Bad English

Backlash

 

 

Non sarò breve. Non posso. E anche se potessi, non lo vorrei.

Se c’è una band, UNA SOLA band che incarna nel modo più fulgido e completo tutto ciò che l’AOR ha rappresentato - e rappresenta ancora oggi, sia pure per uno sparuto manipolo di aficionados - questa band sono i Bad English.

Non sono stati dei precursori e neppure i fondatori del genere, ma i suoi interpreti più sublimi. Se vogliamo paragonare il predominio dell’AOR nelle classifiche americane ad un lungo party, loro sono arrivati certo al culmine della festa, quando i fuochi artificiali stanno per esplodere e gli ospiti cominciano a scoprirsi estenuati dal troppo divertimento. Ma il parallelo mi suona inopportuno ed irriverente. Il grande problema di questo genere musicale è sempre stato solo e soltanto uno: riuscire a farsi prendere sul serio. In un mondo dove la musica “intelligente” per antonomasia era quella dei Television, dei Talking Heads o dei Sonic Youth - tanto per fare tre nomi - dove tutto ciò che si vendeva a milioni di copie veniva guardato subito con sospetto e bollato con il marchio d’infamia di “musica commerciale”, dove la stessa capacità tecnica era oggetto di critiche astruse, figlie della più volgare e grossolana mitologia punk, l’AOR si prestava magnificamente al gioco al massacro dell’intellighenzia critica che sulle due sponde dell’Atlantico pontificava dalle riviste di tendenza. Genere plastificato, calcolato a tavolino, vuoto di idee e contenuti, solo un gran velo iridescente che copre il nulla... quante volte abbiamo dovuto sopportare questo genere di critiche? E quanti hanno saputo rispondervi? Di difese d’ufficio dell’AOR ne ho lette poche, e mai realmente convinte, e comunque - a mio sommesso parere - sempre impostate nella maniera più sbagliata, esaltando proprio quelle caratteristiche che rendevano apparentemente il genere tanto odioso a chi sbavava sugli album di Nirvana e compagnia brutta. Non basta dire: a me le cose piacciono fatte così e così, amo la melodia unita alla potenza, le grandi voci, un clima “leggero”. Anche perché, dannazione, nell’AOR, nel grande AOR c’era ben altro.

 

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Nel 1988, uscì negli Stati Uniti un film-documentario intitolato The decline of western civilization part II: the metal years. Il titolo già dice tutto sul contenuto. Gli anni ’80, gli esecrabili, volgari, superficiali, menefreghisti, rapaci, decadenti anni ’80 descritti attraverso la loro colonna sonora: il metal. Non credo che un singolo decennio del nostro secolo sia mai stato tanto aborrito, disprezzato, addirittura odiato. Eppure erano anni dorati, splendenti. Anni di prosperità economica, di relativa stabilità. A paragone dei ’90, con tutto il loro carico di recessioni, guerre, terrorismo, inquinamento e caos generalizzato, quell’epoca appare una specie ultimo Eden: forse, un giorno, anche agli anni ’80 verrà attribuito l’aggettivo ruggenti. Forse. A quel decennio non è toccato di venire circonfuso di un alone romantico, e chi lo ha vissuto da protagonista non sembra ancora trovarsi nella posizione di poter dettare legge, di fare la voce grossa: viviamo ancora l’onda lunga dei ’60, fra orde di vecchi ragazzi dai capelli grigi che rimpiangono tutti i miti languidi di quell’epoca, mentre degli anni ’70 sembra si sia più interessati a recuperare i vestiti - orrendi - che i valori. Dieci o vent’anni ancora, e, chissà, gli anni ’80 diventeranno il decennio da recuperare, la materia grezza su cui modellare il nuovo trend. Con quali risultati, non oso immaginarlo.

 

Anno del Signore 1982. Una band di nome Journey decide di far cambiare rotta alla propria musica, di aggiornarne temi e stilemi per allinearsi al nuovo sound che Foreigner e Boston stanno portando al successo in USA. Il risultato, dirompente ed epocale, si chiama ‘Escape’. Un disco talmente nuovo che per descriverlo si deve inventare di punto in bianco una nuova etichetta: Adult Oriented Rock.  Musica tosta, ma non troppo, e con un target che - per l’immagine della band e i testi delle canzoni - non è quello classico degli adolescenti.

Anno del Signore 1983. Una band di nome Quiet Riot, dal passato ben poco luminoso, pubblica un disco intitolato ‘Metal healt’.  E’ heavy metal, ma non proprio quel genere di heavy metal per cui gli inglesi hanno perso la testa un paio di anni prima. Qui non ci sono atmosfere plumbee, cavalcate chitarristiche a testa bassa, testi orripilanti ed un clima da film horror di serie B. C’è solo tanta voglia di divertirsi e fare casino, e non a caso il singolo prescelto per lanciare l’album è la cover di un classico degli Slade, “Cum on feel the noise “.

Da qui comincia tutto, e tutto quello che è venuto dopo è storia. E la domanda da porsi è: perché è successo? Perché dopo la discomusic, il punk e la new wave, gli USA hanno scelto l’hard rock, quel genere di hard rock?

