fece di tutto per mandare a monte il tour (anche per poter accusare il governo in carica di inettitudine). Dei sei concerti previsti, alla fine se ne tennero soltanto due (uno in una discoteca frequentata solo da bianchi vicino ad Harare, l’altro venne improvvisato nel parcheggio di un hotel…), dopo che la band al completo era stata bloccata e tenuta praticamente in ostaggio ad Harare per oltre un mese, sorvegliata a vista (qui incisero anche un rarissimo 45 giri, “Sunrise in Zimbabwe”, i cui proventi dovevano andare in beneficenza ad una fondazione che si occupava della preservazione del rinoceronte bianco). Quando finalmente riuscirono a raggiungere l’aeroporto, ci volle l’intervento personale dell’ambasciatore canadese con lusinghe e mazzette ai solerti uomini della sicurezza per lasciarli partire. Questa vera e propria fuga fu una tale corsa contro il tempo che non si riuscì a trovare cinque posti liberi sullo stesso aereo, e ciascuno dei Refugee fu costretto ad imbarcarsi su un volo diverso che li sparpagliò ai quattro angoli della terra assieme al loro equipaggiamento…

I rapporti con la Chrysalis si deteriorarono quando la label chiese alla band di spostarsi verso sonorità più mainstream rock,  così arrivò il deal con la Polydor, e la registrazione di 'Burning from the inside out' nel 1987, prodotto da Pat Glasser e registrato a Los Angeles (‘Affairs…’ l’aveva prodotto Myles Hunter), una frenetica attività live (fecero da supporter, fra gli altri, a Jeff Paris nel suo ultimo tour) che però non riuscì a far lievitare le vendite del disco o a renderli più popolari. Quando, nel 1988, Howard Helm accettò l’offerta di Mick Ronson e Ian Hunter per andare in tour con loro, per i Refugee suonarono le campane a morto. Nel 1990, Myles Hunter pubblicò un lavoro solista, con una backing band che comprendeva anche Jones, Kennedy e Doerner, abbastanza in linea con quanto registrato in precedenza a nome Refugee, prima di ritirarsi dal music business e tornare all’università ed agli studi biblici da cui la musica era riuscito a distoglierlo per qualche tempo.

Burning from the inside out’, dicevamo, è diventato una delle lost gems più contese su eBay, le aste sforano regolarmente i cinquanta dollari e pare che almeno in un caso si sia arrivati a superare i duecento. Tanta attenzione al prodotto non è immeritata, e la parola “capolavoro” non è troppo grossa per qualificare un disco che segnava una progressione stupefacente rispetto al pur buono ‘Affairs in Babylon’. Non mancano qui riferimenti a bands già affermate, come l’iniziale “Survival in the western world”, abile impasto di Starship, Toto e Journey che dopo un intro soft si sviluppa lungo un riff galoppante, grande melodia affrescata dalle tastiere su un robusto sottofondo di chitarre in piacevole contrasto con la voce roca di Myles Hunter. E che classe su “Love survives”, un perfetto connubio Foreigner/Survivor con le keys e le chitarre a duellare nel refrain spettacolare. “American dream” è praticamente una versione AOR del più classico Bruce Springsteen, “Lay me down” una big ballad, pomposa senza eccessi. “The beauty of pain” alterna momenti rarefatti ad altri più densi ed elettrici (ombre Foreigner?), la title track è un refrain quasi pop, un cantato aggressivo su una base melodica inconfondibilmente canuck, un assolo di tastiere molto Journey: estremi che si incontrano e si fondono come per magia. “Power” è una scheggia di suprema eleganza: il fraseggio funky della chitarra, la sinuosità di basso e keys, il refrain un po’ Triumph con la sua enfasi “eroica”… “Keep the lion in the cage” è la canzone ispirata dalla brutta avventura africana: percussioni etniche, tastiere che al principio fanno un disegno quasi calypso, un canto ritmato, un refrain molto Toto: originale. “Violence” rappresenta il momento più avventuroso, un brano teso e d’atmosfera: il riff serrato, i flash di tastiere, un solo fascinoso di chitarra a cui segue un disegno inquietante di keys, un crescendo implacabile eppure sinuoso concluso con due secchi colpi di cassa.

Considerato che questa ristampa è stata edita a novembre del 2008 ed è in edizione limitata, mi sento di consigliare a chi sta meditando l’acquisto di non indugiare troppo. Forse non vedremo le quotazioni di questo disco risalire fino ai livelli stellari di qualche tempo fa, ma quando i rivenditori avranno esaurito le loro scorte, la vita diventerà di nuovo dura per chi vorrà assicurarsi uno dei più bei dischi di AOR mai incisi.