Gli anni ’70 erano stati anni cupi, in tutti i sensi. Tra il Viet Nam e la crisi economica c’era ben poco da stare allegri. I giovani vagavano senza meta tra le rovine dei grandi miti che avevano caratterizzato il decennio precedente, incapaci di travalicarli e di crearsene di nuovi.  Anche il look pareva riflettere questo stato di cose: sciatto, trasandato, incolore. Anni grigi. Di quella messa in scena, il punk era stato la comica finale: uno scoppio di rabbia cieca, di furia ottusa, la rivolta contro non si sa chi e non si sa cosa, inevitabilmente destinato a concludersi in un nulla di echi e macerie. La rivolta vera, autentica, c’era già, ed aveva molti volti contrastanti e molti nomi: Kiss, Deep Purple, Aerosmith, Alice Cooper, Stooges, Black Sabbath, Queen, Bad Company e - sopratutto - Led Zeppelin. Quante volte avete letto questi nomi nelle tante storie della musica rock scritte da critici più o meno illustri e “illuminati”, sopratutto nostrani? Quel periodo storico viene cancellato, rimosso come un brutto ricordo: i ’70, gli anni della disco e del rock progressivo, e basta. Oppure tutto viene risolto in poche righe sprezzanti, dove un intero movimento musicale viene ridotto alle maschere dei Kiss, ai movimenti pelvici di Robert Plant o a Ozzy che squartava a morsi i pipistrelli. Non credo sia tanto una questione di malafede, o di pura e semplice ignoranza, quanto la precisa volontà di tagliare fuori dal quadro quegli elementi che non fanno comodo a questi signori per avallare le loro teorie. Come può reggere la tesi che il punk rappresentava la rivolta dei giovani contro i dinosauri del rock, quando in giro c’erano bands come i Led Zeppelin? Che il rock s’era imbalsamato quando l’America era percorsa in lungo e in largo da realtà come i Grand Funk o i Bad Company? Eppure, gente come Scaruffi o Castaldo da vent’anni ci propinano queste idiozie, e nessuno si è mai sognato di confutarle o almeno di metterle in dubbio. Il punk era la rivolta? No. La rivolta, l’ho scritto, c’era già. Una rivolta molto più profonda e viscerale di qualsiasi nenia punk, di cazzate come “God save the Queen, and her fascist regime”. Una rivolta che non si basava sulle parole, sulle chiacchiere, sugli scalpi alla moicana e le spille da balia usate come orecchini, ma solo e unicamente sulla musica, sul coinvolgimento fisico ed emotivo che la musica poteva scatenare. Forse nulla descrive meglio questo clima dei concerti dei Led Zeppelin, antitesi dei grandi raduni collettivi del decennio precedente, impregnati di amore, erba ed illusioni utopistiche e mitizzati fino all’indecenza: c’era solo la qualità essenziale della musica a stregare il pubblico, a tenerlo inchiodato per due o tre ore di fila. Era un’esperienza nient’affatto intellettuale, ma squisitamente fisica, nel senso più ampio della parola: qualcosa che poteva squassarti il corpo e l’anima nello stesso tempo, puro nutrimento per lo spirito. Perché la musica deve andare dritta al cuore, allo stomaco, a qualsiasi parte del corpo, basta che non sia il cervello. Non si ascolta musica come si legge un libro: ragionando, riflettendo. Tutto dev’essere abbandono, complicità, una danza dei sensi. William Burroughs scrisse: “Bisogna ricordare che all’origine di tutte le arti ci sono la magia e l’invocazione; e che la magia è sempre utilizzata al fine di ottenere qualche risultato magico. Nei concerti dei Led Zeppelin, il risultato desiderato sembrerebbe essere la creazione di una forma di energia per i musicisti ed il pubblico.” La musica intellettuale, la musica dove la magia è sostituita dal freddo ragionamento, è una truffa priva di significato, una scappatoia per i frigidi che non sanno e non vogliono abbandonarsi, cedere, arrendersi... ed un delizioso gingillo per quella critica autodefinitasi "colta" che non manca mai di esibirsi in ardite acrobazie verbali ogni volta che pontifica ispirata sulla musica che più gli sta a cuore o sputa veleno su quella che non gradisce, ed a scadenze regolari decreta prima la morte del rock e poi ne elegge un redentore, generalmente per crocifiggerlo senza pietà e seppellirlo senza speranza di resurrezione quando all'orizzonte si affaccia un nuovo canditato al ruolo di messia (gli ultimi investiti di questa missione di salvezza mi pare di capire che siano i Radiohead, ed io non posso fare a meno di chiedermi: chi ci salverà da questi salvatori?).

L’hard rock, in tutte le sue forme, è forse il medium più adeguato a tessere questo incantesimo, grazie ai suoi volumi ed alla sua aggressività. E non per nulla divenne la scappatoia preferita dei giovani americani negli anni ’70. Niente promesse vane, niente miti, nessun uso strumentale della musica per propagandare messaggi più o meno politici. Solo magia. Quella magia che il punk più becero pretendeva di sostituire con una rozzezza programmata, con una grossolanità fiera di se stessa e un affastellamento di suggestioni extramusicali che ancora oggi tengono (in parte) banco. Che tutto ciò non avesse il minimo senso lo capì il pubblico prima degli stessi musicisti coinvolti in quella sciagurata stagione, abbandonandoli presto al loro destino e ricominciando ad interessarsene solo quando mutarono - parzialmente - rotta.

Intanto, gli anni ’70 si erano (finalmente) conclusi. E un nuovo decennio cominciava, tra speranze e nuovi miti.

 

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The Big Eighties. Così li chiamano a MTV, fra ironia e malcelato rimpianto. Tradurre quel Big è meno facile di quel che sembra. Non semplicemente “grandi”: forse è più adatto “imponenti”, “grandiosi”. Gli anni del lusso ostentato e della voglia di successo a tutti i costi, dei Soldi, con la maiuscola. In USA, indiscutibilmente, gli anni di Reagan. Nella successione di pupazzi che hanno occupato il centro del palcoscenico nel teatrino della Casa Bianca, Ronnie è stato quello più odiato e più rimpianto. Odiato e rimpianto per la medesima cosa: le sue bugie, le sue gloriose menzogne. Ha sfasciato il bilancio pubblico riducendo le tasse ai ricchi, ha speso cifre scandalose per gli armamenti, s’è schierato senza mezzi termini con il capitale al punto di licenziare migliaia di controllori di volo che scioperavano per i salari troppo bassi, ha finanziato guerre sporche... la lista dei suoi misfatti è praticamente senza fine. Eppure, gli americani l’avrebbero rieletto senza esitazioni se la legge non gli avesse precluso un terzo mandato presidenziale, e la voglia di perpetuare la magia dei suoi anni si spinse fino al punto da indurli a sostituirlo con il suo opaco vice, e padre dell’attuale pupazzo in carica. Perché tanto entusiasmo per un personaggio simile? Perché, come mai era accaduto dal dopoguerra, Reagan sapeva far sognare gli americani. Toccava con le sue visioni le loro corde più sensibili e profonde, e quelle visioni non erano frutto di un mero calcolo propagandistico, Reagan credeva alle sue stesse bugie: il più convinto e ardente interprete di quella grande truffa chiamata Sogno Americano è stato senza dubbio lui. Ottimismo ed entusiasmo: ciò di cui gli yankees avevano più che mai necessità, dopo i grigiori degli anni ’70. Una nuova voglia di luce e splendore sorse nella società americana. Di lasciarsi alle spalle ogni cosa e godersela: egoisticamente, narcisisticamente. Ognuno per sé e Dio per tutti. La vita è una corsa, e se resti indietro sono cavoli tuoi. Questo è il succo della filosofia americana, in ogni tempo ed in ogni epoca. Reagan riusciva a ripulirla dei suoi macabri sottintesi ed a presentarla come il non-plus-ultra del vivere civile. E tutti volevano, avevano uno smisurato desiderio di credergli.

E’ di questo clima godereccio e festaiolo che l’AOR si fa interprete. Di questa nuova, sfrenata gioia di vivere, di un pensare positivo che fa di tante canzoni inni alla fiducia in se stessi. Perfino le bands di heavy metal rinunciano al look tutto pelle e borchie ed all’aria truce per darsi un’ immagine più leggera, colorata, sofisticata, creando poi un suono adatto ai nuovi tempi, tanto distante dai canoni consueti da venire battezzato in maniera quasi antitetica: class metal. Sì: classe. Perfino la metallurgia pesante (è questa la traduzione esatta, per essere precisi...) scopre che non si può rimanere incazzati e immusoniti sotto il cielo cristallino (smog permettendo...) della California, in quella Los Angeles che dopo anni di buio si ritrova capitale indiscussa del nuovo fenomeno musicale, la nuova mecca per le bands che vogliono inserirsi e ritagliarsi un posto sotto quel sole splendente. New York ed i suoi locali vanno in naftalina, e i nuovi luoghi di culto si chiamano Roxy, Troubadour, Gazarri’s, Blue Jay, Country Club, Cathouse. La scena di L.A. è la scena, e fatto salvo il minuscolo palcoscenico aperto nel New Jersey da Bon Jovy, tutta la saga dell’AOR si svolgerà nella città degli angeli, la città di Hollywood e Disneyland, fra le sgargianti scenografie di cartone racchiuse tra le spiagge di Venice e le ville di Malibù: un inequivocabile segno dei tempi e di ciò che l’America desidera dalla sua nuova colonna sonora.

E lo spettro di quel suono è tanto vasto da poter venire incontro ad ogni gusto ed esigenza. Ad un estremo stazionano la teatralità eccessiva e gradguignolesca dei WASP ( ossia: We Are Sexuals Perverts...), la pericolosità glam dei Motley Crüe, il pop metal scanzonato dei Ratt, la calcolata rozzezza elettrica ed anthemica dei Twisted Sister, la potenza metal/melodica dei Dokken; all’altro, le melodie levigate dei Journey e dei Foreigner, i richiami alla tradizione blues dei Great White, la rassicurante immagine da “bravo ragazzo” di Bon Jovy, il fascino sovrano degli Heart e della loro formidabile e bellissima cantante. In mezzo, una sterminata massa di bands che esplorano ogni possibile variante e sfumatura del connubio hard rock + melodia. Anche il più leggero pop-rock da classifica si ripresenta con una nuova tempra e lame più affilate: Bryan Adams, Aldo Nova, i Toto, Rick Springfield interpretano quella temperie che vuole volumi alti e chitarre a manetta anche nei più facili refrain da FM. E’ un’alluvione di elettricità che invade ogni angolino dove ci sia necessità o voglia di musica: perfino i jingle pubblicitari e le colonne sonore dei telefilm vengono ritmate a tempo di rock duro.  Se l’Europa viene contagiata da questa febbre tardi e in modo blando, il Giappone risponde entusiasticamente alle nuove sollecitazioni che arrivano dal Nord America, diventando a tutti gli effetti il secondo mercato per le bands di AOR. L’affermazione indiscutibile, anche a livello di puro trend giovanile, passa attraverso la neonata MTV, dove i video-clip delle AOR bands escono spesso e volentieri dal recinto loro assegnatogli ( il leggendario Headbangers Ball, che nel periodo di maggior successo del genere stabilì probabilmente il record interno di durata per una trasmissione della rete musicale, arrivando a tre ore tonde tonde) per sconfinare in heavy rotation.

Il cambiamento di sound era stato accompagnato - inevitabilmente - da un nuovo look. La trasandatezza dei ’70 aveva lasciato il posto ad uno sgargiante, ridondante insieme fatto di chiome platinate, fluenti o permanentate con chili di lacca, pantaloni di pelle o spandex multicolori, stivali da cowboys, spolverini di seta, lustrini, il tutto più o meno caricato a seconda dei generi specifici in cui le bands si andavano a situare, con i vari act del rinato movimento  glam esplosi nella seconda metà del decennio che aggiungevano al tutto anche make-up e pose ambigue. E’ un look deliziosamente falso, studiato per catturare gli occhi e dare preciso il senso della distanza fra musicisti e pubblico, l’opposto della spartana semplicità dei vecchi act, che salivano sul palco vestiti come i ragazzi che stavano qualche metro sotto di loro a guardarli suonare. Perché questo pubblico non ricerca la partecipazione, ma solo l’incanto, lo shock sensorio: vuol farsi avvincere, non convincere; farsi prendere in un vortice, non fare due chiacchiere. Nulla esprime meglio tutto ciò del titolo di un album dei WASP: Inside the electric circus. Tuffiamoci nel Circo Elettrico.

 

Questa lunga ubriacatura collettiva non poteva protrarsi all’infinito. I segnali che l’etica del “me ne frego” era destinata a produrre una serie quasi irreparabile di disastri non erano certo mancati. E la gente, nonostante ciò che pensano i politici e gli intellettuali, non è poi tanto stupida.

In musica, questi segnali portarono all’attenzione del pubblico un nuovo genere, lo street metal, che tenne banco per qualche anno dall’ ’87 in poi. Se i suoi più noti e chiassosi esponenti restano ancora oggi i Guns’n’Roses, forse i migliori e più sinceri alfieri del movimento furono L.A. Guns e Faster Pussycat. Più violenti e punkeggianti i primi, più decadenti e glam i secondi, agli occhi della gente rappresentavano comunque lo stesso messaggio: perfino sull’Hollywood Boulevard non è tutto oro quel che luce. Era la rabbia e la pericolosità del rock nella sua forma più tradizionale che rifaceva capolino dopo anni di rappresentazioni edulcorate, di concerti ridotti spesso a spettacoli di varietà, di provocazioni alla rovescia di bands come gli Styper che durante i loro shows lanciavano Bibbie al pubblico...

Gli anni’80 tramontavano fra bagliori corruschi, e la notte incombente era più nera del nero. Tutti sapevano che la festa stava per concludersi, e che l’inevitabile doposbronza sarebbe stato durissimo. Ma l’atteggiamento di molti, anche in musica, era freddo, compassato. Tante bands, pur di fronte ai segnali allarmanti che spuntavano ormai dappertutto, continuavano imperterrite lungo la strada dell’hard rock sofisticato, in una progressione che proprio in quegli ultimi anni avrebbe prodotto i frutti più splendidi e luminosi: Giant, House of Lords e, naturalmente, loro, che, citando Verlaine, potevano ben dire:

 

Io sono l’Impero alla fine della Decadenza, che guarda

passare i grandi barbari bianchi,

componendo acrostici indolenti,

d’uno stile d’oro in cui danza la luce del sole...

 

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I frutti più interessanti vengono generati spesso da unioni contro natura, da combinazioni poco probabili di fattori già noti, ed hanno vita breve e tormentata.  I Bad English appartengono a questa genia: nacquero dall’incontro di tre elementi ben distinti, splendettero luminosi come bengala in una notte senza luna, e durarono appena tre anni. Le  componenti basilari erano due coppie di musicisti che rappresentavano schegge fondamentali di bands già leggendarie: Neal Schon e Jonathan Cain, chitarra e tastiere, il cuore pulsante dei Journey; John Waite e Ricky Phillips, voce e basso, l’anima vibrante dei Babys. A completare il cerchio, Dean Castronovo, batterista di estrazione heavy metal. Era un’equazione inedita, eppure singolarmente azzeccata: il nucleo della band che aveva inventato l’AOR, un drummer fragoroso, un singer dalla voce nello stesso tempo così rock e così fragile. Alla fine degli anni ’80 il trend per l’hard melodico era fatto di volumi più alti ed un’aggressività più metallica, ma senza intaccare l’ampiezza dello spettro melodico: più acciaio, insomma, ma senza rinunciare a neppure un centimetro di seta. Tutto si riduceva alla ricerca di un equilibrio che pareva instabile, e lo era. Occorreva una bravura mostruosa ed un talento sconfinati per camminare lungo quel filo così sottile. Loro l’avevano, e non si limitarono ad una semplice passeggiata, ma si esibirono in volteggi e acrobazie irripetibili.

Il primo, omonimo album uscì nel 1989. Prodotto da Ritchie Zito - che si avvalse della collaborazione come ingegneri del suono e mixer di Phil Kaffel e Mike Fraser - con il robusto supporto nel songwriting di grossi calibri come Mark Spiro, Diane Warren, Martin Page, Bad English era una prova nello stesso tempo raffinata e fragorosa di lucidità compositiva, che riassumeva con esemplare chiarezza tutto il meglio che l’AOR poteva esprimere in quel particolare momento storico: “Best of what I got” era un titolo più che mai azzeccato per la canzone che apriva l’album, introdotta da una scintillante sezione fiati e da un solo spettacolare e vanhaleniano di Neal Schon. Parafrasando: questo è tutto il meglio che possiamo offrirvi.

Il percorso disegnato dalle tredici canzoni del disco era un continuo via vai tra i due poli opposti attorno a cui si è dipanato il filo dell’AOR: il romanticismo mai edulcorato e zuccheroso, e l’assalto frontale all’insegna del sex & fun. C’è quasi sempre una lei a cui John Waite si rivolge, con toni accorati (“Tought time don’t last”), teneri (“When I see you smile”), tentatori (“Heaven is a four letter word”), suadenti (“Price of love”, “Possession”), malinconici (“Ghost in your heart”), sfacciati ( “Lay down”, “Rockin’horse”, “Best of what I got”), minacciosi ( “Forget me not”). Il sound della band prende le mosse da quello già ampiamente collaudato dei Journey, ma ne amplifica e dilata lo spettro, estendendone e irrobustendone le trame: le chitarre si moltiplicano, la batteria s’innalza tuonante, i tappeti di tastiere si sovrappongono in maniera spettacolare, e anche le ballad più intense vengono avvolte in arrangiamenti ricchi di forza e colore, di suoni brillanti ma mai pomposi o sovraccarichi. Spesso e volentieri, la band deborda nel puro e semplice hard rock: melodico, of course, ma sempre decisamente hard, ed è straordinario sentire con quale autorità la voce esile di John Waite riesce a dominare l’incalzare affilato e funkeggiante di “Lay down”, a cavalcare il riff simil-zeppeliniano di “Ready when you are”, a tenere saldamente le briglie della scatenata “Rockin’ horse”. E la proposta non perde un grammo della sua raffinatezza neppure quando i volumi aumentano e i testi si fanno impudenti e carichi di allusioni: mai, prima, una band aveva dimostrato una tale dose di quella qualità così difficile da definire che viene chiamata classe, e che qui prende la forma di una sofisticata eleganza che neppure i facili refrain possono camuffare.

E Bad English non rappresentava una fonte di puro e semplice intrattenimento, ma un manifesto di quella dorata spensieratezza che aveva dominato l’animo degli yankees durante tutti i Big 80’s, un invito a chiudere tutto fuori e dedicarsi alle cose essenziali della vita: l’amore ed il divertimento. Non c’è spazio per il disagio, l’incertezza, l’indecisione, si punta dritto al bersaglio, lavorando attorno alla più classica iconografia rock, e John Waite può cantare con assoluta convinzione I pack a suitcase/ and move from town to town/ a little east of Eden/ too late to turn around oppure Desert highway to a memory/ I said that I’d come back for you/ by the jukebox at the starlight grill/ kickin’ out some Elvis tune... sono quarant’anni di immaginario del rock americano distillati in pochi, efficacissimi  versi. Un quadro dai colori squillanti, vividi, dove non può esserci posto per le ombre, e anche il malessere giovanile messo in musica in “The restless ones” viene esorcizzato con l’energia e l’entusiasmo: On the streets of this town there is no surrender/ They’ve got a number for every name/ Buildings and shopping malls seem like a stage for pretenders... They criticize the clothes you wear/ they try ad make you feel like stranger/ But you do things they wouldn’t dare... The wild heart is calling us in the night, a primitive love in your eyes/ Out on the wasteland of broken dreams go you and I, we’re the restless ones...

Ma le ombre, quelle ombre che nessuno voleva vedere, erano lì, in agguato...

 

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Nel 1991, una band di nome Nirvana si ritrova quasi da un giorno all’altro con il suo secondo album, ‘Nevermind’, al numero uno di Billboard. Non si potrebbe immaginare qualcosa di più radicalmente diverso nella musica e nel look di questi tre ragazzi giunti da una delle città più deprimenti degli USA - Seattle, al confine col Canada, dove piove trecento giorni l’anno - da quanto era andato per la maggiore fino a quel momento. I REM ed i Sonic Youth, i primi Black Sabbath ed il punk americano vengono impastati e sbriciolati e trasposti in salsa guitar-pop: la perfetta traslazione del troppo intellettuale college-rock per i gusti più semplici degli adolescenti, il tutto condito di testi anarco-nichilisti che puntano a solleticare ed attizzare furbescamente il disagio giovanile più che a lenirlo o a dargli una risposta. Le nuove parole d’ordine sono rabbia e indolenza, il divertimento smette di essere cool, e Kurt Cobain diventa l’ennesima incarnazione di Werther, terminando la sua vita nell’unico modo ammissibile per il ruolo di eroe maledetto che la stampa, i discografici ed i suoi fans sparsi in giro per il mondo gli avevano cucito addosso: sparandosi un colpo di fucile in faccia.

Bisogna ammettere che all’alba dei novanta non c’era poi molto da stare allegri: la recessione era tornata a colpire, e l’America si ritrovava piena di disoccupati e con un debito pubblico spaventoso; la prima guerra del golfo aveva fatto il resto. Ma tutto questo non può bastare a spiegare il cambiamento di rotta repentino e violento che quasi da un giorno all’altro lasciò disoccupate torme di AOR bands. Piuttosto, ci fu un deciso voltafaccia dei discografici, che scelsero in blocco di puntare sul nuovo trend musicale, pilotandolo come mai prima era avvenuto, spremendolo come un limone e seppellendolo in fretta e furia quando nuove sensazioni si affacciarono all’orizzonte.

I pochi superstiti della stagione precedente che ancora avevano il sostegno delle majors non faticavano troppo a tenere il mercato: Def Leppard, Van Halen, Bon Jovy continuarono tranquillamente a fare dischi (e a venderli) alla faccia dei Pearl Jam (che rimangono  a tutt’oggi la più raffinata ed ipocrita macchina per fare soldi mai messa in piedi dallo show business, una band che ha elevato la falsità e la sete di guadagno ad opera d’arte, e riesce a tradurre compiutamente e fino al suo fondo coperto di marciume il senso  di quella frase sibillina che tante volte è risuonata durante questo mezzo secolo di musica destinata al pubblico più giovane e sprovveduto: La grande truffa del rock’n’roll...). Ma indubbiamente, per tutti gli altri si preparavano tempi nerissimi. Chi tentò la carta della conversione alle nuove sonorità generalmente non ricevette in cambio che pernacchie o indifferenza: il caso dei Motley Crüe parla per tutti. Posto che le quote di mercato si erano ridotte, ci sarebbe comunque stato spazio per l’AOR nei cataloghi delle case discografiche, e per qualche tempo - un anno, forse due - il dubbio che il neonato grunge non fosse altro che un fuoco di paglia tormentò i consigli d’amministrazione delle grandi corporations del disco al punto da indurli a sostenere ugualmente - pur tra mille dubbi e ambiguità - quegli artisti che portavano avanti un discorso musicale cominciato ormai dieci anni prima. Di album registrati ma mai pubblicati, oppure ritirati dal mercato dopo pochi mesi potremmo fare un elenco lungo mezza pagina. Forse anche i Bad English  avrebbero rischiato di vedere il loro secondo lavoro, Backlash, condannato a diventare un disco fantasma, come quelli di Unruly Child o Beggars & Thieves, se non si fossero sbrigati a pubblicarlo proprio in quel fatale 1991.

 

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La fine della festa era ormai nell’aria, le ombre s’addensavano. C’era quasi un senso di catastrofe imminente che aleggiava su L.A.. E secondo il più classico dei copioni, tutti cercavano di ignorare quanto stava per capitargli tra capo e collo. Oppure, sovranamente sprezzanti, tiravano per la loro strada. E’ di questo clima che si fa interprete la canzone che apre Backlash, “So this is Eden”. Too far gone to turn around/ as I make it into town... Sì, troppo tardi per tornare indietro, e allora avanti, avanti... Il tono di quest’anthem raffinatissimo è solo in apparenza scanzonato: c’è una nota struggente, malinconica, quasi disperata e nello stesso tempo gelidamente divertita che risuona nella voce di John Waite. È la voce di chi sente che i bei giorni sono al capolinea, e quel che resta è godersela comunque finché è possibile: Hit the freeway to the skyline/ need some faster ecstasy. E così: I thought I saw Jesus in the hotel room/ As we made love on the balcony/ with a drink in my hand/ Like they said it would be, yeah/ So this is Eden... Dunque, questo è l’Eden: breve, finto, effimero. L’Eden è Los Angeles, la città di cartone e celluloide, perennemente in attesa di un Big One che la spazzi dalla faccia della terra, la Los Angeles sarcasticamente ritratta in “Life at the top”, dove if you’ve got the  image/ And symbol of success/ You must me doing something right/ To keep up with the Jones’s, la città dove If you get up on the table/ You’re gonna lose your place e If you need a plastic surgeon/ I know an ace/ You can’t change your past/ But he can change your face.

L’atmosfera che aleggia su Backlash è  - salvo per un paio di episodi isolati - solo lontana parente di quella che impregnava ogni nota di Bad English: qui c’è un feeling che sta al confine della malinconia, un senso di attesa, come di chi contempli un tramonto sfavillante e poi goda le lusinghe del crepuscolo ben sapendo che la notte non porterà che tenebre e gelo, ma deciso a godere ogni istante le dolcezze di quell’ambigua terra di confine situata tra il giorno e la notte, dolcezze che traggono la loro fonte proprio dalla natura ambigua, fugace ed illusoria di quella terra. Se ad un album si possono associare dei colori, questo risplende di oro rosso, azzurro cupo, quell’azzurro luminoso e tramato di nero che è l’essenza stessa del crepuscolo, l’azzurro che risplende e abbaglia ma senza dare vera luce. Sono i colori di “Savage blue”, di “Straight to your heart”, di “Make love last” e, sopratutto, di “Time stood still”, la ballad capolavoro, la ballad perfetta. Se le parole potessero tradurre fedelmente la magia e le emozioni, a questa sola canzone si dovrebbe dedicare un saggio, un libro intero. Ma dato che note e lettere non sono intercambiabili (e che la critica strutturalista, nella sua ansia di arrivare al fondo meccanico e puramente tecnico di qualsiasi forma d’espressione artistica, non è arrivata ancora a macellare ed a fare l’autopsia anche alla musica rock), un libro del genere credo non lo leggeremo mai... grazie a Dio.

The first time that I saw you, you were dancin’ on the beach/ Poetry in motion, but you seemed so out of reach/ And the waves were breakin’ round you, in the California sunset... Sono le parole che John Waite quasi sussurra dopo le prime note modulate dalla chitarra acustica di Neal Schon, per quest’unica occasione reminiscente di qualche lontana jam dei Santana. Magia... Per qualcun altro, solo una rappresentazione plastificata, edulcorata, irreale. Ma la storia che in pochi versi ci racconta il cantante, la ragazza bionda incontrata sulla spiaggia al tramonto, le mani che si toccano, la notte passata assieme, l’alba, lei che va via, per sempre, ma il tempo per me si è fermato, si è fermato a quella notte... Chi non ha mai sognato di vivere qualcosa del genere, scagli la prima pietra. E se pure sono centinaia le canzoni che hanno un testo imperniato su una vicenda di questo tipo, nessuna forse è mai riuscita a rappresentarla con più intensità ed oltre qualsivoglia romanticismo di maniera. Perché questo è Adult Oriented Rock, lo sguardo disincantato di chi ha vissuto qualche inverno più degli altri sulla terra. Disincantato, ma nient’affatto distaccato. Le emozioni, il richiamo dei sensi viene vissuto semplicemente in maniera meno tumultuosa, ma più profonda, viscerale. Quel richiamo, quella voce che è la nota vibrante nell’altro capolavoro assoluto del disco, “Pray for Rain”. Qui la passione non è dolcezza e nostalgia nel ricordo, ma un fuoco che brucia e ossessiona. Slave to a servant/ A prisoner to a kiss/ Addicted to temptation/ And we did not resist... La musica traduce con un’intensità da brividi quell’atmosfera sospesa, il riff avvolgente e nervoso scandito dalla chitarra, il pulsare del basso, i panneggi cupi e irrequieti delle tastiere e poi la voce di John Waite che si incunea fra quelle note sospese e palpitanti, una voce che vibra di attesa e di tensione, invocando la fine di quell’arsura eppure riconoscendone fino in fondo la natura inestinguibile:  Now I’m a stranger to myself/ Now my life is not my own/ She won’t leave my soul alone/ She’ll just lead me to the river/ As my heart goes down in flames/ Till she comes back to me/ I’ll have to pray for rain.

Il messaggio è chiaro: non c’è fuga, né redenzione. E per i restless ones cantati nel primo album può finire male, malissimo, come ai due protagonisti di “Rebel say a prayer, a cui rimane solo il sogno come scappatoia ad un mondo implacabile: Rebel say a prayer/ That there’s a place somewhere/ Where rock and roll goes on/ And we’ll be free/ Where Cadillacs have wings/ A place where Elvis sings/ for you and me... Ma i sogni non possono chiudere la porta in faccia alla realtà... And the cops are waiting down the street/ They both know that there’s no way out/ Johnny pulls his gun/ And all hell breaks loose...

 

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Quando Backlash fece la sua comparsa nei negozi, i Bad English già non esistevano più. John Waite lo fece capire suggellando con un “The End” la sua lunga lista personale di Thanks To nelle note del booklet. Insoddisfatto di quel discorso troppo hardeggiante, pretese un produttore tutto per sé che soprintendesse esclusivamente alle sue linee vocali, mentre il resto della band lavorò con Ron Nevison. Ciò non bastò a dissuaderlo dal mollare e tornare a quella musica pop che doveva parergli terreno molto più sicuro per la sua voce, bellissima ma obiettivamente tutt’altro che potente.

Caduta la chiave di volta che reggeva quell’architettura così ardita, tutto si sfasciò senza che nessuno degli altri tentasse di puntellarla. Neal Schon si aggregò temporaneamente agli esordienti Hardline, per poi riformare i Journey assieme a Jonathan Cain; Ricky Phillips andò in tour con David Coverdale e Jimmy Page, pubblicò il bellissimo disco con Fergie Fredericksen alla voce, passò a dedicarsi all’attività di session man e produttore, e recentemente è entrato a far parte degli Styx; Dean Castronovo seguì Neal Schon negli Hardline, poi ricominciò l’attività di turnista prima di unirsi ai Journey per ‘Arrival’. Nel bel mezzo della pseudo-rivoluzione grunge, furono pochi quelli che si accorsero che la più grande AOR band mai comparsa sulla faccia della terra non esisteva più.

 

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Alla domanda su cosa sia l’AOR oggi, è difficile trovare una risposta. Ci sono meno di una decina di etichette sparse in giro per il mondo che producono e pubblicano dischi di questo genere, e sinceramente non ho idea dei volumi di vendita che totalizzano. La quantità di proposte è sicuramente imponente, tra novità e ristampe, ma troppo spesso la qualità è un optional e tutto si riduce ad uno stanco rimasticare di vecchie cose. Che l’Adult Oriented Rock possa tornare a dominare la scena musicale, più che un sogno mi pare una chimera: se neppure il ritorno dei Journey in formazione originale è riuscito a dare una scossa al pubblico, se i Giant hanno trovato accoglienza per il loro terzo album (e che album!) solo presso l’italiana Frontiers, non mi pare realistico sperare che qualche nuovo act conquisti la fiducia di una delle labels che contano per preparare un rilancio in grande stile... anche se quello che sta succedendo con i The Darkness parrebbe smentire queste pessimistiche considerazioni di natura commerciale.

Il punto è però un altro. L’AOR ha rappresentato qualcosa di ben preciso per l’America degli anni ’80, rispondeva a delle esigenze, interpretava una certa way of life. Anche se non si può escludere a priori un’adesione sincera a quel gusto ed a quel modo di interpretare la musica rock, le tante bands svedesi, tedesche ed inglesi (per tacere di quelle spagnole, portoghesi, greche, eccetera) che formano oggi uno dei pilastri più solidi dell’hard rock melodico, non possono che limitarsi a proporre degli esercizi di stile, buoni finché si vuole, ma slegati inevitabilmente da quel clima che aveva creato e alimentato la scena. In quanto alle bands americane, è difficile capire fino a che punto portino avanti con sincerità quel discorso: la gran parte di esse, poi, è formata da reduci degli anni ’80, le nuove leve sono un’esigua minoranza ed è proprio questo particolare ad alimentare le previsioni più nere. Il cosiddetto “Nuovo Rock Melodico” che pretende di mescolare AOR ed hard rock moderno, e di cui si sono fatti portabandiera anche una “vecchia” band come gli Harem Scarem, personalmente mi lascia freddo e indifferente come un macigno, e mi appare come un ibrido senza capo né coda: considerato lo scarso entusiasmo dimostrato dal grande pubblico verso tale genere di esperimenti, non mi pare che il futuro sia destinato a passare attraverso questi sentieri.

In definitiva, non si può rispondere alla domanda “Dove va l’AOR?”  che con un gigantesco punto interrogativo.

 

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Uno dei vezzi a cui l’attuale scena AOR proprio non sembra voler rinunciare è quello dei ritorni di bands più o meno storiche, più o meno grandi e/o famose.  Negli anni, citando alla spicciolata, abbiamo visto ricomparire monickers come XYZ, Hurricane, Axe, Loverboy, Bystander... per non parlare di Journey e Giant. Recentissimo è il ritorno di pilastri del genere come gli House of Lords (che però, alla luce di quanto appena pubblicato, col genere in discorso hanno ormai ben poco a che fare). La domanda, inevitabile, è: rispunteranno anche i Bad English? Non credo sia necessario invocare la protezione e la tutela degli angeli custodi dell’AOR che ci scampino da questo pericolo, perché un riemergere dalle nebbie del passato di quel monicker è davvero improbabile. Accontentiamoci di sentirne gli echi nelle canzoni di tutti quelli - e non sono pochi - che li tengono come guida sicura per muoversi in quell’oceano sconfinato che era (e forse è ancora oggi) l’Adult Oriented Rock. Che è stato ben più di un po’ di chitarre in overdrive ed una voce che urlava “Let’s paaarty!!”.  E basta ascoltare questi due album per capirlo.

 

© 2004 AORARCHIVIA

 

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